Santa Teresa di Lisieux - Storia di un’anima - Scritto autobiografico A - II parte diretto a madre Agnese di Gesù (la sorella Paolina)

Storia di un’anima

di

Santa Teresa

di Gesù Bambino e del Volto Santo

(di Lisieux)


Scritto autobiografico A – II parte

diretto a madre Agnese di Gesù (la sorella Paolina)

5. Adolescenza aperta (1886-1887)

La grazia del Natale 1886 – Zelo per le anime e prima conquista – Attrazione per la storia e le scienze – Pie letture – Colloqui con Celina al «belvedere» – Disegno di entrare al Carmelo a 15 anni – Consenso del babbo – Ostacoli da parte dello zio Guérin e del superiore del monastero – Infruttuoso tentativo presso il Vescovo di Bayeux.

132 – Se il Cielo mi colmava di grazie, non era già perché io le meritassi, ero ancora tanto imperfetta! Avevo, è vero, un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: poiché ero l’ultima, non ero avvezza a servirmi, Celina faceva la camera ove dormivamo e io non facevo nessun lavoro domestico; dopo che Maria fu entrata nel Carmelo, mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio di rifarmi il letto, oppure, in assenza di Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiori: come ho detto, era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimè! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto… Tutti i ragionamenti erano inutili e non potevo arrivare a correggermi di questo brutto difetto.

133 – Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell’infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale; in quella notte luminosa che rischiara le delizie della Trinità Santa, Gesù, il Bambino piccolo e dolce di un’ora, trasformò la notte dell’anima mia in torrenti di luce… In quella notte nella quale egli si fece debole e sofferente per amor mio, mi rese forte e coraggiosa, mi rivesti delle sue armi, e da quella notte benedetta in poi, non fui vinta in alcuna battaglia, anzi, camminai di vittoria in vittoria, e cominciai, per così dire, una «corsa da gigante». La sorgente delle mie lacrime fu asciugata e non si apri se non raramente e difficilmente, e ciò giustificò la parola che mi era stata detta: «Piangi tanto nella tua infanzia, ché più tardi non avrai più lacrime da versare!». Fu il 25 dicembre 1886 che ricevetti la grazia di uscire dall’infanzia, in una parola la grazia della mia conversione completa. Tornavamo dalla Messa di mezzanotte durante la quale avevo avuto la felicità di ricevere il Dio forte e potente. Arrivando ai Buissonnets mi rallegravo di andare a prendere le mie scarpette nel camino, quest’antica usanza ci aveva dato tante gioie nella nostra infanzia, che Celina voleva continuare a trattarmi come una piccolina, essendo io la più piccola della famiglia… A Papà piaceva vedere la mia felicità, udire i miei gridi di gioia mentre tiravo fuori sorpresa su sorpresa dalle «scarpe incantate» e la gaiezza del mio Re caro aumentava molto la mia contentezza; ma Gesù, volendomi mostrare che dovevo liberarmi dai difetti dell’infanzia, mi tolse anche le gioie innocenti di essa; permise che Papà, stanco dalla Messa di mezzanotte, provasse un senso di noia vedendo le mie scarpe nel camino, e dicesse delle parole che mi ferirono il cuore: «Bene, per fortuna che è l’ultimo anno!…». Io salivo in quel momento la scala per togliermi il cappello; Celina, conoscendo la mia sensibilità, e vedendo le lacrime nei miei occhi, ebbe voglia di piangere anche lei, perché mi amava molto, e capiva il mio dispiacere. «Oh, Teresa! – disse -, non discendere, ti farebbe troppa pena guardare subito nelle tue scarpe». Ma Teresa non era più la stessa, Gesù le aveva cambiato il cuore! Reprimendo le lacrime, discesi rapidamente la scala, e comprimendo i battiti del cuore presi le scarpe, le posai dinanzi a Papà, e tirai fuori gioiosamente tutti gli oggetti, con l’aria beata di una regina. Papà rideva, era ridiventato gaio anche lui, e Celina credeva di sognare! Fortunatamente era una dolce realtà, la piccola Teresa aveva ritrovato la forza d’animo che aveva perduta a quattro anni e mezzo, e da ora in poi l’avrebbe conservata per sempre!

134 – In quella notte di luce cominciò il terzo periodo della mia vita, più bello degli altri, più colmo di grazie del Cielo. In un istante l’opera che non avevo potuto compiere in dieci anni, Gesù la fece contentandosi della mia buona volontà che non mi mancò mai. Come i suoi apostoli avrei potuto dirgli: «Signore, ho pescato tutta la notte senza prender nulla»; più misericordioso ancora per me che non per i suoi discepoli, Gesù prese egli stesso la rete, la gettò e la tirò su piena di pesci. Fece di me un pescatore di uomini, io sentii un desiderio grande di lavorare alla conversione dei peccatori, un desiderio che mai avevo provato così vivamente… Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice! Una domenica, guardando una immagine di Nostro Signore in Croce, fui colpita dal sangue che cadeva da una mano sua divina, provai un dolore grande pensando che quel sangue cadeva a terra senza che alcuno si desse premura di raccoglierlo; e risolsi di tenermi in ispirito a piè della Croce per ricevere la divina rugiada, comprendendo che avrei dovuto, in seguito, spargerla sulle anime… Un grido di Gesù sulla Croce mi echeggiava continuamente nel cuore: «Ho sete!». Queste parole accendevano in me un ardore sconosciuto e vivissimo… Volli dare da bere all’Amato, e mi sentii io stessa divorata dalla sete delle anime. Non erano ancora le anime dei sacerdoti che mi attraevano, ma quelle dei grandi peccatori, bruciavo dal desiderio di strapparli alle fiamme eterne…

135 – Per eccitare il mio zelo, Dio mi mostrò che i miei desideri gli piacevano. Intesi parlare d’un grande criminale, che era stato condannato a morte per dei delitti orribili, tutto faceva prevedere ch’egli morisse nell’impenitenza. Volli a qualunque costo impedirgli di cadere nell’inferno, e per arrivarci usai tutti i mezzi immaginabili; consapevole che da me stessa non potevo nulla, offersi al buon Dio tutti i meriti infiniti di Nostro Signore, i tesori della santa Chiesa, finalmente pregai Celina di far dire una Messa secondo la mia intenzione, non osando chiederla io stessa per timore d’essere costretta a confessare ch’era per Pranzini, il grande criminale. Non volevo dirlo nemmeno a Celina, ma lei mi fece domande così tenere e pressanti, che le confidai il mio segreto; ben lungi dal prendermi in giro, mi chiese di aiutarmi a convertire il mio peccatore; accettai con riconoscenza, perché avrei voluto che tutte le creature si unissero con me per implorare la grazia a favore del colpevole. Sentivo in fondo al cuore la certezza che i desideri nostri sarebbero stati appagati; ma, per darmi coraggio e continuare a pregare per i peccatori, dissi al buon Dio che ero sicura del suo perdono per lo sciagurato Pranzini: e che avrei creduto ciò anche se quegli non si fosse confessato e non avesse dato segno di pentimento, tanta fiducia avevo nella misericordia infinita di Gesù, ma che gli chiedevo solamente «un segno» di pentimento per mia semplice consolazione… La mia preghiera fu esaudita alla lettera! Nonostante la proibizione che Papà ci aveva posta di leggere giornali, non credetti disobbedire leggendo le notizie su Pranzini. il giorno seguente alla sua esecuzione capitale mi trovo in mano il giornale: «La Croix». L’apro con ansia, e che vedo? E lì, le mie lacrime tradirono la mia emozione, e fui costretta a nascondermi. Pranzini non si era confessato, era salito sul patibolo e stava per passare la testa nel lugubre foro, quando a un tratto, preso da una ispirazione subitanea, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presentava, e bacia per tre volte le piaghe divine! Poi l’anima sua va a ricevere la sentenza misericordiosa di Colui che dice: «Ci sarà più gioia in Cielo per un solo peccatore il quale faccia penitenza che per novantanove giusti i quali non ne hanno bisogno…».

136 – Avevo ottenuto «il segno» richiesto, e quel segno era la riproduzione fedele delle grazie che Gesù mi aveva fatte per attirarmi a pregare in favore dei peccatori. Non era davanti alle piaghe di Gesù, vedendo cadere il suo Sangue divino, che la sete delle anime mi era entrata nel cuore? Volevo dar loro da bere quel Sangue immacolato che avrebbe purificato le loro macchie, e le labbra del «mio primo figlio» andarono a posarsi sulle piaghe sante!!! Quale risposta dolcissima! Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di salvare anime crebbe giorno per giorno; mi pareva udire Gesù che mi dicesse, come alla Samaritana: «Dammi da bere». Era un vero scambio di amore; alle anime davo il Sangue di Gesù, a Gesù offrivo quelle anime stesse rinfrescate dalla rugiada divina; mi pareva così di dissetarlo, e più gli davo da bere più la sete della mia povera anima cresceva, ed era quella sete ardente che egli mi dava come la bevanda più deliziosa del suo amore.

137 – In poco tempo il Signore aveva saputo trarmi fuori dal circolo angusto entro il quale mi dibattevo senza sapere come uscirne. Vedendo il cammino che mi fece percorrere, la mia riconoscenza è grande, ma bisogna bene che ne convenga, se il passo più importante era fatto, mi restavano ancora molte cose da lasciare. Liberato dagli scrupoli, dalla sensibilità eccessiva, lo spirito mio si sviluppò. Avevo amato sempre il grande, il bello, ma a quel tempo fui presa da un desiderio estremo di sapere. Senza contentarmi delle lezioni e dei compiti che mi dava la mia maestra, mi dedicavo da sola a studi speciali di storia e di scienze. Gli altri studi mi lasciavano indifferente, ma questi due rami attraevano tutta la mia attenzione; così, in pochi mesi, acquistai più nozioni che durante anni di studi. Ah, ciò non era che vanità e afflizione di spirito. Il capitolo della Imitazione che parla di scienze mi tornava spesso alla mente, ma io trovavo il modo per continuare ugualmente, e dicevo a me stessa che, essendo in età di studiare, non c’era male nel farlo. Credo di non avere offeso il buon Dio (nonostante che riconosca di aver speso in queste cose un tempo inutile), perché impegnavo nello studio soltanto un limitato numero di ore, e per mortificare il mio desiderio troppo vivo di sapere, volevo non superare questo limite. Ero nell’età più pericolosa per le giovanette, ma il Signore ha fatto per me ciò che racconta Ezechiele nelle sue profezie: «Passandomi vicino, Gesù ha visto che il tempo era venuto per me di essere amata, ha fatto alleanza con me, e sono divenuta sua. Ha spiegato sopra di me il suo manto, mi ha lavata in profumi preziosi, mi ha ricoperta di vesti ricamate, abbigliandomi di collane e ornamenti inestimabili… Mi ha nutrita della farina più pura, di miele e d’olio in abbondanza… allora sono divenuta bella agli occhi di lui, ed egli ha fatto di me una regina potente!…».

138 – Si, Gesù ha fatto per me tutto questo, potrei riprendere ciascuna parola che ho scritto, e provare che si è avverata in mio favore, ma le grazie che ho raccontato poco fa offrono una prova sufficiente; parlerò soltanto del nutrimento che mi è stato prodigato «in abbondanza». Da lungo tempo mi nutrivo della «pura farina» contenuta nella Imitazione, era l’unico libro che mi facesse del bene, perché non avevo ancora trovato i tesori nascosti nel Vangelo. Sapevo a memoria quasi tutti i capitoli della mia cara Imitazione, questo libretto non mi abbandonava mai; d’estate lo portavo in tasca, d’inverno nel manicotto, in tal modo era divenuto tradizionale; in casa della zia si divertivano molto aprendolo a caso, e facendomi recitare il capitolo che si trovava davanti agli occhi. A quattordici anni, dato il mio desiderio di scienza, il buon Dio giudicò necessario unire alla «pura farina», «miele ed olio in abbondanza». Quel miele e quell’olio me li fece trovare nelle conferenze del reverendo Don Arminjon sulla fine del mondo presente e i misteri della vita futura. Questo libro l’avevano prestato a Papà le mie care Carmelitane, e così, contrariamente alle mie abitudini (perché non leggevo i libri di Papà), chiesi di leggerlo. Quella lettura fu anch’essa una delle grazie più grandi della mia vita, la feci accanto alla finestra della mia stanza da studio, e l’impressione che ancora ne risento è troppo intima e dolce perché io possa esprimerla. Tutte le grandi verità della religione, i misteri dell’eternità, immergevano l’anima mia in una felicità che non era di questa terra… Presentivo ciò che Dio riserva a coloro che l’amano (non già con l’occhio dell’uomo, bensì con quello del cuore), e vedendo che le ricompense eterne non hanno proporzione alcuna con i leggeri sacrifici della vita, volevo amare, amare Gesù con passione, dargli mille prove d’amore finché lo potevo ancora. Copiai vari passi sul perfetto amore e sull’accoglienza che il buon Dio farà ai suoi eletti nel momento in cui egli stesso diverrà la loro grande, eterna ricompensa; ripetevo continuamente le parole d’amore che mi avevano incendiato il cuore.

139 – Celina era divenuta la confidente intima dei miei pensieri; dal Natale in poi, potevamo capirci, la distanza di età non esisteva più, poiché ero divenuta grande di statura e soprattutto in grazia. Prima di quel tempo mi lamentavo spesso di non conoscere i segreti di Celina, lei mi diceva che ero troppo piccola, bisognava ch’io crescessi quanto «l’altezza di un panchettino» perché lei potesse aver fiducia in me. Mi piaceva di salire su quel prezioso panchettino quando ero accanto a lei, e le dicevo di parlarmi intimamente, ma il mio stratagemma era inutile, una certa distanza ci separava ancora! Gesù, che voleva farci progredire insieme, formò nei nostri cuori dei vincoli più forti di quelli del sangue. Ci fece diventare sorelle d’anima, in noi si tradussero in pratica queste parole del Cantico di san Giovanni della Croce (parlando al suo Sposo, la sposa esclama): «Seguendo le tue orme, le giovani percorrono con passo lieve il cammino, il contatto con la scintilla, il vino aromatico, suscitano in esse delle aspirazioni divinamente profumate». Sì, con passo ben lieve noi seguivamo le orme di Gesù; le scintille d’amore che egli seminava a piene mani nelle anime nostre, il vino delizioso e forte che ci dava da bere, faceva sparire ai nostri occhi le cose passeggere, e dalle nostre labbra uscivano aspirazioni d’amore da lui stesso ispirate. Com’erano dolci le conversazioni che avevamo ogni sera nel belvedere! Lo sguardo abbandonato alle lontananze, contemplavamo la luna bianca che si alzava lenta dai grandi alberi… i riflessi argentei che diffondeva sulla natura addormentata… le stelle che scintillavano nell’azzurro profondo, il soffio lieve della brezza nella tarda sera faceva fluttuare le nuvole nevose, tutto elevava le anime nostre verso il Cielo, il Cielo bello del quale ancora non vedevamo se non il «rovescio limpido». Non so se sbaglio, ma mi pare che l’abbandono delle nostre anime somigliasse a quello di santa Monica con suo figlio quando, al porto di Ostia, restavano perduti nell’estasi alla vista delle meraviglie operate dal Creatore! Mi sembra che ricevevamo grazie di un ordine tanto elevato come quelle concesse ai grandi santi. Come dice l’Imitazione, il Signore si comunica talvolta in mezzo a un vivo splendore, oppure «velato dolcemente sotto ombre o simboli»; era in questo modo che si degnava manifestarsi alle nostre anime, ma com’era trasparente e leggero il velo che ci nascondeva Gesù! il dubbio non era possibile, già la fede e la speranza non erano più necessarie, l’amore ci faceva trovare sulla terra colui che cercavamo. “Avendolo trovato solo, egli ci aveva dato il suo bacio, affinché nell’avvenire nessuno potesse disprezzarci”.

140 – Grazie tanto grandi non dovevano rimanere prive di frutti, e questi anzi furono abbondanti, la pratica della virtù ci divenne dolce e naturale; dapprincipio il mio viso tradiva spesso il combattimento, ma a poco a poco quella espressione scomparve; e la rinuncia mi divenne facile anche dal primo istante. Gesù l’ha detto: «A colui che possiede, verrà dato ancora, e sarà nell’abbondanza». Per una grazia ricevuta fedelmente, egli me ne concedeva molte altre… Si dava egli stesso a me nella santa Comunione più spesso di quanto avrei osato sperare. Avevo preso per regola di condotta di fare, senza ometterne una sola, le Comunioni che il confessore mi avrebbe permesse, ma di lasciare che egli ne stabilisse il numero, senza mai chiedergliele. A quel tempo non avevo affatto l’audacia che possiedo ora, altrimenti avrei agito in modo diverso, perché sono ben sicura che un’anima deve dire al confessore quale attrattiva provi per ricevere il suo Dio; non è per restare nel ciborio d’oro che egli discende ogni giorno dal Cielo, ma è per trovare un altro Cielo che gli è infinitamente più caro del primo: il Cielo dell’anima nostra, fatta a immagine sua, il tempio vivo dell’adorabile Trinità! Gesù vedeva il mio desiderio e la dirittura del mio cuore; permise che durante il mese di maggio il confessore mi dicesse di fare la santa Comunione quattro volte la settimana, e passato quel bel mese ne aggiunse una quinta per ogni volta che capitasse una festa. Quando uscii dal confessionale, piangevo con tanta dolcezza; mi pareva che Gesù stesso volesse darsi a me, perché la mia confessione era breve, non dicevo mai una parola dei miei sentimenti intimi, essendo così dritta la via su cui camminavo, e così luminosa che non mi occorreva altra guida se non Gesù. Paragonavo i direttori a specchi fedeli che riflettessero Gesù nelle anime, e dicevo che per me il buon Dio non si serviva d’intermediario, bensì agiva direttamente! Lasciarlo sospeso all’albero, bensì per presentarlo sopra una tavola servita brillantemente. Con una intenzione simile Gesù prodigava le sue grazie all’umile fiore. Gesù che, ai tempi della sua vita terrena, esclamava in un impeto di gioia: «Padre mio, ti benedico perché hai nascosto queste cose ai saggi e ai potenti, e le hai rivelate ai più piccoli!», voleva far rifulgere in me la sua misericordia; perché ero piccola e debole si abbassava verso me, m’istruiva in segreto delle cose del suo amore. Ah, se i sapienti, dopo aver passato la loro vita negli studi, fossero venuti a interrogarmi, senza dubbio sarebbero rimasti meravigliati vedendo una fanciulla di quattordici anni capire i segreti della perfezione, segreti che tutta la loro scienza non può scoprire, poiché per possederli bisogna essere poveri di spirito! Come dice san Giovanni della Croce nel suo Cantico: «Non avevo né guida, né luce, fuorché quella che mi splendeva nel cuore, quella luce mi guidava più sicuramente che il fulgore meridiano al luogo ove mi attendeva Colui che mi conosce perfettamente». Quel luogo era il Carmelo; prima di «riposarmi all’ombra di Colui che desideravo», dovevo passare per tante prove, ma la chiamata divina era così pressante che, se anche avessi dovuto traversare le fiamme, l’avrei fatto per essere fedele a Gesù…

142 – Per incoraggiarmi nella vocazione trovai una sola anima, quella della mia Madre cara… il cuore mio trovò nel suo una eco fedele, e senza di lei certamente non sarei arrivata alla riva benedetta che aveva accolto anche lei cinque anni prima sopra una terra permeata di rugiada celeste. Si, da cinque anni ero lontana da lei, Madre cara, credevo di averla perduta, ma al momento della prova fu la mano sua che m’indicò il cammino. Avevo bisogno di questo conforto, perché le mie conversazioni al Carmelo mi erano divenute più e più penose, non potevo parlare del mio desiderio d’entrare senza sentirmi respinta. Maria, pensando che fossi troppo giovane, faceva tutto il possibile per impedire il mio ingresso; lei stessa, Madre, per provarmi, tentava qualche volta di attenuare il mio ardore; insomma, se non avessi avuto davvero la vocazione, mi sarei fermata fin dall’inizio, perché incontravo ostacoli appena cominciavo a rispondere alla chiamata di Gesù. Non volli dire a Celina il mio desiderio di entrare così giovane nel Carmelo, e ciò mi fece soffrire di più perché mi era ben difficile nasconderle qualche cosa… La sofferenza non durò a lungo, ben presto la mia sorella cara seppe la mia decisione, e lungi dal tentare di dissuadermi, accettò con coraggio mirabile il sacrificio che il buon Dio le chiedeva; per capire quanto fu grande, bisognerebbe sapere fino a che punto eravamo unite. Era, per così dire, la stessa anima che ci faceva vivere; da pochi mesi godevamo insieme la vita più dolce che due giovanette possano sognare; tutto, intorno a noi, rispondeva ai nostri gusti, la libertà più grande ci era concessa, insomma io dicevo che la nostra vita sulla terra era l’ideale della felicità… Avevamo avuto appena il tempo per gustare questo ideale di felicità che bisognava distoglierci da esso liberamente, e la mia Celina non si ribellò nemmeno per un attimo. Eppure, non era lei che Gesù chiamava per prima, e perciò ella avrebbe potuto lamentarsi; avendo la mia stessa vocazione, stava a lei partire: ma, come ai tempi dei martiri, quelli che restavano nella prigione davano gioiosamente il bacio di pace ai fratelli i quali partivano primi per combattere nell’arena, e si consolavano col pensiero che forse essi erano riservati a certami ancora più grandi; così Celina lasciò che la sua Teresa si allontanasse e restò sola per la gloriosa e sanguinosa prova alla quale Gesù la destinava come privilegiata del suo amore!

143 – Celina divenne dunque la confidente delle mie lotte e dei miei patimenti, e prese parte ad essi come se si fosse trattato della vocazione sua; da parte di lei non avevo da temere opposizione, ma non sapevo che strada prendere per dare l’annuncio a Papà. Come parlargli di lasciar la sua regina, a lui che aveva sacrificato le sue tre maggiori? Ah, i conflitti intimi che ho sofferto prima di sentirmi il coraggio di parlare! E tuttavia bisognava che mi decidessi; avevo quattordici anni e mezzo, sei mesi soltanto ci separavano dalla bella notte di Natale nella quale avevo deciso di entrare, nell’ora stessa in cui, l’anno precedente, avevo ricevuto la «mia grazia». Per fare la mia grande rivelazione scelsi il giorno di Pentecoste; per tutta la giornata supplicai i santi Apostoli di pregare per me, di ispirarmi le parole che dovevo dire… Toccava pure loro di aiutare la bambina timida che Dio destinava a divenire l’apostolo degli apostoli per mezzo della preghiera e del sacrificio! Soltanto nel pomeriggio, tornando dai vespri, trovai l’occasione per parlare al mio Babbo carissimo; era andato a sedersi sul bordo della vasca, e, con le mani giunte, contemplava le meraviglie della natura; il sole con la sua luce raddolcita dorava le cime dei grandi alberi ove gli uccelli cantavano gioiosi la loro preghiera della sera. Il bel volto di Papà aveva una espressione celeste, sentivo che la pace gli inondava il cuore; senza dire una parola mi sedetti accanto a lui, gli occhi pieni di pianto; mi guardò con tenerezza, mi prese la testa e l’appoggiò sul suo cuore, dicendomi: «Che cos’hai, reginetta? Confidamelo». Poi, alzandosi come per nascondere la propria emozione, camminò lentamente tenendomi sempre la testa appoggiata sul suo cuore. Tra le lacrime gli confidai che desideravo entrare nel Carmelo; allora le lacrime sue si unirono alle mie, ma non disse una parola per distogliermi dalla mia vocazione; si contentò di farmi osservare che ero molto giovane per prendere una decisione tanto grave. Ma io difesi la mia causa tanto bene che Papà, con la sua natura semplice e dritta, fu convinto ben presto che il mio desiderio era di Dio stesso, e, nella sua fede profonda, esclamò che Dio gli faceva un grande onore chiedendogli così le sue figlie. Continuammo a lungo la nostra passeggiata; il cuore mio, sollevato dalla bontà con la quale era stata accolta la sua rivelazione dal Padre mio incomparabile, si apriva dolcemente nel cuore di lui. Pareva che Papà godesse di quella gioia tranquilla che dà il sacrificio consumato, mi parlò come un santo, e vorrei ricordare le sue parole per scriverle qui, ma ho conservato di esse un ricordo troppo profumato perché si possa tradurlo. Mi ricordo perfettamente l’azione simbolica che il mio Re compì senza saperlo. Si avvicinò ad un muricciolo, mi mostrò dei fiorellini bianchi che crescevano su di esso simili a gigli in miniatura, poi ne prese uno e me lo dette, spiegandomi con quanta cura il buon Dio l’aveva fatto nascere e l’aveva custodito fino a quel giorno; ascoltando, io credevo di udire la storia mia, tanta era la somiglianza tra quello che Gesù aveva fatto per il mughetto umile e per la piccola Theresa. Ricevetti quel fiore come una reliquia, e vidi che, cogliendolo, Papà aveva divelto tutte le radici esili senza spezzarle; quasi affinché vivesse ancora in un’altra terra più fertile del muschio tenero nel quale erano trascorsi i suoi primi giorni. Era proprio questo medesimo atto che Papà aveva fatto per me qualche istante prima, permettendomi di salire la montagna del Carmelo e lasciare la vallata dolce nella quale avevo mosso i primi passi. Posi il tenue calice bianco nella mia Imitazione, al capitolo intitolato: «Che bisogna amare Gesù al di sopra di tutto», ed è ancora li, soltanto lo stelo si è spezzato proprio in un punto vicino alla radice, e il buon Dio sembra voglia dire con ciò che romperà presto i legami del suo fiorellino, e non lo lascerà appassire sulla terra

144 – Dopo avere ottenuto il consenso di Papà, credevo di potere entrare senza timore al Carmelo, ma delle vicende molto dolorose dovevano ancora mettere alla prova la mia vocazione. Tremando confidai allo zio la risoluzione presa. Mi rispose con tutta la possibile tenerezza, ma non mi dette il consenso alla partenza, anzi, mi proibì di riparlargli di vocazione prima di avere diciassette anni. Era contrario alla prudenza umana – diceva – fare entrare nel Carmelo una bambina di quindici anni; la vita di carmelitana essendo agli occhi del mondo una vita da filosofi, si farebbe gran torto alla religione permettendo ad una fanciulla priva di esperienza di abbracciarla. Tutti ne parlerebbero, ecc. ecc. Disse perfino che per decidere lui a farmi partire sarebbe stato necessario un miracolo. Vidi bene che tutti i ragionamenti erano inutili, perciò mi ritirai, col cuore immerso nell’amarezza più profonda. Unica mia consolazione: la preghiera. Supplicavo Gesù di fare il miracolo richiesto, poiché soltanto a quel prezzo avrei potuto rispondere al suo appello. Passò un tempo assai lungo prima che osassi parlare nuovamente allo zio; mi costava sommamente andare da lui; da parte sua pareva ch’egli non pensasse più alla mia vocazione, ma ho saputo più tardi che la mia grande tristezza gli fece una impressione profonda a mio favore. Prima di far splendere sull’anima mia un raggio di speranza, piacque al Signore di mandarmi un martirio molto doloroso che durò tre giorni, Oh, mai ho capito tanto bene come durante quella prova, il dolore della Vergine Santissima e di san Giuseppe alla ricerca di Gesù Bambino. Ero in un deserto triste, o piuttosto l’anima mia era simile allo scafo fragile privo di nocchiero, in balìa della tempesta. Lo so, Gesù era presente, assopito nella mia barchetta, ma la notte era così nera che non potevo vederlo; niente m’illuminava, nemmeno un lampo che solcasse le nuvole oscure. Certo, è ben triste il bagliore dei lampi, ma almeno, se il temporale fosse scoppiato apertamente, avrei potuto forse intravedere Gesù per un attimo… invece, la notte, profonda notte dell’anima… Come Gesù nel giardino dell’agonia mi sentivo sola, non trovavo consolazione né in terra, né dalla parte del Cielo, pareva che il buon Dio mi avesse abbandonata! E pareva anche che la natura prendesse parte alla mia tristezza amara; durante quei tre giorni il sole non ebbe un raggio, e la pioggia cadde a torrenti. (Ho notato che, in tutte le circostanze gravi della mia vita, la natura era l’immagine dell’anima mia. Nei giorni di pianto, il Cielo piangeva con me, nei giorni di gioia, il sole splendeva e l’azzurro era puro). Finalmente il quarto giorno, un sabato, giorno consacrato alla dolce Regina dei Cieli, andai a trovare lo zio. Come rimasi sorpresa vedendo che mi guardava e mi faceva entrare nel suo studio senza che io gli avessi detto nulla! Cominciò col farmi dolci rimproveri perché avevo paura di lui, e poi mi disse: «Non è necessario chiedere un miracolo, ho soltanto pregato il Signore che mi dia “un semplice orientamento del cuore” e sono stato esaudito». Ah! io non fui più tentata di implorare un miracolo perché, secondo me, il miracolo era già concesso, lo zio non era più lui. Senza più alcuna allusione alla «prudenza umana» mi disse: «Tu sei un fiorellino che Dio vuole cogliere, e io non mi oppongo più».

145 – Questa risposta definitiva era degna davvero di lui. Per la terza volta questo cristiano di altri tempi permetteva che una figlia adottiva del suo cuore andasse a seppellirsi lontana dal mondo. La zia fu mirabile anche lei per tenerezza e prudenza; non ricordo che, durante la mia prova, ella abbia detto una sola parola tale da aumentarmi la sofferenza, vedevo invece che aveva grande compassione della povera piccola Teresa, così, quand’ebbi ottenuto il consenso dello zio tanto caro, lei mi dette il suo, ma non senza mostrarmi in mille modi che la mia partenza l’avrebbe addolorata. Ahimè! i nostri cari parenti erano ben lungi da prevedere che avrebbero dovuto rinnovare per due volte ancora il medesimo sacrificio. Ma, tendendo la mano per chiedere sempre, il buon Dio non la presentò vuota: i suoi amici poterono attingere in abbondanza la forza e il coraggio necessari… Ma ecco il cuore che mi trascina lungi dal mio soggetto, ci ritorno quasi con rincrescimento: dopo la risposta dello zio, lei capisce, Madre, con quale allegrezza ripresi la via dei Buissonnets, sotto «il bel cielo, da cui le nubi si erano completamente dissipate!». Anche nell’anima mia la notte era finita. Gesù svegliandosi mi aveva ridato la gioia, il fragore delle ondate si era placato: invece del vento della prova, un soffio lieve gonfiava la mia vela e io credevo di arrivare ben presto alla riva benedetta che scorgevo tanto vicina. In realtà era vicina, ma più di un temporale doveva ancora sorgere e, offuscando la vista del faro, farmi temere di essermi allontanata, senza ritorno, dalla spiaggia ambita.

146 – Pochi giorni dopo avere ottenuto il consenso dello zio, venni a trovarla, Madre mia cara, e le dissi la mia gioia che tutte le prove fossero passate; ma quale sorpresa ebbi, e quale dolore, sapendo da lei che il Superiore non acconsentiva al mio ingresso prima dei miei ventun anni! Nessuno aveva pensato a questa opposizione, più invincibile delle altre; tuttavia, senza perdermi di coraggio, andai io stessa con Papà e Celina da Nostro Padre, per cercare di commuoverlo, dimostrandogli che avevo, sì, la vocazione al Carmelo! Ci ricevette molto freddamente; il mio Babbo ineguagliabile ebbe un bell’unire le sue istanze alle mie, niente poté mutare la sua disposizione. Mi disse che non c’erano pericoli nell’attesa, che potevo ben fare vita carmelitana nella mia casa, che se non avessi preso la disciplina niente si sarebbe perduto, ecc. ecc. e finì per aggiungere che egli era soltanto il delegato di Monsignore e che, se Monsignore stesso avesse voluto permettermi di entrare nel Carmelo, lui non avrebbe avuto più nulla da dire… Uscii tutta in lacrime dalla canonica, fortunatamente ero nascosta sotto l’ombrello, perché la pioggia cadeva a torrenti. Papà non sapeva come consolarmi… Mi promise di condurmi a Bayeux appena lo desiderassi perché ero risoluta a raggiungere il mio scopo, e dissi che sarei andata perfino dal Santo Padre, se Monsignore non mi avesse permesso di entrare nel Carmelo a quindici anni.

147 – Molti eventi accaddero prima del mio viaggio a Bayeux; al di fuori la vita mia pareva la stessa, studiavo, prendevo lezioni di disegno con Celina, e la mia abile maestra mi attribuiva molta disposizione per quell’arte. Soprattutto crescevo nell’amore del buon Dio, sentivo nel mio cuore degli slanci sconosciuti fino allora, talvolta avevo dei veri impeti d’amore. Una sera, non sapendo come dire a Gesù che lo amavo, e quanto desideravo ch’egli fosse amato e glorificato dovunque, pensai con dolore ch’egli non avrebbe mai potuto ricevere un solo atto d’amore dall’inferno; allora dissi al buon Dio che, per fargli piacere, avrei acconsentito a vedermi sprofondata là, affinché egli fosse amato eternamente in quel luogo di bestemmia… Sapevo che questo non avrebbe potuto glorificare Dio, poiché egli desidera la nostra felicità, ma, quando si ama, si prova il bisogno di dire mille follie; parlavo in quel modo, non già perché non avessi la brama del Cielo, ma allora il mio Cielo, proprio mio, non era altro che l’Amore, e sentivo come san Paolo che niente avrebbe potuto distaccarmi da Dio che mi aveva rapita.

148 – Prima di lasciare il mondo, il buon Dio mi dette la consolazione di contemplare da vicino delle anime di bimbi; essendo la più piccola in famiglia, non avevo mai avuto questa gioia, ed ecco le tristi circostanze che me la procurarono: una povera donna, parente della nostra cameriera, morì nel fiore dell’età lasciando tre figli piccolissimi; durante la malattia di lei prendemmo a casa nostra le due piccine – la maggiore non aveva sei anni! -; io me ne occupai per tutta la giornata, ed era un gran piacere per me vedere come esse credessero tutto quello che dicevo io. Bisogna pure che il santo Battesimo deponga nelle anime un germe ben profondo delle virtù teologali, poiché si rivelano fin dall’infanzia, e poiché la speranza dei beni futuri basta per fare accettare dei sacrifici. Quando volevo vedere le mie due bimbette molto concilianti una verso l’altra, invece di promettere giocattoli e dolci a quella che avrebbe ceduto di fronte alla sorella, parlavo loro delle ricompense eterne che Gesù Bambino avrebbe dato, nel Cielo, ai bambini buoni; la maggiore, il cui intelletto cominciava a svilupparsi, mi guardava con occhi brillanti di gioia, mi faceva mille domande deliziose su Gesù Bambino e il suo Cielo bello, e mi prometteva con entusiasmo di cedere sempre a sua sorella; diceva che mai in vita sua avrebbe dimenticato ciò che le aveva detto la «signorina grande», mi chiamava così. Vedendo da vicino quelle anime innocenti, ho capito quale sventura sia di non formarle bene fin dal loro risveglio, allorché somigliano a una cera molle sulla quale si può imprimere la virtù, ma anche il male… ho capito ciò che Gesù ha detto nel Vangelo: «Che sarebbe meglio essere buttati in mare piuttosto che scandalizzare uno solo di quei bimbi». Ah! quante anime arriverebbero alla santità se fossero ben dirette!

149 – Lo so bene, il Signore non ha bisogno di nessuno per far l’opera sua, ma come permette a un giardiniere abile di coltivare piante rare e delicate, e gli dà le cognizioni necessarie per far ciò, riservando a sé la cura di fecondarle, così Gesù vuole essere aiutato nella sua divina cultura delle anime. Che cosa accadrebbe se un giardiniere maldestro non innestasse bene i suoi arbusti? Se non sapesse riconoscere la natura di ciascuno e volesse far sbocciare delle rose sopra un pesco? Farebbe morir l’albero che tuttavia era buono e atto a produrre frutti. Così bisogna sapere riconoscere fin dall’infanzia ciò che il buon Dio chiede alle anime, e assecondare l’azione della sua grazia, senza mai precorrerla né rallentarla. Come gli uccellini imparano a cantare ascoltando i loro genitori, così i figli imparano la scienza della virtù, il canto sublime dell’amor divino, dalle anime che dovranno formarli alla vita. Ricordo che tra i miei uccellini c’era un canarino che cantava a meraviglia e avevo anche un piccolo fanello al quale prodigavo le mie cure materne, poiché l’avevo adottato prima che avesse potuto godere della libertà. Questo povero prigioniero piccino piccino non aveva genitori che gli insegnassero a cantare, ma, ascoltando da mattina a sera il suo compagno canarino che gorgheggiava gioiosamente, volle imitarlo. Era un’impresa difficile per un fanello, e così la sua voce dolce ebbe un bel daffare per accordarsi con la voce vibrante del musico maestro. Era incantevole assistere ai tentativi del piccolino, eppure da ultimo ebbero un buon successo, perché il canto suo, pur conservando una ben maggiore dolcezza, fu assolutamente lo stesso di quello del canarino. Oh, Madre mia cara! È lei che mi ha insegnato a cantare… è la voce sua che mi ha affascinata fin dall’infanzia ed ora ho la consolazione di sentir dire che le somiglio! So quanto ne sono ancora lontana, ma spero, nonostante la mia debolezza, ripetere eternamente lo stesso cantico suo.

150 – Prima che entrassi al Carmelo, ebbi ancora varie esperienze riguardo alla vita e alle miserie del mondo, ma questi particolari mi trascinerebbero troppo lontana; riprenderò il racconto della mia vocazione. Il 31 ottobre fu il giorno fissato per il mio viaggio a Bayeux. Partii sola con Papà, pieno il cuore di speranza, ma anche di emozione per la prospettiva di presentarmi al vescovado. Per la prima volta in vita mia avevo da fare una visita senza essere accompagnata dalle mie sorelle, e si trattava della visita a un Vescovo. Io, che non provavo mai il bisogno di parlare se non per rispondere alle domande rivoltemi, dovevo spiegare io stessa lo scopo della mia visita, chiarire le ragioni che mi facevano chiedere l’ingresso nel Carmelo; insomma, dovevo dimostrare la solidità della mia vocazione. Quanto mi costò fare quel viaggio! Bisognò che il buon Dio mi concedesse una grazia ben particolare perché io potessi superare la mia grande timidezza. È vero altresì che «mai l’Amore trova impossibile, perché si crede tutto possibile e tutto permesso». Era davvero il solo amore di Gesù che poteva farmi vincere quelle difficoltà e quelle che seguirono, perché egli si compiacque di farmi pagare la vocazione a prezzo di grandi prove. Oggi che godo la solitudine del Carmelo («riposandomi all’ombra di Colui che ho desiderato con tanto ardore»), mi pare di aver conseguito la mia felicità a prezzo lievissimo, e sarei pronta a sopportare sofferenze molto più gravi per conquistarla, se non la possedessi ancora!

151 – Pioveva a torrenti quando arrivammo a Bayeux. Papà non voleva veder la sua reginetta entrare nel vescovado con la sua bella toilette tutta intrisa, e perciò la fece salire sopra un omnibus, fino alla cattedrale. Là cominciarono i guai: Monsignore e tutto il clero assistevano a un funerale solenne. La chiesa era piena di signore in lutto e tutti guardavano me, il mio vestito chiaro e il cappello bianco; avrei voluto uscir dalla chiesa, ma non c’era da pensarci a causa della pioggia, e per umiliarmi ancor più il buon Dio permise che Papà, nella sua semplicità patriarcale, mi facesse arrivare fino in cima alla cattedrale; non volendo fargli dispiacere, mi risolsi a farlo con buon garbo e procurai quella distrazione ai bravi abitanti di Bayeux che avrei desiderato non aver mai incontrati… Potei finalmente respirare a modo mio in una cappella dietro all’altar maggiore, e mi ci trattenni lungo tempo, pregando con fervore, mentre aspettavamo che spiovesse, e ci fosse possibile uscire. Attraversando di nuovo la chiesa, Papà mi fece ammirare la bellezza dell’architettura, lo spazio pareva più ampio ora che era vuoto, ma quanto a me, un pensiero unico mi dominava, e io non potevo prender gusto a nulla. Andammo direttamente da Mons. Révérony, il quale era edotto del nostro arrivo, poiché aveva fissato egli stesso il giorno del viaggio; ma non c’era. Fummo costretti, perciò, a vagare per le strade, che mi parvero ben tristi; finalmente ritornammo verso la curia, e Papà mi fece entrare in un bell’albergo ove non feci onore al bravo cuoco. Povero caro Babbo mio, aveva per me una tenerezza quasi incredibile, mi diceva di non affliggermi, ché certamente Monsignore avrebbe acconsentito.

152 – Ci riposammo, poi tornammo da Mons. Révérony; nello stesso tempo arrivò un signore, ma il vicario generale gli chiese gentilmente di volere attendere, e ci fece entrare per primi nel suo studio (quel povero signore ebbe il tempo di annoiarsi, perché la visita fu lunga). Mons. Révérony si mostrò molto amabile, ma credo che il motivo del nostro viaggio lo meravigliò assai; dopo avermi guardata sorridendo, e avermi fatto qualche domanda, ci disse: «Vi presenterò a Monsignor Vescovo, vogliate seguirmi». Vedendo che avevo le lacrime agli occhi, mi disse: «Ah!… vedo dei diamanti… non bisogna mostrarli a Monsignor Vescovo!». Ci fece attraversare varie stanze ampie, ornate da ritratti di vescovi; vedendomi in quei saloni, mi facevo l’effetto di una formica piccina piccina, e mi domandavo cosa avrei saputo dire a Monsignor Vescovo; egli passeggiava in mezzo a due sacerdoti in una galleria, vidi Mons. Révérony che gli diceva qualche parola, poi tornarono verso noi. Noi attendevamo nello studio; tre poltrone enormi erano collocate davanti al camino, e il fuoco era vivace ed alto. Vedemmo entrare Sua Eccellenza, Papà si inginocchiò accanto a me per ricevere la benedizione, poi Monsignor Vescovo fece accomodare Papà in una poltrona, si mise egli stesso di faccia a lui, e Mons. Révérony volle farmi occupare la poltrona in mezzo; rifiutai gentilmente, ma insistette, dicendomi di far vedere se sapevo obbedire; mi sedetti subito senza altre riflessioni ed ebbi la confusione di vedere che lui prendeva una sedia, mentre io mi trovavo sprofondata in un seggio nel quale sarebbero state comodamente ben quattro come me (più comode di me, perché io ero ben lungi dal sentirmi tale!). Speravo che Papà cominciasse a parlare, ma invece mi disse di spiegare io stessa a Monsignore lo scopo della nostra visita; lo feci con tutta la possibile eloquenza, ma “a Grandeur”, abituato all’eloquenza non parve gran che commosso dai miei ragionamenti; in sostituzione di questi, una parola sola del reverendo superiore mi avrebbe giovato di più; sventuratamente non ne potevo produrre, ed anzi l’opposizione di lui non patrocinava certo la mia causa.

153 – Monsignor Vescovo mi domandò se da lungo tempo aspiravo al Carmelo. «Oh, si, Eccellenza, da ben lungo tempo». – «Vediamo – rispose ridendo Mons. Révérony – non potrà dirci che ha questo desiderio da quindici anni». – «E vero – risposi sorridendo anch’io – ma non ci sono molti anni da defalcare, perché ho desiderato farmi religiosa fin dal risveglio del mio intelletto, e ho desiderato il Carmelo, appena l’ho conosciuto bene, perché trovavo che, in quell’Ordine, sarebbero appagate tutte le aspirazioni dell’anima mia». Non so, Madre mia, se dissi proprio così, credo di essermi spiegata anche peggio, ma insomma il senso era questo. Monsignor Vescovo, credendo di far piacere a Papà, cercò di farmi trattenere ancora qualche anno presso di lui, e rimase non poco stupito ed edificato vedendo che Papà stesso abbracciava la mia causa e intercedeva affinché ottenessi il permesso di volar via a quindici anni. Tuttavia, tutto fu vano; il Vescovo disse che, prima di decidere, gli era necessario un colloquio col Superiore del Carmelo. Io non potevo ascoltare parola più penosa, perché conoscevo l’opposizione netta di Nostro Padre, perciò, senza tener conto della raccomandazione di Mons. Révérony, feci ben più che mostrare i miei diamanti a Monsignor Vescovo, gliene detti e quanti! Vidi che era commosso: mi fece appoggiare la testa sulla sua spalla e mi confortò con tanta bontà come – pare – non aveva fatto mai con nessun altro. Mi disse che tutto non era perduto, che egli era ben contento del mio viaggio a Roma: avrei potuto assodare la mia vocazione, e intanto dovevo rallegrarmi invece di piangere; aggiunse che la settimana seguente egli stesso, poiché doveva andare a Lisieux, avrebbe parlato col reverendo parroco di San Giacomo, e certamente io avrei ricevuto la sua risposta in Italia. Capii che era inutile insistere, del resto non avevo altro da dire, poiché avevo esaurito tutte le risorse della mia eloquenza.

154 – Monsignor Vescovo ci riaccompagnò fino al giardino, Papà lo divertì molto raccontandogli che mi ero fatta tirar su i capelli per sembrargli più grande di età… (E ciò non andò perduto perché Monsignor Vescovo non parla della sua «figlioletta» senza raccontare la storia dei capelli…). Mons. Révérony ci volle accompagnare fino in fondo al giardino, e disse a Papà che una cosa simile non si era mai vista: «Un padre altrettanto premuroso di dar sua figlia al Signore, quanto questa fanciulla lo era di offrir se stessa!». Papà gli domandò varie spiegazioni riguardo al pellegrinaggio, tra l’altro in qual modo bisognava vestirsi per comparire dinanzi al Santo Padre. Lo vedo ancora voltarsi a Mons. Révérony dicendogli: «Sto abbastanza bene così?…». Aveva anche detto a Monsignor Vescovo che, se non mi avesse permesso di entrare nel Carmelo, io avrei chiesto questa grazia al Sommo Pontefice. Era ben semplice nelle parole e nei modi, il mio caro Re, ma era tanto bello… aveva una distinzione proprio naturale che dovette piacere molto a Monsignor Vescovo, avvezzo a vedersi circondato da personaggi i quali conoscevano tutte le regole in uso nei salotti, ma non il «Re di Francia e di Navarra» in persona, con la sua «reginetta».

155 – Quando mi trovai per la strada, le lacrime ricominciarono, non tanto a causa del dispiacere mio, quanto perché vedevo il mio Babbo carissimo che aveva fatto un viaggio inutile. Lui si sarebbe fatta una festa di mandare al Carmelo un telegramma per annunciare la risposta favorevole di Monsignor Vescovo: e ora, invece, era costretto a rincasare senza risposta alcuna… Com’ero addolorata! Mi pareva che l’avvenire fosse spezzato per sempre; più mi avvicinavo al termine, più vedevo le faccende imbrogliarsi. L’anima era sommersa nell’amarezza, ma anche nella pace, perché cercavo soltanto la volontà di Dio. Appena arrivata a Lisieux, andai a cercar conforto al Carmelo, e lo trovai da lei, Madre mia cara. Oh, non dimenticherò mai tutto quello che lei ha sofferto per causa mia. Se non temessi di profanarle, userei le parole che Gesù rivolgeva agli Apostoli, la sera della Passione: «Siete voi che siete stati sempre con me in tutte le mie prove…». Le mie dilette sorelle mi offersero delle dolci consolazioni.

6. Ricorso al Sommo Pontefice Leone XIII (1887)

Assieme al padre e a Celina, in pellegrinaggio a Roma – N. Signora delle Vittorie a Parigi – Attraverso la Svizzera – A Milano, Venezia, Padova e Bologna – Presso la santa Casa di Loreto – Arrivo a Roma e principali visite – Ai piedi del Santo Padre – Amarezza e fiducia – Pompei e Napoli – Sulla via del ritorno Assisi, Firenze, Genova – Lettera al Vescovo diocesano – Tre mesi d’attesa.

156 – Tre giorni dopo il viaggio di Bayeux, dovetti farne uno molto più lungo, quello alla Città Eterna! Ah, che viaggio! Mi ha istruita di più da solo, che non i lunghi anni di studio; mi ha mostrato come sia vano tutto ciò che passa, e come tutto sia afflizione di spirito sotto il sole! Eppure, ho visto delle cose bellissime, ho contemplato le meraviglie dell’arte e della religione, soprattutto ho camminato sulla terra stessa dei santi Apostoli, la terra pervasa dal sangue dei martiri, e l’anima mia si è dilatata a contatto con le cose sacre… Sono felice d’essere stata a Roma, ma capisco le persone di mondo le quali pensarono che Papà mi facesse fare questo grande viaggio per cambiare le mie idee di vita religiosa; c’era, in realtà, di che scuotere una vocazione poco solida. Non avendo mai vissuto in mezzo a gente di gran mondo, Celina ed io ci trovammo in mezzo all’aristocrazia che componeva quasi da sola tutto lo stuolo dei pellegrini. Ben lungi dall’abbagliarci, tutti quei titoli e quei «de» ci parvero fumo e soltanto fumo. Da lontano mi avevano gettato, qualche volta, un po’ di polvere negli occhi, ma da vicino vidi che «tutto ciò che brilla non è oro», e ho capito la parola della Imitazione: «Non correte dietro a quell’ombra che si chiama un gran nome, non desiderate legami numerosi, e nemmeno la particolare amicizia di alcuno». Capii che la grandezza vera si trova nell’anima e non nel nome, poiché, come dice Isaia: «il Signore darà un altro nome ai suoi eletti», ed anche san Giovanni dice che «il vincitore riceverà una pietra bianca sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve». Li sapremo dunque in Cielo, i nostri titoli di nobiltà. Allora ognuno riceverà la lode che merita, e colui che avrà voluto essere il più povero in terra, il più dimenticato per amor di Gesù, proprio lui sarà il primo, più nobile e più ricco di tutti gli altri.

157 – Un’altra esperienza che feci riguarda i sacerdoti. Non avendo vissuto nella loro intimità, non potevo capire lo scopo principale della riforma del Carmelo. Pregare per i peccatori mi rapiva, ma pregare per le anime dei preti che io credevo pure più del cristallo, mi pareva sorprendente! Ah! ho capito la mia vocazione in Italia e non è stato andar troppo lontano per una conoscenza tanto utile! Per un mese ho vissuto con molti santi sacerdoti e ho visto che, se la loro dignità sublime li innalza al di sopra degli angeli, essi sono tuttavia uomini deboli e fragili Se dei santi preti che Gesù chiama nel Vangelo «il sale della terra» mostrano nella loro condotta che hanno un grande bisogno di preghiere, che dobbiamo dire dei tiepidi? Gesù non ha detto anche: «se il sale diviene scipito, con che cosa lo rafforzeremo?». Oh, Madre! Com’ è bella la vocazione che ha per scopo di conservare il sale destinato alle anime! È la vocazione del Carmelo, poiché il fine unico delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici è d’essere apostoli degli apostoli, pregando per essi mentre evangelizzano le anime con le parole e soprattutto con gli esempi… Bisogna che mi fermi, se continuassi su questo argomento non finirei più!

158 – Madre mia, le racconterò il mio viaggio con vari particolari: le chiedo scusa se ne dirò troppi, non rifletto prima di scrivere, e lo faccio in tante volte diverse, a causa del mio poco tempo libero, che il mio racconto le parrà forse noioso. Mi consola pensare che in Cielo le riparlerò delle grazie che ho ricevute, e che potrò farlo, allora, in termini gradevoli e attraenti… Più niente interromperà i nostri intimi sfoghi e con uno sguardo solo lei avrà capito tutto. Ahimè! poiché debbo usare ancora il linguaggio della terra triste, cercherò di farlo con la semplicità di una bambina piccola, la quale conosce l’amore della mamma! Sette novembre: i pellegrini partirono da Parigi, ma Papà ci aveva condotte li qualche giorno prima per farci visitare la città. Una mattina alle tre attraversai Lisieux ancora addormentata; molte impressioni mi passarono nell’anima. Andavo verso l’ignoto e grandi cose mi attendevano là… Papà era gaio; quando il treno si mise in moto, egli cantò un vecchio ritornello: «Roule, roule, ma diligence, nous voili sur le grand chemin». Arrivati a Parigi nella mattinata, cominciammo subito a visitarla. Il Babbo nostro caro si stancò per farci piacere, e così in quattro e quattr’otto avemmo visto tutte le meraviglie della capitale. Per me ne trovai una sola che mi rapisse, e fu «Nostra Signora delle Vittorie». Ah, quello che ho provato ai piedi di lei, non lo saprei dire… Le grazie che mi concedette mi commossero tanto profondamente che soltanto le lacrime espressero la mia felicità, come nel giorno della prima Comunione… La Santa Vergine mi fece sentire che era stata proprio lei a sorridermi e guarirmi. Ho capito che vegliava su me, che ero sua figlia, e così potevo chiamarla soltanto «Mamma», perché questo nome mi pareva ancor più tenero che quello di «Madre». Con quanto fervore l’ho pregata di custodirmi sempre e di attuare presto il mio sogno nascondendomi all’ombra del suo manto verginale! Era questo uno dei primi desideri di bambina. Crescendo, avevo capito che nel Carmelo avrei potuto trovare davvero il mantello della Santa Vergine, e verso quella montagna fertile tendevano tutti i miei desideri. Supplicai ancora Nostra Signora delle Vittorie di allontanare da me tutto ciò che avrebbe potuto offuscare la mia purezza; non ignoravo che in un viaggio come quello d’Italia ci sarebbero state molte cose atte a turbarmi; soprattutto perché non conoscevo il male temevo di scoprirlo, non avendo ancora sperimentato che «tutto è puro per i puri», e che l’anima semplice e dritta non vede male in nulla, poiché in realtà il male esiste soltanto nei cuori impuri e non negli oggetti insensibili. Pregai anche san Giuseppe affinché vegliasse su me; fin da quando ero bimba avevo avuto per lui una devozione che si confondeva col mio amore per la Madonna. Ogni giorno dicevo la preghiera: «O san Giuseppe, padre e protettore dei vergini»; così intrapresi senza timore il mio viaggio lontano, ero protetta così bene che mi pareva impossibile aver paura.

159 – Dopo esserci consacrate al Sacro Cuore nella basilica di Montmartre, partimmo da Parigi il lunedì 7 di mattina. Lì ben presto avevamo fatto conoscenza con le persone del pellegrinaggio. Io così timida che generalmente osavo appena parlare, mi trovai completamente svincolata da quel difetto imbarazzante; con mia grande sorpresa parlavo liberamente con tutte le grandi signore, i sacerdoti e perfino con Monsignor Vescovo di Coutances. Mi pareva di aver vissuto sempre in quell’ambiente. Eravamo, credo, benvolute da tutti, e Papà sembrava orgoglioso delle sue due figlie; ma se lui era fiero di noi, noi lo eravamo egualmente di lui, perché non c’era in tutto il pellegrinaggio un signore più bello né più distinto del mio caro Re; a lui piaceva vedersi vicine Celina e me: spesso quando non eravamo in carrozza, e che io mi allontanavo da lui, mi chiamava perché io gli dessi il braccio come a Lisieux… Mons. Révérony teneva d’occhio accuratamente tutti i nostri atti, vedevo spesso che ci guardava da lontano; a tavola, quando non ero di faccia a lui, trovava modo di chinarsi per vedermi e ascoltare ciò che dicevo. Senza dubbio voleva conoscermi per sapere se veramente ero capace di essere carmelitana: penso che sia rimasto soddisfatto del suo esame, perché alla fine del viaggio parve molto ben disposto verso me, ma a Roma non mi fu affatto favorevole, come dirò fra breve.

160 – Prima di arrivare alla «Città Eterna», meta del nostro pellegrinaggio, ci fu concesso di contemplare grandi meraviglie. Dapprima la Svizzera, con le sue vette che si perdono tra le nubi, con le cascate gentili zampillanti in mille modi diversi, le valli profonde colme di felci giganti e di eriche rosa. Ah, Madre mia cara, queste bellezze della natura profuse così largamente, hanno fatto tanto bene all’anima mia! Come l’hanno innalzata verso Colui che si è compiaciuto di gettare tanti capolavori sopra una terra d’esilio destinata a durare un giorno solo! Non avevo occhi bastanti per guardare. In piedi, allo sportello, rimanevo quasi senza respiro; avrei voluto essere ai due lati del vagone perché, voltandomi, vedevo paesaggi incantevoli e affatto diversi da quelli che si stendevano dinanzi a me. Talvolta ci trovavamo in vetta a una montagna, ai nostri piedi si aprivano precipizi dei quali lo sguardo non toccava il fondo: parevano pronti a inghiottirci; in alto un villaggio incantevole con le sue casupole montanine e il campanile sul quale ondulavano mollemente pochi cirri bianco-lucenti. Lontano, un lago vasto, dorato dagli ultimi raggi; le acque pure e quiete si coloravano di azzurro e dei fuochi del tramonto, e presentavano ai nostri sguardi attoniti lo spettacolo più poetico e più affascinante che si possa vedere. In fondo all’orizzonte vasto si scorgevano le montagne, le cui linee incerte sarebbero sfuggite ai nostri occhi se le cime nevose orlate di luce non avessero aggiunto un fascino di più al bel lago che ci rapiva…

161 – Guardando tutte queste bellezze, mi nascevano nell’anima pensieri profondi. Mi pareva di capire già la grandezza di Dio e le meraviglie del Cielo. La vita religiosa mi appariva tal quale è con i suoi obblighi e i suoi sacrifici minuti consumati nell’ombra. Capivo quanto fosse facile ripiegarsi sopra se stessi, dimenticare il fine sublime della propria vocazione, e mi dicevo: più tardi, nell’ora della prova, quando, prigioniera nel Carmelo, non potrò contemplare altro che un angolo di stelle, ricorderò ciò che vedo oggi: questo pensiero mi darà coraggio, dimenticherò facilmente i poveri miei interessi vedendo la grandezza e la potenza del Dio che intendo amare unicamente. Non avrò la disgrazia di attaccarmi a delle pagliuzze, dopo che «il mio cuore ha presentito ciò che Gesù riserva a coloro che l’amano!».

162 – Dopo avere ammirato la potenza di Dio, potei anche ammirare quella che ha concessa alle creature. La prima città d’Italia che visitammo fu Milano. Visitammo fino nei minimi particolari il Duomo tutto di marmo bianco, col suo popolo di statue quasi innumerevoli. Celina ed io eravamo intrepide, le prime sempre, e immediatamente al seguito di Monsignor Vescovo, per vedere tutto in fatto di reliquie, e udir bene le spiegazioni: così, mentre egli offriva il Santo Sacrificio sulla tomba di san Carlo, noi con Papà eravamo dietro l’altare, appoggiavamo la testa all’urna che racchiude il corpo del Santo rivestito degli abiti pontificali. Così accadeva dappertutto (eccezion fatta, s’intende, per i luoghi ove la dignità del Vescovo non permetteva a lui di arrampicarsi, perché allora sapevamo staccarci subito da «Sa Grandeur»). Lasciando le signore timide a coprirsi volto ed occhi dopo aver scalato le prime torrette campanarie che fanno corona alla cattedrale, seguimmo i pellegrini più arditi ed arrivammo fino alla punta dell’ultimo campanile di marmo, dal quale avemmo il piacere di vedere ai nostri piedi la città di Milano: la gente laggiù somigliava a un minuscolo formicaio. Discese dal nostro piedistallo, cominciammo le passeggiate in carrozza che dovevano durare un mese e saziarmi per sempre del mio desiderio di correre senza fatica!

163 – Il camposanto ci rapì ancor più che la cattedrale, tutte le statue di marmo bianco alle quali un cesello del genio sembra aver dato vita, sono sparse sulla terra ampia dei morti con una certa negligenza, ciò che, secondo me, aumenta il loro fascino. Si è tentati di consolare i personaggi ideali i quali ci stanno intorno. La loro espressione è così vera, il loro dolore così calmo e rassegnato, che non si può fare a meno di riconoscere i pensieri immortali dai quali erano mossi i cuori degli artisti quando eseguirono questi capolavori. Qui una bambina getta fiori sulla tomba dei genitori, par che il marmo abbia perduto qualsiasi peso, e i petali lievi scivolano tra le dita infantili, già il vento li disperde, e muove anche il velo sottile delle vedove, e i nastri che ornano i capelli delle fanciulle. Papà era rapito quanto noi; in Svizzera si era sentito stanco, ma ora, ridivenuto gaio, godeva la visione bella che ci era concesso contemplare; la sua anima di artista si rivelava nelle espressioni di fede e di ammirazione che passavano sul suo bel volto.

164 – Un vecchio signore (francese), il quale senza dubbio non aveva animo altrettanto poetico, ci guardava un po’ di sbieco e diceva con un certo cattivo umore, quasi gli dispiacesse di non poter partecipare alla nostra ammirazione: «Ah, come sono entusiasti i francesi!». Credo che quel povero signore avrebbe fatto meglio se fosse rimasto a casa sua, perché non pareva soddisfatto del viaggio, spesso era vicino a noi, e si lamentava, era scontento delle vetture, degli alberghi, delle persone, delle città, insomma, di tutto. Papà con la sua solita grandezza d’animo cercava di consolarlo, gli offriva il suo posto, ecc., lui si trovava bene sempre e dovunque, poiché era di un carattere nettamente opposto a quello del suo scomodo vicino. Ah, quante ne abbiamo viste di genti varie, gli uni diversi dagli altri, e quale campo di studio interessante il mondo, quando si è prossimi a lasciarlo!

165 – A Venezia, completo cambiamento di scena: invece del chiasso delle città grandi, emergono dal silenzio soltanto il grido dei gondolieri e il murmure delle acque agitate dai remi. Venezia ha il suo fascino, ma io la trovo triste. Il palazzo dei dogi è splendido, tuttavia è triste anch’esso, con i suoi appartamenti vasti che sfoggiano oro, legni, marmi tra i più preziosi, e le pitture dei maestri più grandi. Da lungo tempo le sue volte sonore non echeggiano più della voce dei governatori che pronunciava sentenze di vita e di morte nelle sale che abbiamo attraversate. Hanno cessato di soffrire i prigionieri sventurati chiusi dai dogi nelle carceri e nei nascondigli sotterranei. Visitando quelle prigioni paurose, mi credevo ai tempi dei martiri, e avrei voluto poterci rimanere per imitarli! Bisognò invece uscire prontamente, e passare sul «Ponte dei sospiri», chiamato così a causa dei sospiri di sollievo che emettevano i condannati vedendosi liberati dall’orrore dei sotterranei ai quali preferivano la morte…

166 – Dopo Venezia andammo a Padova, venerammo la lingua di sant’Antonio, poi a Bologna, e vedemmo santa Caterina che conserva l’impronta del bacio di Gesù Bambino. Quanti particolari interessanti potrei dare su ciascuna città e riguardo a mille circostanze minute del nostro viaggio! Ma non finirei più, e perciò scriverò soltanto i punti salienti. Con gioia lasciai Bologna, la quale mi era diventata insopportabile a causa degli studenti di cui è piena e che formavano siepe quando avevamo la sventura di uscire a piedi; e a causa soprattutto del piccolo incidente avuto con uno di essi, fui felice di prendere la via di Loreto. Non sono sorpresa che la Vergine Santa abbia scelto quel luogo per trapiantarvi la sua casa benedetta; la pace, la gioia, la povertà vi regnano sovrane; tutto è semplice e primitivo, le donne hanno conservato il loro garbato costume italiano e non hanno, come quelle di altre città, adottato la moda di Parigi; insomma, Loreto mi rapì!

167 – Che dirò della santa Casa? La mia emozione era profonda mentre mi trovavo sotto il tetto medesimo della sacra Famiglia, contemplando i muri sui quali Gesù aveva posati i suoi sguardi divini, mentre camminavo sulla terra che san Giuseppe aveva bagnato col suo sudore, ove Maria aveva portato Gesù tra le braccia dopo averlo portato nel suo seno virginale. Ho visto la cameretta ove l’angelo discese presso la Vergine Santa… Ho deposto il mio rosario nella scodella di Gesù Bambino… Come sono incantevoli questi ricordi! Ma la nostra consolazione più grande fu ricevere Gesù stesso nella sua casa ed essere il tempio vivo di lui nel luogo che egli aveva onorato con la sua presenza. Secondo un’usanza italiana, il ciborio si conserva in ciascuna chiesa sopra un altare solo, e li soltanto si può ricevere la Comunione; quell’altare era nella basilica stessa ove si trova la santa Casa, racchiusa come un diamante prezioso in uno scrigno di marmo bianco. Ciò non bastò per la nostra felicità. Noi volevamo ricevere la Comunione nel diamante stesso e non già nello scrigno.. Papà, con la sua consueta dolcezza fece come gli altri, ma Celina e io andammo a trovare un sacerdote che ci accompagnava dovunque e che proprio allora si preparava a celebrare la Messa nella Santa Casa, per un privilegio speciale. Chiese due piccole ostie che depose sulla patena con la sua grande ostia, e lei capisce, Madre mia cara, quale fu il nostro rapimento di far tutte e due la santa Comunione in quella Casa benedetta! Fu una felicità celestiale che le parole non possono tradurre. Che sarà dunque quando riceveremo la Comunione nella dimora eterna del Re dei Cieli? Allora non vedremo più finire la gioia nostra, non ci sarà più la tristezza della partenza, e per portare via un ricordo non sarà necessario grattare furtivamente i muri santificati dalla presenza divina, poiché la casa sua sarà nostra per l’eternità. Egli non vuole darci la casa terrena, si contenta di mostrarcela per farci amare la povertà e la vita nascosta; quella che ci riserva è il suo Palazzo di gloria ove non lo vedremo più nascosto sotto l’apparenza di un bambino o di una ostia bianca, ma tale quale è, nel suo splendore infinito.

168 – Ora mi resta da parlare di Roma, di Roma meta del nostro viaggio, dove credevo d’incontrare la consolazione, e trovai la croce! Al nostro arrivo era notte, ed eravamo addormentate, ci risvegliò il grido degli addetti alla stazione: «Roma, Roma». Non era un sogno, ero a Roma! Il primo giorno trascorse fuori dalle mura, e forse fu il più delizioso, perché tutti i monumenti hanno conservato la loro impronta antica, mentre nel centro della città ci si potrebbe credere a Parigi vedendo la magnificenza degli alberghi e dei negozi. Quella passeggiata nella campagna romana mi ha lasciato un ricordo carissimo. Non parlerò dei luoghi che abbiamo visitati, esistono abbastanza libri che li descrivono per esteso, ma soltanto delle principali impressioni che provai. Una delle più dolci fu quella che mi fece trasalire alla vista del Colosseo. La vedevo finalmente quell’arena ove tanti martiri avevano dato il sangue per Gesù; e già mi disponevo a baciar la terra che essi avevano consacrata, ma quale delusione! Il centro è soltanto un ammasso di ruderi che i pellegrini possono guardare e basta, perché uno sbarramento impedisce di penetrarvi, del resto nessuno prova la tentazione di entrare in mezzo a quelle rovine. Eravamo dunque venute a Roma per non discendere nel Colosseo? Mi pareva impossibile, non ascoltavo più le spiegazioni della guida, avevo un pensiero solo: calarmi nell’arena… Vedendo un operaio che passava con una scala, fui lì lì per chiedergliela, fortunatamente non misi in atto la mia idea perché mi avrebbe presa per pazza. È  detto nel Vangelo che Maddalena, rimanendo sempre vicina alla tomba, e abbassandosi più volte, finì per vedere due angeli. Come lei, pur avendo riconosciuto l’impossibilità di attuare i miei desideri, continuai ad abbassarmi verso le rovine tra le quali volevo discendere; finalmente, non vidi angeli, ma quello che cercavo, gettai un grido di gioia, e dissi a Celina: «Svelta, andiamo, ce la facciamo a passare!». Subito scavalcammo la staccionata che in quel punto toccava i ruderi, ed eccoci a scalar le rovine che si sgretolavano sotto i nostri passi. Papà ci guardava meravigliato per la nostra audacia, e ci disse di tornare indietro, ma le due fuggitive non udivano più nulla; come i guerrieri sentono crescere il coraggio in mezzo al pericolo, così la nostra gioia ingrandiva in proporzione alla difficoltà per raggiungere l’oggetto dei nostri desideri. Celina, più previdente di me, aveva ascoltato il cicerone e ricordandosi che egli aveva segnalato un pezzo di pavimento segnato da una croce come quello su cui combattevano i martiri, si mise a cercarlo; lo trovò ben presto, c’inginocchiammo su quella terra sacra, le nostre anime si fusero in un’unica preghiera. Mi batteva forte il cuore quando avvicinai le labbra alla polvere arrossata dal sangue dei primi cristiani, chiesi la grazia d’essere martire anch’io per Gesù, e sentii in fondo al cuore che la mia preghiera era esaudita. Tutto questo fu compiuto in brevissimo tempo; dopo aver preso qualche pietra, ritornammo verso le mura in rovina per ricominciare la nostra impresa rischiosa. Papà vedendoci così felici non poté rimproverarci, e vidi bene che era orgoglioso del nostro ardimento… Il buon Dio ci protesse visibilmente, perché i pellegrini, essendo un po’ distanti, non si accorsero della nostra assenza, occupati com’erano a guardare le arcate magnifiche sulle quali la guida faceva notare «i graziosi cornichons e i cupides posati su di essi»; in tal modo né lui né «messieurs les abbés» conobbero la gioia che ci empiva il cuore.

169 – Anche le catacombe mi hanno lasciato una impressione molto dolce: sono tali quali me le ero figurate leggendone la descrizione nella vita dei martiri. Dopo aver passato là una parte del pomeriggio, mi sembrava di esserci soltanto da qualche attimo, tanto mi appariva profumata l’atmosfera che vi si respira. Bisognava bene portare a casa qualche ricordo delle catacombe, così Celina e Teresa lasciarono che la processione si allontanasse un poco, e poi si calarono insieme fino in fondo all’antica tomba di santa Cecilia, e presero della terra consacrata dalla presenza di lei. Prima del viaggio a Roma, non avevo alcuna devozione particolare per quella Santa, ma, visitando la casa trasformata in chiesa, luogo del suo martirio, e venendo a sapere che ella è stata proclamata regina dell’armonia non già a causa della sua bella voce né del suo ingegno per la musica, bensì in memoria del canto verginale ch’ella fece udire allo Sposo celeste nascosto in fondo al suo cuore, sentii per lei più che una devozione: una vera tenerezza d’amica… Ella divenne la mia Santa prediletta, la mia confidente intima… Tutto in lei mi rapisce, soprattutto il suo abbandono, la sua fiducia illimitata che l’hanno resa atta a verginizzare anime, le quali non avevano mai desiderato altre gioie se non quelle della vita presente. Santa Cecilia è simile alla sposa dei cantici, in lei vedo «un coro in un campo d’eserciti». La sua vita non è stata se non un canto armonioso in mezzo anche alle prove più grandi, e ciò non mi stupisce, perché «Il santo Vangelo riposava sul suo cuore!», e nel suo cuore era lo Sposo delle Vergini.

170 – La visita alla chiesa di Sant’Agnese mi fu di grande dolcezza, era un’amica d’infanzia che andavo a trovare nella sua casa, le parlai lungamente di colei che porta così bene il suo nome, e feci tutti i miei sforzi per ottenere una reliquia di quest’angelica Patrona della mia Madre carissima, avrei voluto portarla a lei, ma non ci fu possibile avere altro che una pietruzza rossa staccatasi da un ricco mosaico la cui origine risale al tempo di sant’Agnese e che lei stessa dovette guardare spesso. Non era incantevole che l’amabile Santa ci desse ella stessa ciò che cercavamo e che ci era proibito di prendere? L’ho considerato sempre come un pensiero delicato e una prova di quell’amore col quale la dolce sant’Agnese considera e protegge la Madre mia carissima!

171 – Trascorremmo sei giorni visitando le principali meraviglie di Roma, e il settimo giorno vidi la più grande: «Leone XIII». Quel giorno lo desideravo e lo temevo, da esso sarebbe dipesa la mia vocazione, perché la risposta che dovevo ricevere da Monsignore non era arrivata, e io avevo saputo da una lettera sua, Madre, che egli non era più molto ben disposto verso di me, così l’unica tavola di salvezza era il permesso del Santo Padre… ma per ottenerlo occorreva chiederlo, bisognava osare di parlare «al Papa» davanti a tutti, questo pensiero mi faceva tremare; quel che ho sofferto prima dell’udienza, lo sa soltanto il buon Dio, con la mia cara Celina. Mai dimenticherò la parte che ella prese a tutte le mie prove, pareva che la vocazione mia fosse sua. (Il nostro affetto reciproco veniva notato dai sacerdoti del pellegrinaggio: una sera eravamo in un gruppo tanto numeroso che le sedie mancavano, allora Celina mi prese sulle ginocchia e ci guardavamo con tanto affetto, che un sacerdote esclamò: «Come si vogliono bene! Ah, queste due sorelle non potranno separarsi mai!». Sì, è vero, ci amavamo, ma il nostro affetto era tanto puro e forte, che il pensiero di separarci non ci turbava affatto, perché sentivamo che niente, nemmeno l’oceano, avrebbe potuto allontanarci l’una dall’altra… Serenamente Celina vedeva la mia navicella che gettava l’ancora sulla riva del Carmelo; lei si rassegnava a restare nel mare burrascoso del mondo per quanto tempo Dio lo volesse, sicura di arrivare anche lei alla sponda ambita…).

172 – Domenica 20 novembre ci vestimmo secondo il cerimoniale del Vaticano (di nero, con un velo di merletto in testa) e decorate da una grande medaglia di Leone XIII attaccata a un nastro azzurro e bianco, facemmo il nostro ingresso in Vaticano, nella cappella del Sommo Pontefice. Alle otto lo vedemmo entrare per celebrare la santa Messa: fu un’emozione profonda. Benedisse i pellegrini numerosi riuniti intorno a lui, salì gli scalini dell’altare, e ci mostrò, con la sua pietà degna del Vicario di Gesù, che era veramente «il Santo Padre». Il cuore mi batteva forte, e pregavo ardentemente mentre Gesù discendeva tra le mani del suo Pontefice; comunque, ero piena di fiducia, il Vangelo di quel giorno portava le parole splendide: «Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre mio di darti il suo regno». E io non temevo nulla, speravo che il regno del Carmelo mi appartenesse presto, non pensavo allora a quelle altre parole di Gesù: «Vi preparo il mio regno come il Padre mio l’ha preparato a me»; cioè, vi riservo croci e prove, e in tal modo sarete degni di possedere il regno che sospirate; poiché è stato necessario che il Cristo soffrisse, ed entrasse così nella gloria, se desiderate aver posto accanto a lui, bevete il calice che egli stesso ha bevuto! Questo calice mi fu presentato dal Santo Padre, e le lacrime mie si confusero con la bevanda amara che mi veniva offerta.

173 – Dopo la Messa di ringraziamento che fece seguito a quella di Sua Santità, ebbe inizio l’udienza. Leone XIII era assiso sopra una grande poltrona, vestito semplicemente con una tonaca bianca, una mantellina dello stesso colore, e aveva sulla testa uno zucchetto. Intorno a lui stavano i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, ma io non li vidi se non in gruppo, occupata com’ero unicamente del Santo Padre; passammo dinanzi a lui in processione, ciascun pellegrino s’inginocchiava a turno, baciava mano e piede di Leone XIII, riceveva la benedizione, e due guardie nobili gli facevano cenno secondo l’etichetta, per avvertirlo che era tempo di alzarsi (intendo dire che avvertivano il pellegrino, mi spiego così male che si potrebbe pensare che avvertissero il Papa). Prima di penetrare nell’appartamento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii mancare il coraggio quando vidi a destra del Santo Padre «Monsignor Révérony»! Quasi nel medesimo istante ci fu detto da parte sua che era proibito parlare a Leone XIII, l’udienza si sarebbe prolungata troppo. Mi voltai verso Celina cara, per sapere il suo parere: «Parla!», mi disse. Un minuto dopo ero ai piedi del Santo Padre; baciai la pantofola, egli mi porse la mano, ma io, invece di baciarla, giunsi le mani mie e alzai verso lui gli occhi pieni di lacrime: «Santo Padre – dissi -, ho da chiedervi una grazia grande». Allora il Sommo Pontefice abbassò la testa verso me, in modo che il mio volto quasi toccava il suo, e vidi i suoi occhi neri e profondi fissarsi su di me, parve che penetrasse in fondo all’anima. «Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni!…».

174 – L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi a Monsignor Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: «Non capisco molto bene». Se il buon Dio l’avesse permesso, sarebbe stato facile che Monsignor Révérony mi ottenesse ciò che desideravo, ma invece volle darmi la croce e non già la consolazione. «Beatissimo Padre – rispose il Vicario Generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione». «Ebbene, figlia – rispose il Santo Padre guardandomi con bontà -fate ciò che vi diranno i superiori». Allora, appoggiando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: «Oh! beatissimo Padre, se voi diceste «sì, tutti sarebbero d’accordo!…». Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna sillaba: «Bene… bene… Entrerete se Dio lo vorrà! . ..» -. (La sua espressione era così penetrante e convinta, che mi pare d’intenderlo ancora). Poiché la bontà del Santo Padre mi dava animo, volli parlare ancora, ma le due guardie nobili mi toccarono gentilmente per farmi alzare; e vedendo che ciò non bastava, mi presero per le braccia, e Monsignor Révérony le aiutò a sollevarmi, perché io restavo ancora con le mani giunte appoggiate alle ginocchia di Leone XIII, e mi strapparono di peso dai suoi piedi… Nel momento in cui mi trasportarono via così, il Santo Padre posò la sua mano sulle mie labbra, poi l’alzò per benedirmi, allora gli occhi mi si empirono di lacrime, e Monsignor Révérony poté contemplare per lo meno altrettanti diamanti quanti ne aveva visti a Bayeux.

175 – Le due guardie nobili mi portarono, per così dire, fino alla porta, e là una terza mi dette una medaglia di Leone XIII. Celina, che mi seguiva, era stata presente alla scena: commossa quasi quanto me, ebbe tuttavia il coraggio di chiedere al Santo Padre una benedizione per il Carmelo. Monsignor Révérony con tono contrariato rispose: «È già benedetto, il Carmelo». Il buon Santo Padre riprese con dolcezza: «Oh sì, è già benedetto!». Prima di noi Papà era venuto ai piedi di Leone XIII (con gli altri signori). Monsignor Révérony era stato molto benevolo verso lui, l’aveva presentato come il padre di due carmelitane. Il Sommo Pontefice, in segno di particolare favore, posò la mano sulla testa venerabile del mio caro Re, e parve imprimere in lui così un sigillo misterioso, nel nome di colui che veramente egli rappresenta… Ah! Ora che è in Cielo, questo padre di quattro carmelitane, non è più la mano del Pontefice che riposa sulla sua fronte, profetizzandogli il martirio… E la mano dello Sposo delle Vergini, del Re della gloria che fa risplendere la testa del suo servo fedele, e più che mai quella mano adorata rimarrà sulla fronte che ha glorificata!

176 – Il mio Babbo caro rimase addolorato trovando me tutta in lacrime all’uscita dall’udienza, fece tutto ciò che poté per consolarmi, ma invano… In fondo al cuore sentivo una grande pace, poiché avevo fatto assolutamente tutto il possibile per corrispondere a ciò che Dio mi chiedeva, ma quella pace era nel fondo, e l’amarezza mi colmava l’anima, perché Gesù taceva. Pareva assente, niente rivelava la sua presenza. Anche in quel giorno il sole non osò risplendere, e il cielo bello d’Italia, carico di nuvole cupe, pianse con me tutto il tempo. Ah! era finita, il mio viaggio non aveva più incanto per me, poiché lo scopo era fallito. Eppure, le ultime parole del Santo Padre avrebbero dovuto ben consolarmi: in verità, non erano una genuina profezia? Nonostante tutti gli ostacoli, quello che Dio misericordioso ha voluto si è compiuto. Ha permesso alle creature di fare non ciò che volevano, bensì la volontà sua.

177 – Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo giocattolino, gli avevo detto che usasse me non già come un balocco di quelli pregevoli (i bimbi si contentano di guardarli senza osar di toccarli), bensì come una pallina senz’alcun valore che egli poteva buttar per terra, spingere con i piedi, bucare) lasciare in un cantuccio o stringere al cuore, a piacimento suo; in una parola volevo divertire Gesù Bambino, fargli piacere, volevo abbandonarmi ai suoi capricci infantili… Aveva esaudito la mia preghiera. A Roma Gesù bucò il suo giocattolino, volle vedere cosa c’era dentro, e, dopo averlo visto, contento della sua scoperta, lasciò cadere la pallina e si addormentò… Che cosa fece durante il sonno dolce, e che cosa divenne la pallina abbandonata? Gesù sognò che giocava ancora col suo balocco lasciandolo e prendendolo volta a volta, e, dopo averlo fatto ruzzolare lontano, se lo stringeva al cuore senza permettere più che si allontanasse dalla sua manina…

178 – Lei capisce, Madre mia cara, quanto fosse triste la pallina vedendosi per terra. Tuttavia non rinunciavo a sperare contro tutte le speranze. Qualche giorno dopo l’udienza del Santo Padre, Papà andò a vedere il buon fratel Simeone, e trovò presso lui Monsignor Révérony, il quale fu amabilissimo. Papà gli rimproverò giocosamente di non avermi aiutata nella mia impresa difficile, poi narrò la storia della sua reginetta al fratello Simeone. Il venerando vecchio ascoltò il racconto con interesse vivo, prese perfino degli appunti, e disse, commosso: «Una cosa simile non si vede in Italia!». Credo che il colloquio facesse gran buona impressione a Monsignor Révérony: in seguito mi dimostrò ad ogni istante che finalmente era convinto della mia vocazione.

179 – L’indomani del giorno memorabile, bisognò partire fin dalla mattina alla volta di Napoli e Pompei. In onore nostro il Vesuvio brontolò tutta la giornata, emettendo con le sue cannonate, una colonna densa di fumo. Le tracce che ha lasciato sulle rovine di Pompei sono paurose, mostrano la potenza del Dio «che guarda la terra e la fa tremare, tocca le montagne, e le riduce in fumo». Mi sarebbe piaciuto passeggiare sola in mezzo alle rovine, meditando sulla fragilità delle cose umane, ma la folla dei viaggiatori guastava in gran parte il fascino malinconico della città distrutta. A Napoli fu tutto il contrario, il gran numero delle pariglie rese magnifica la nostra passeggiata al monastero di San Martino situato sopra una collina alta che domina la città intera; purtroppo i cavalli mordevano il freno minuto per minuto, e più d’una volta mi son vista all’ultima ora. Il cocchiere aveva un bel ripetere continuamente la parola magica dei vetturini italiani: «A-ppippo, A-ppippo» (Ah Pippo, ah Pippo …)», i poveri cavalli volevano rovesciar la carrozza, finalmente, grazie alla protezione dei nostri angeli custodi, arrivammo al nostro albergo magnifico. Durante tutto il viaggio abbiamo abitato in alberghi principeschi, mai ero stata circondata da tanto lusso, è proprio il caso di dire che la ricchezza non dà la felicità, perché sarei stata più felice sotto un tetto di paglia con la speranza del Carmelo, che in mezzo a tappezzerie dorate, scaloni bianchi di marmi, tappeti vellutati, con l’amarezza nel cuore. L’ho ben capito, la gioia non la troviamo negli oggetti che ci stanno intorno, bensì nel profondo dell’anima, possiamo averla in una prigione altrettanto bene che in un palazzo, la prova è che io sono più felice nel Carmelo, anche tra prove intime ed esteriori, che nel mondo, circondata dalle comodità della vita, e soprattutto dalle dolcezze del focolare paterno!

180 – Avevo l’anima immersa nella tristezza, tuttavia all’esterno mi mostravo la stessa, perché credevo che la supplica fatta da me al Santo Padre fosse ignota agli altri; ben presto mi persuasi del contrario: ero rimasta sola con Celina nel vagone (gli altri pellegrini erano discesi al buffet durante i pochi minuti di fermata), vidi Monsignor Legoux, vicario generale di Coutances, che aprì lo sportello e mi guardò sorridendo, poi disse: «Ebbene, come va la nostra piccola carmelitana?». Capì allora che tutto il gruppo conosceva il mio segreto; per fortuna nessuno me ne parlò, ma mi resi conto, da come mi guardavano con simpatia, che la mia istanza non aveva fatto brutta impressione, anzi… Nella cittadina di Assisi, ebbi l’occasione di salire nella carrozza di Monsignor Révérony, favore che non fu concesso ad alcuna signora durante l’intero viaggio. Ed ecco in qual modo ottenni questo privilegio.

181 – Dopo aver visitato i luoghi profumati dalle virtù di san Francesco e di santa Chiara, avevamo visto per ultimo il monastero di Sant’Agnese, sorella di santa Chiara; avevo contemplato a mio piacimento la testa della Santa, quando, ritirandomi una delle ultime, mi accorsi che avevo perduto la mia cintura; la cercai in mezzo alla folla, un sacerdote ebbe pietà di me e mi aiutò, ma dopo che me l’ebbe trovata, lo vidi allontanarsi, e rimasi sola a cercare perché, se la cintura c’era, impossibile metterla, mancava la fibbia… Finalmente la vidi brillare in un angolo; afferrarla e aggiustarla al nastro fu tutt’uno, ma la ricerca era stata lunga, perciò rimasi attonita quando mi ritrovai sola dinanzi alla chiesa; tutte le vetture erano sparite, fuorché quella di Monsignor Révérony. Che partito prendere? Dovevo correre dietro le carrozze che non vedevo più, espormi al rischio di perdere il treno e mettere il mio Babbo caro nell’inquietudine, oppure chiedere un posto nel calesse di Monsignor Révérony? Mi decisi per quest’ultima soluzione. Col piglio più garbato e meno impacciato possibile – nonostante il mio estremo impaccio – gli esposi la condizione difficile, e misi anche lui in difficoltà perché la sua vettura era gremita dai signori più autorevoli del pellegrinaggio, non c’era una briciola di posto; ma un signore cortesissimo si affrettò a scendere, mi fece salire al suo posto, e andò egli stesso modestamente accanto al cocchiere. Somigliavo a uno scoiattolo in trappola, ed ero ben lungi dal sentirmi comoda, circondata così da tutti quei grandi personaggi, e soprattutto dal più temibile, in faccia al quale ero situata… E che tuttavia fu gentilissimo con me, e interruppe varie volte la conversazione con quei signori per parlarmi del Carmelo. Prima di arrivare alla stazione tutti i grandi personaggi tirarono fuori i loro grandi portafogli per dare la mancia al cocchiere (già pagato), io feci come loro e presi il mio minimo portamonete, ma Monsignor Révérony non mi permise di estrarne delle monetine, preferì darne lui una grossa per lui e per me.

182 – Un’altra volta mi trovai accanto a lui in omnibus; fu ancor più benevolo, e mi promise che avrebbe fatto tutto il possibile affinché io entrassi nel Carmelo. Pur mettendo un po’ di balsamo sulle mie piaghe, quei piccoli incontri non impedirono che il viaggio di ritorno fosse per me ben meno piacevole che quello di andata, perché non avevo più la speranza «del Santo Padre», non trovavo più soccorso alcuno sulla terra che mi pareva un deserto arido, senz’acqua; tutta la speranza mia era nel buon Dio solo… stavo facendo esperienza che è meglio rivolgersi a lui che ai suoi santi…

183 – La tristezza dell’anima mia non m’impedì d’interessarmi vivamente ai luoghi che visitavamo. A Firenze fui felice di contemplare santa Maddalena de’ Pazzi in mezzo al coro delle carmelitane le quali ci aprirono la grata maggiore; poiché non sapevamo di poter godere di questo privilegio, e poiché molte persone desideravano far toccare le loro corone alla tomba della Santa, io sola riuscii a passare la mano attraverso la grata che la proteggeva, così tutti mi portarono dei rosari, ed ero ben fiera del mio compito. Bisognava che trovassi sempre il modo per toccar tutto, così nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme (a Roma) potemmo vedere alcuni frammenti della vera Croce, due spine ed un sacro chiodo racchiusi entro un magnifico reliquiario d’oro cesellato, ma senza vetro, perciò io trovai modo, venerando la reliquia preziosa, d’insinuare il mignolo in uno spazio del reliquiario, e potei toccare il chiodo che fu bagnato dal Sangue di Gesù. Fui veramente troppo audace. Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l’intenzione mia era pura, è che per niente al mondo avrei voluto fargli dispiacere, agivo con lui da bambina che si crede tutto permesso e considera come propri i tesori del Padre.

184 – Non riesco ancora a capire perché mai le donne siano tanto facilmente scomunicate in Italia, ad ogni piè sospinto ci veniva detto: «Non entrate qua… non entrate là, sareste scomunicate!». Ah povere donne, quanto disprezzo per loro! Eppure, sono ben più numerose degli uomini quelle che amano Dio, e durante la Passione di Nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli Apostoli, poiché sfidarono gli insulti dei soldati e osarono asciugare il Volto adorato di Gesù. Certamente per questo egli permette che il disprezzo sia il loro retaggio sulla terra, poiché l’ha scelto per se stesso. In Cielo, saprà ben mostrare che i pensieri suoi non sono quelli degli uomini, poiché allora le ultime saranno le prime… Più d’una volta, durante il viaggio, non ho avuto la pazienza di attendere il Cielo per essere la prima. Un giorno in cui visitavamo un convento di Carmelitani non mi contentai di seguire i pellegrini nelle gallerie esterne, mi spinsi fino nel chiostro interno… a un tratto vidi un buon vecchio carmelitano che da lontano mi faceva segno che mi allontanassi, ma io, invece di andarmene, mi avvicinai a lui, e indicandogli i quadri del chiostro gli feci cenno che erano belli. Capì senza dubbio dai miei capelli sciolti e dall’aria giovane che ero una bambina, mi sorrise con bontà, e si allontanò vedendo che non si trovava davanti a una nemica; se avessi potuto parlargli italiano, gli avrei detto che ero una futura carmelitana, ma a causa di quelli che fecero la torre di Babele, la cosa mi fu impossibile.

185 – Dopo aver visitato anche Pisa e Genova, tornammo in Francia. Durante il percorso, vedute magnifiche: ecco, corriamo lungo il mare, e la ferrovia è tanto vicina che mi pare le onde arrivino fino a noi (questo spettacolo fu causato da una tempesta, ed era sera, cosicché la scena appariva ancor più maestosa), ora ecco delle aperte distese di aranceti dai frutti maturi, di verdi olivi dalla ramaglia lieve, di palme graziose… al cader del giorno vedevamo numerosi piccoli porti di mare che s’illuminavano di mille luci, mentre in cielo scintillavano le prime stelle. Ah, che poesia mi empiva l’anima mentre vedevo tutte quelle cose per la prima e l’ultima volta! Senza rimpianto le vedevo svanire, il cuore mio aspirava a meraviglie diverse, aveva contemplato abbastanza le bellezze della terra, ora desiderava quelle del Cielo, e io, per darle alle anime, volevo diventare prigioniera! Prima di vedere aprirsi dinanzi a me le porte della prigione benedetta, dovevo ancor lottare e soffrire: lo sentivo mentre tornavo in Francia, tuttavia la mia fiducia era tanto grande che speravo ancora nel permesso di entrare il 25 dicembre.

186 – Appena arrivate a Lisieux, la prima visita fu per il Carmelo. Quale incanto fu quel colloquio! Avevamo tante cose da dirci, dopo un mese di separazione, un mese che mi era parso lungo e istruttivo più di parecchi anni messi insieme. Madre mia cara, quanto mi fu dolce rivederla e aprire a lei la piccola anima mia ferita. A lei che mi sapeva capire tanto bene: una parola, uno sguardo le bastavano per indovinare tutto! Mi abbandonai completamente, avevo fatto tutto quello che dipendeva da me, tutto, perfino parlare al Santo Padre, così non sapevo che cosa avrei dovuto fare ancora. Lei mi disse di scrivere a Monsignor Vescovo e ricordargli la sua promessa; lo feci subito come meglio potei, ma in termini che lo zio trovò un po’ troppo semplici. Rifece egli stesso la lettera; nel momento in cui stavo per spedirla, ne ricevetti una da lei che mi diceva di non scrivere, di attendere qualche giorno; obbedii subito, perché ero sicura che quello era il mezzo migliore per non ingannarmi. Finalmente, dieci giorni prima di Natale, la mia lettera partì. Ben convinta che la risposta non avrebbe tardato, andavo ogni mattina dopo la Messa alla posta con Papà, credendo trovarci il permesso per volar via, ma ogni mattina mi portava una delusione nuova, che tuttavia non scuoteva la mia fede. Chiedevo a Gesù che spezzasse le mie catene; le spezzò, infatti, ma in un modo affatto diverso da quello che mi aspettavo. La bella festa di Natale arrivò, e Gesù non si destò… lasciò per terra la sua pallina senza gettarle nemmeno uno sguardo.

187 – Avevo il cuore affranto quando andai alla Messa di mezzanotte, avevo pur contato di ascoltarla da dietro le grate del Carmelo! Fu una prova ben grande per la mia fede, ma «il Cuore che veglia durante il sonno» mi fece capire che concede miracoli a coloro la cui fede uguaglia un granello di senape e fa mutar di posto le montagne per rendere salda questa fede così piccola; ma per i suoi intimi, per sua Madre, non fa miracoli prima di avere messo a prova la loro fede. Non lasciò forse morire Lazzaro, nonostante che Marta e Maria gli avessero fatto dire che era malato? Alle nozze di Cana, la Santa Vergine domandò a Gesù di venire in aiuto del padrone di casa, e non le rispose Gesù che l’ora sua non era ancor giunta? Ma dopo la prova, quale ricompensa! L’acqua si cambia in vino… Lazzaro risuscita. Così Gesù agì verso la sua Teresa: dopo averla lungamente provata, colmò tutti i desideri del cuore di lei.

188 – Nel pomeriggio della festa radiosa trascorsa da me tra le lacrime, andai a trovare le carmelitane; fu grande la mia sorpresa quando vidi, nel momento in cui apersero le grate, un incantevole Gesù Bambino che teneva in mano una palla su cui era scritto il nome mio. Le carmelitane, al posto di Gesù troppo piccolo per parlare, mi cantarono un cantico composto dalla mia Madre amata; ciascuna parola diffondeva nell’anima mia una consolazione dolcissima, mai dimenticherò questa delicatezza del cuore materno che mi colmò sempre delle tenerezze più fini… Dopo aver ringraziato con lacrime soavi, raccontai la sorpresa che Celina mi aveva fatto al ritorno dalla Messa di mezzanotte. Avevo trovato in camera mia, in mezzo a una vasca graziosa, una navicella che portava Gesù Bambino addormentato, con una pallina accanto a lui; sulla vela bianca Celina aveva scritto: «Io dormo, ma il cuore mio veglia», e sulla nave questa sola parola: «Abbandono!». Ah, se Gesù non parlava alla sua piccola fidanzata, se gli occhi suoi divini restavano sempre chiusi, almeno le si rivelava per mezzo di anime atte a capire le delicatezze e l’amore del suo Cuore.

189 – Il primo giorno dell’anno 1888 Gesù mi fece ancora dono della sua croce, ma questa volta fui sola a portarla, perciò fu tanto più dolorosa quanto incompresa. Una lettera di madre Maria di Gonzaga mi annunciò che la risposta di Monsignor Vescovo era giunta il 28, festa dei santi Innocenti, ma che non me l’aveva resa nota perché aveva deciso che io entrassi soltanto dopo quaresima. Non potei trattenere il pianto pensando a un rinvio così lungo. Quella prova ebbe per me un carattere particolarissimo, vedevo i miei legami spezzati dalla parte del mondo, e questa volta era l’arca santa che rifiutava l’ingresso all’umile colomba. Credo bene che dovetti sembrare irragionevole quando non accolsi gioiosamente i miei tre mesi di esilio, ma credo altresì che, senza saperlo, questa prova fu grande e mi fece crescere molto nell’abbandono e nelle altre virtù.

190 – In quale modo trascorsero quei tre mesi tanto ricchi di grazie per l’anima mia? Anzitutto mi venne in mente di non costringermi ad una vita tanto ben regolata come quella cui ero avvezza, ma ben presto capii il valore del tempo che mi veniva offerto, e risolsi di darmi più che mai a vita seria e mortificata. Quando dico: «mortificata», non è per far credere che io facessi penitenze, ahimè! non ne ho fatte mai, ben lungi dal somigliare alle anime belle che fin dall’infanzia praticavano ogni sorta di mortificazioni, non sentivo per esse alcuna attrattiva. Certamente ciò proveniva dalla mia viltà, perché avrei potuto, come Celina, trovar mille piccole invenzioni per farmi soffrire, invece mi sono sempre lasciata coccolare nell’ovatta, e imbeccare come un uccellino che non abbia bisogno di far penitenza… Le mie mortificazioni consistevano nel rompere la mia volontà, sempre pronta a imporsi, nel trattenere una battuta di risposta, nel rendere servizietti senza farli valere, nel privarmi di appoggiare il dorso quand’ero seduta, ecc. ecc. Fu per mezzo di questi nonnulla che mi preparai a diventare la fidanzata di Gesù, e non posso dire quanti ricordi cari mi abbia lasciato quell’attesa. Tre mesi passano veloci, finalmente arrivò il momento desideratissimo!

7. Postulante e novizia nel Carmelo (1888-1890)

Straziante separazione dai propri cari – Nell’arca benedetta – Pace profonda – Le prime prove – Vestizione religiosa – Regalo della neve – Angoscia per la malattia del padre – Pratica della povertà e delle «piccole» virtù

191 – Lunedì 9 aprile, giorno nel quale il Carmelo celebrava la festa dell’Annunciazione, rimandata a causa della quaresima, fu scelto come data del mio ingresso. La sera avanti tutta la famiglia era riunita intorno alla tavola alla quale io sedevo per l’ultima volta. Ah, come sono lancinanti quelle riunioni intime! Quando si vorrebbe vedersi dimenticate, ci vengono prodigate le carezze, le parole più tenere, che ci fanno sentire il sacrificio della separazione. Papà non diceva quasi nulla, ma il suo sguardo si fissava su me con amore. La zia piangeva di quando in quando, e lo zio mi usava mille premure affettuose. Giovanna e Maria erano altrettanto piene di riguardi per me, soprattutto Maria la quale, prendendomi in disparte, mi chiese perdono dei dispiaceri che credeva di avermi dati. E infine la mia cara Leonia, tornata a casa da qualche mese dalla Visitazione, mi colmava più ancora di baci e di carezze. Soltanto di Celina non ho parlato, ma lei intuisce, Madre mia cara, in quale modo trascorse l’ultima notte che abbiamo passata insieme…

192 – La mattina del gran giorno, dopo aver dato un ultimo sguardo ai Buissonnets, nido grazioso della mia infanzia che non avrei rivisto mai più, partii al braccio del mio caro Re per salire la montagna del Carmelo… Come la vigilia, tutta la famiglia si trovò riunita per ascoltare la santa Messa e ricevere la Comunione. Appena Gesù discese nel cuore dei miei cari, intorno a me non intesi altro che singhiozzi, io sola non piansi, ma il cuore mi batteva con tanta violenza che mi parve impossibile fare un passo quando ci accennarono di avviarci verso la porta conventuale; mi mossi, tuttavia, pur domandandomi se non sarei morta, tanto mi martellava il cuore. Che momento fu quello! Bisogna esserci passati per sapere che cos’è.

193 – La mia emozione non si tradì all’esterno: dopo avere abbracciato tutti i miei cari, m’inginocchiai dinanzi al mio incomparabile Padre, chiedendogli la benedizione; per darmela, si mise egli stesso in ginocchio e mi benedisse piangendo. Fu uno spettacolo che dovette far sorridere gli angeli, quel vegliardo il quale presentava al Signore la figlia ancora nella primavera della vita. Dopo qualche istante, le porte dell’arca santa si chiusero dietro di me, e là ricevetti gli abbracci delle sorelle care le quali mi erano state mamme, e che da allora in poi avrei prese come modelli per le mie azioni. Finalmente i miei desideri erano compiuti, l’anima mia provava una pace così dolce e profonda che mi sarebbe impossibile esprimerla, e da sette anni e mezzo questa pace mi è rimasta, non mi ha abbandonata in mezzo alle prove più serie.

194 – Come tutte le postulanti, appena entrata fui condotta in coro: era nella penombra, a causa del Santissimo esposto e quello che mi colpì come prima cosa furono gli occhi della nostra santa madre Genoveffa che si fissarono su me; rimasi per un attimo in ginocchio ai piedi di lei, ringraziando il buon Dio del favore che mi concedeva di conoscere una santa, e poi seguii madre Maria di Gonzaga nei diversi ambienti del monastero: tutto mi pareva incantevole, mi credevo trasportata in un deserto, soprattutto la nostra celletta mi affascinava, ma la gioia che provavo era calma; non un soffio, sia pur lieve, ondulava le acque sulle quali vogava la mia navicella, non c’erano nubi nel mio cielo limpido… Ah! ero pienamente ricompensata di tutte le mie prove. Con quale gioia profonda ripetevo queste parole: «Per sempre, sono qui per sempre!…».

195 – Felicità non effimera, che non sarebbe svanita con «le illusioni dei primi giorni». Le illusioni… Dio mi ha fatto la grazia di non averne entrando nel Carmelo; ho trovato la vita religiosa tal quale me l’ero figurata, nessun sacrificio mi ha meravigliata, eppure, Madre mia cara, lei lo sa, i miei primi passi hanno incontrato più spine che rose! Sì, la sofferenza mi ha teso le braccia, e mi ci sono gettata con amore. Quello che venivo a fare nel Carmelo lo dichiarai ai piedi di Gesù Ostia, nell’esame che precedette la mia professione: «Sono venuta per salvare le anime, e soprattutto a pregare per i sacerdoti». Quando si vuole conseguire uno scopo, occorre prendere i mezzi adeguati: Gesù mi fece capire che voleva darmi delle anime per mezzo della croce e la mia attrattiva per il dolore crebbe in proporzione con la sofferenza. Per cinque anni quella fu la mia strada; ma al di fuori niente rivelava il mio patire, tanto più doloroso in quanto lo conoscevo io sola. Ah, quali sorprese avremo, alla fine del mondo, leggendo la storia delle anime! Quanti stupiranno vedendo per quale via è stata condotta l’anima mia!

196 – Ciò è tanto vero che, due mesi dopo il mio ingresso, il padre Pichon, essendo venuto per la professione di suor Maria del Sacro Cuore, rimase sorpreso vedendo ciò che il buon Dio operava nell’anima mia, e mi disse che il giorno prima mi aveva osservata mentre pregavo nel coro, e aveva creduto che il mio fervore fosse infantile e la mia via ben facile e dolce. Il mio colloquio col buon Padre fu per me una consolazione grande, ma velata di lacrime a causa delle difficoltà che provavo nell’aprire l’anima mia. Tuttavia feci una confessione generale quale non avevo fatta mai: alla fine il Padre mi disse queste parole, le più consolanti che abbiano mai echeggiato nell’anima mia: «In presenza di Dio, della Vergine Santa e di tutti i Santi, dichiaro che mai lei ha commesso un solo peccato mortale». Poi aggiunse: «ringrazi il buon Dio di ciò che fa per lei, perché, se l’abbandonasse, invece di essere un piccolo angelo, lei diverrebbe un piccolo demonio». Ah! non duravo fatica a crederlo, sentivo fino a che punto ero debole e imperfetta, ma la riconoscenza mi colmava l’anima; avevo tanto timore di aver macchiato la veste del mio Battesimo che una tale assicurazione uscita dalla bocca di un direttore come lo desiderava la nostra santa Madre Teresa, cioè tale che unisse la scienza alla virtù, mi pareva uscita dalla bocca stessa di Gesù… Il buon Padre mi disse ancora queste parole che mi sono rimaste impresse dolcemente nel cuore: «Figlia mia, che Nostro Signore sia sempre il suo Superiore e il suo Maestro di noviziato». Lo fu, infatti, ed anche «il mio Direttore».

197 – Non voglio dire, con ciò, che l’anima mia fosse chiusa alle mie superiore, ah! ben lungi da ciò, ho sempre cercato che fosse per loro un libro aperto; ma nostra Madre, spesso ammalata, aveva poco tempo per occuparsi di me. So che mi amava molto e diceva di me tutto il bene possibile, tuttavia il buon Dio permetteva che, senza accorgersene, fosse molto severa, non potevo incontrarla senza baciar terra, e lo stesso accadeva nei rari colloqui di direzione che avevo con lei. Che grazia inestimabile! Come agiva visibilmente il buon Dio in colei che faceva le sue veci! Cosa sarei divenuta io se, come credevano le persone del mondo, fossi stata il «giocattolo» della comunità? Forse, anziché vedere Nostro Signore nelle mie superiore, non avrei considerato se non le persone, e il cuore mio, così bene custodito nel mondo, si sarebbe attaccato umanamente nel chiostro. Fortunatamente fui preservata da tale sventura. Senza dubbio amavo molto nostra Madre, ma di un’affezione pura che mi innalzava verso lo Sposo dell’anima mia… Maestra era una vera santa, il perfetto esemplare delle prime carmelitane; tutto il giorno stavo con lei, perché ella mi insegnava a lavorare. La sua bontà verso me era illimitata, e tuttavia l’anima mia non si dilatava. Soltanto con sforzo mi era possibile di «fare» direzione, poiché non ero avvezza a parlar dell’anima mia, non sapevo come esprimere ciò che in essa accadeva. Una buona Madre anziana capì ciò che provavo, e un giorno mi disse ridendo in ricreazione: «Bambina mia, mi pare che non dobbiate aver gran che da dire alle vostre superiore». «Perché, Madre mia?». – «Perché la vostra anima è sommamente semplice, ma quando sarete perfetta, sarete ancora più semplice, più ci avviciniamo a Dio, più ci facciamo semplici». – La buona Madre aveva ragione: tuttavia, la difficoltà che provavo nell’aprire l’anima mia pur provenendo dalla mia semplicità, era una vera prova; lo riconosco ora, perché senza cessare di essere semplice, esprimo i miei pensieri molto facilmente.

199 – Ho detto che Gesù era stato «il mio Direttore». Entrando nel Carmelo feci conoscenza con colui che doveva compiere quell’ufficio, ma, appena mi ebbe accolta tra le sue figlie, partì per l’esilio. In tal modo l’avevo conosciuto soltanto per rimanerne priva. Ridotta a ricevere da lui una lettera l’anno su dodici che gliene scrivevo, il cuore mio si volse ben presto verso il Direttore dei direttori, e fu lui a istruirmi in quella scienza nascosta ai sapienti e ai saggi che egli si degna rivelare ai più piccoli.

200 – L’umile fiore trapiantato sulla montagna del Carmelo doveva aprirsi all’ombra della Croce; le lacrime, il Sangue di Gesù divennero rugiada, il Volto adorabile velato di lacrime fu il sole. Fino allora non avevo approfondito i tesori nascosti nel Volto Santo e fu per mezzo di lei, Madre mia cara, che imparai a conoscerli; allo stesso modo in cui, un tempo, lei ci aveva precedute tutte nel Carmelo, similmente era penetrata per prima nei misteri d’amore celati nel Volto del Nostro Sposo; allora lei mi chiamò, e io capii. Capii quale era la vera gloria. Colui il cui regno non è di questo mondo mi mostrò che la saggezza vera consiste nel «volere essere ignorati e considerati nulla» e nel «porre la propria gioia nel disprezzo di sé». Ah, come il Volto di Gesù, volevo che «il mio fosse veramente nascosto, che sulla terra nessuno mi riconoscesse». Avevo sete di soffrire e di essere dimenticata. Quanto misericordiosa è la via per la quale il buon Dio mi ha sempre guidata, mai mi ha fatto desiderare qualche cosa senza darmela, così il suo calice amaro mi parve delizioso.

201 – Dopo le feste radiose del mese di maggio, professione e velazione della nostra sorella cara, Maria, (la maggiore della famiglia che la più piccola ebbe l’onore di coronare nel giorno delle nozze), bisognava bene che la prova ci visitasse… L’anno prima, nel mese di maggio, Papà era stato colpito da un attacco di paralisi alle gambe, eravamo state in ansia grave, ma il temperamento forte del mio caro Re aveva preso ben presto il sopravvento, e i timori erano scomparsi; tuttavia più d’una volta, durante il viaggio a Roma, avevamo notato che si stancava facilmente, e non era più gaio come al solito. Quello che avevo accertato in modo particolare, era il progresso che Papà faceva nella perfezione; sull’esempio di san Francesco di Sales, era arrivato a padroneggiare la sua vivacità naturale a tal segno da sembrar la natura più dolce del mondo. Pareva che le cose della terra lo sfiorassero appena, prendeva facilmente il sopravvento sulle contrarietà, e in definitiva il Signore lo inondava di consolazioni; durante le sue visite quotidiane al santissimo Sacramento gli occhi suoi si empivano spesso di lacrime, e il suo viso respirava una beatitudine celeste… Quando Leonia uscì dalla Visitazione, egli non si afflisse, non fece alcun rimprovero al buon Dio per non esser stato esaudito nelle preghiere che gli aveva rivolte per ottenere la vocazione della sua cara figlia, anzi, andò a prenderla con una certa gioia. Ecco con quale fede Papà accettò la separazione dalla sua reginetta: l’annunciò in questi termini ai suoi amici di Alencon: «Cari amici, Teresa, la mia reginetta, è entrata ieri nel Carmelo! Dio solo può esigere un sacrificio come questo… Non mi compiangete, perché il mio cuore sovrabbonda di gioia».

202 – Era tempo che un servo tanto fedele ricevesse il premio delle sue fatiche, era giusto che il suo compenso somigliasse a quello che Dio dette al Re del Cielo, suo Figlio unico… Papà aveva offerto da poco tempo a Dio un altare; fu lui la vittima scelta per essere immolata con l’Agnello senza macchia. Lei conosce, Madre mia cara, le nostre amarezze del mese di giugno, soprattutto del 24, nell’anno 1888, quei ricordi sono impressi troppo profondamente nei nostri cuori perché sia necessario scriverli… Oh Madre mia, quanto abbiamo sofferto! Ed era solamente l’inizio della nostra prova. Tuttavia il tempo della mia vestizione era giunto: fui ricevuta dal capitolo, ma come pensare a fare una cerimonia? Già parlavano di darmi il santo abito senza farmi uscire, quando venne deciso di attendere. Contro ogni previsione il nostro caro Babbo si rimise dal suo secondo attacco, e Monsignor Vescovo stabilì la cerimonia al 10 gennaio.

203 – L’attesa era stata lunga, ma pure che bella festa! Niente mancò, niente, nemmeno la neve… Non so se le ho già parlato del mio amore per la neve? Quand’ero molto piccola, il suo candore mi rapiva; uno dei piaceri più grandi era passeggiare sotto i fiocchi bianchi. Donde mi veniva quel gusto della neve? Forse dal fatto che, essendo io un fiorellino d’inverno, il primo splendore della natura che videro i miei occhi dovette essere il suo manto bianco. Avevo sempre desiderato che nel giorno della mia vestizione la natura fosse, come me, vestita di bianco. Il giorno prima guardavo tristemente il cielo grigio dal quale sfuggiva ogni tanto un po’ di pioggia fine, e la temperatura era così mite che non speravo più la neve. Il mattino dopo, il cielo non era cambiato; tuttavia la festa fu incantevole, e il fiore più bello fu il mio caro Re. Mai era stato più bello, più degno. Formò l’ammirazione di tutti, quel giorno fu il suo trionfo, l’ultima sua festa quaggiù. Aveva dato tutti i suoi figli al buon Dio, poiché avendogli anche Celina confidato la propria vocazione, lui aveva pianto di gioia, ed era andato a ringraziare Colui che «gli faceva l’onore di prendere tutte le sue figlie».

204 – Alla fine della cerimonia Monsignor Vescovo intonò il Te Deum, un sacerdote cercò di far notare che quell’inno veniva cantato soltanto alle professioni, ma l’avvio era dato, e il cantico del ringraziamento continuò fino alla fine. Non doveva essere completa quella festa, poiché in essa si riunivano tutte le altre? Dopo aver abbracciato un’ultima volta il mio Re caro, rientrai nella clausura, e la prima cosa che vidi nel chiostro fu «il mio Gesù Bambino rosa» che mi sorrideva in mezzo ai fiori e alle luci, e poi subito il mio sguardo si posò su dei fiocchi di neve: il cortile era bianco come me. Che delicatezza di Gesù! Prevenendo i desideri della sua piccola fidanzata, le regalava la neve… Della neve! Quale è dunque l’uomo, potente quanto si voglia, che riesca a far cadere dal cielo la neve per far piacere alla sua amata? Forse, le persone del mondo si posero questa domanda, certo si è che la neve della mia vestizione parve loro un piccolo miracolo, e tutta la città ne stupì. Trovarono che avevo uno strano gusto poiché mi piaceva la neve. Tanto meglio! ciò fece risaltare ancor più l’incomprensibile condiscendenza dello Sposo delle vergini, di colui che ama i gigli bianchi come la neve!

205 – Monsignore entrò dopo la cerimonia, fu di una bontà davvero paterna verso me. Era fiero di vedere che avevo perseverato, diceva a tutti che ero la «sua figlioletta». Ogni volta che tornò dopo quella bella festa, sua Eccellenza fu sempre tanto buono con me, mi ricordo soprattutto della sua visita nel centenario di san Giovanni della Croce. Mi prese la testa tra le mani, mi fece tante carezze, mai ero stata tanto onorata! Nello stesso tempo il buon Dio mi fece pensare alle carezze che vorrà prodigarmi dinanzi agli angeli e ai Santi, e delle quali mi dava una debole immagine fin da questo mondo, così la consolazione che provai fu grande.

206 – Come ho detto, la giornata del 10 gennaio fu il trionfo del mio Re, io la paragono all’entrata di Gesù in Gerusalemme nel giorno delle Palme; come quella del nostro Divino Maestro, la gloria di un giorno fu seguita da una passione dolorosa, e questa passione non fu per lui solo; come i dolori di Gesù trafissero con una spada il cuore della sua Madre divina, così i nostri cuori sentirono le sofferenze di colui che noi amavamo più teneramente di ogni altro sulla terra. Ricordo che nel giugno 1888, nel momento delle nostre prime prove, dicevo: «Soffro molto, ma sento che posso sopportare prove più grandi». Non pensavo allora a quelle che mi erano riservate. Non sapevo che il 12 febbraio, un mese dopo la mia vestizione, il nostro Babbo amato avrebbe bevuto alla coppa più amara e più umiliante. Ah, quel giorno non ho detto che avrei potuto soffrire di più! Le parole non riescono ad esprimere le nostre angosce, perciò non cercherò di descriverle. Un giorno, in Cielo, ci piacerà di parlare delle nostre prove gloriose, non siamo già felici per averle sofferte? Sì, i tre anni del martirio di Papà mi sembrano i più amabili, i più fruttuosi di tutta la nostra vita, io non li darei per tutte le estasi e le rivelazioni dei Santi, il cuore mio trabocca di gratitudine pensando a quel tesoro inestimabile che deve causare una santa invidia agli Angeli della corte celeste.

207 – Un mio desiderio di sofferenze era colmato, tuttavia l’attrattiva verso il dolore non diminuiva in me, tanto che l’anima mia condivise presto le sofferenze del cuore. L’aridità era il mio pane quotidiano, e, privata di qualsiasi consolazione, ero tuttavia la creatura più felice, poiché tutti i miei desideri erano soddisfatti. Oh, Madre mia cara! Com’è stata dolce la nostra grande prova, poiché da tutti i nostri cuori sono usciti solamente sospiri d’amore e di riconoscenza! Noi non camminavamo più sui sentieri della perfezione, volavamo tutte e cinque! Le due povere esiliate di Caen, pur essendo ancora nel mondo, non erano già più del mondo. Ah, quali meraviglie ha operato la prova nell’anima della mia cara Celina! Tutte le lettere scritte da lei in quel periodo sono pervase di rassegnazione e d’amore. E chi potrà dire dei colloqui che avevamo? Lungi dal separarci, le grate del Carmelo univano più fortemente le nostre anime, avevamo gli stessi pensieri, gli stessi desideri, lo stesso amore di Gesù e delle anime! Quando Celina e Teresa parlavano tra loro, mai una parola delle cose terrene si mescolava alle loro conversazioni che già erano tutte nel Cielo. Come un tempo nel «belvedere», sognavamo le cose dell’eternità e, per godere ben presto di quel gaudio senza fine, sceglievamo quaggiù come nostra unica parte «la sofferenza e il disprezzo».

208 – In tal modo passò il tempo del mio fidanzamento: fu ben lungo per la povera Teresa! Alla fine del mio anno di noviziato Nostra Madre mi disse di non chiedere la professione, ché certamente il Superiore respingerebbe la mia istanza, dovetti attendere ancora otto mesi… Al primo momento mi fu ben difficile accogliere quel grande sacrificio, ma ben presto la luce mi si fece nell’anima; meditavo allora i «Fondamenti della vita spirituale» del Padre Surin; un giorno, durante l’orazione, capii che il mio desiderio vivo di far professione era mescolato con un grande amor proprio; poiché mi ero data a Gesù per fargli piacere, consolarlo, non dovevo obbligarlo a fare la mia volontà invece della sua; capii allora che una fidanzata dev’essere ornata nel giorno delle nozze, e che io non avevo fatto nulla a questo scopo, allora dissi a Gesù: «O Dio mio! non vi chiedo di pronunciare i miei santi voti, attenderò quanto vorrete voi, soltanto non voglio che per colpa mia la mia unione con voi sia differita, perciò mi metterò con tutto l’impegno a prepararmi una bella veste ricca di gemme; quando la troverete abbastanza ornata, sono sicura che nessuna creatura vi impedirà di scendere verso di me per unirmi con voi per sempre, o mio Amato!».

209 – Dopo la mia vestizione avevo già ricevuto luci abbondanti sulla perfezione religiosa, principalmente riguardo al voto di povertà. Durante il mio postulantato ero contenta di avere delle cose graziose per mio uso, e di trovare sotto mano tutto ciò che mi occorreva. «Il mio Direttore» sopportava ciò pazientemente, perché non gli piace mostrare alle anime tutto nello stesso momento. Generalmente dà la sua luce a poco a poco. (All’inizio della mia vita spirituale, verso l’età dai tredici ai quattordici anni, mi chiedevo ciò che più tardi avrei avuto da acquistare perché credevo che mi fosse impossibile capire meglio la perfezione; ho riconosciuto ben presto che, più si va avanti su quel cammino, più ci crediamo lontani dalla meta, così ora mi rassegno a vedermi sempre imperfetta, e trovo in ciò la mia gioia…). Ritorno alle lezioni che mi dette «il mio Direttore». Una sera, dopo Compieta, cercai inutilmente la nostra piccola lampada sulle tavole destinate a quell’uso, era gran silenzio, impossibile reclamare. Capii che una suora, credendo di prendere la sua lampada, aveva preso la nostra, di cui avevo gran bisogno; invece di provar dispiacere essendone privata, fui ben felice, sentendo che la povertà consiste nel vedersi privi non soltanto delle cose piacevoli, bensì anche delle indispensabili, così nelle tenebre esteriori fui illuminata interiormente. Fui presa in quel tempo da un vero e proprio amore per gli oggetti più brutti e meno comodi, così vidi con gioia che mi veniva tolta la bella brocchina della nostra cella, e che mi veniva data una brocca grossa e tutta sbocconcellata.

210 – Facevo anche veri sforzi per non giustificarmi, cosa che mi pareva ben difficile, specie con la nostra Maestra, alla quale non avrei voluto tacere alcunché. Ecco la mia prima vittoria, non è molto grande, ma mi è costata molto: un vasetto collocato dietro una finestra venne trovato rotto; la nostra Maestra, credendo che l’avessi fatto cadere io, me lo mostrò, dicendomi di far più attenzione un’altra volta. Senza dir nulla baciai terra, poi promisi che nell’avvenire sarei stata più ordinata. A causa della mia scarsa virtù quelle pratiche mi costavano molto, e avevo bisogno di pensare che nel giudizio universale tutto sarebbe stato rivelato, perché facevo questa osservazione: quando si fa il proprio dovere senza mai giustificarsi, nessuno lo sa; al contrario, le imperfezioni appaiono subito.

211 – M’impegnavo soprattutto a praticare le virtù piccole, non avendo il destro per praticare le grandi, così mi piaceva ripiegare le cappe dimenticate dalle consorelle, e rendere a queste ultime tutti i piccoli servigi che potevo. Mi fu dato anche l’amore della mortificazione e fu tanto più grande in quanto niente mi era permesso per soddisfarlo. La sola piccola mortificazione che facevo nel mondo, e che consisteva nel non appoggiare il dorso quand’ero seduta, mi fu proibita a causa della mia propensione a curvarmi. Ahimè! il mio ardore certamente non sarebbe stato di lunga durata se mi avessero concesso molte penitenze… Quelle che mi permisero senza che io le chiedessi consistevano nel mortificare il mio amor proprio, ciò che mi procurava molto maggior vantaggio che non le penitenze corporali.

212 – Il refettorio, che fu il mio ufficio subito dopo la vestizione, mi offerse più d’una occasione per mettere il mio amor proprio al posto che gli spetta, cioè sotto i piedi. È vero che provavo grande consolazione perché ero nello stesso ufficio suo, Madre mia cara, e potevo contemplare da vicino le sue virtù, ma questo ravvicinamento mi era causa di sofferenza; non mi sentivo, come un tempo, libera di dire a lei tutto, c’era la regola da osservare, non potevo aprirle l’anima mia; insomma, ero al Carmelo, e non più ai Buissonnets sotto il tetto paterno!

213 – Tuttavia la Santa Vergine mi aiutava a preparare la veste dell’anima mia; appena fu compiuta, gli ostacoli svanirono da sé. Monsignor Vescovo mi mandò il permesso che avevo chiesto, la comunità mi ricevette e la mia professione fu fissata all’8 settembre. Tutto quello che ho scritto in poche parole richiederebbe molte pagine di particolari, ma queste pagine non verranno mai lette sulla terra; presto, Madre mia cara, le parlerò di tutte queste cose nella nostra casa paterna, nel Cielo bello al quale salgono i sospiri dei nostri cuori! La mia veste nuziale era pronta, impreziosita dai gioielli antichi che mi aveva dati il mio Fidanzato, ma ciò non bastava alla sua generosità. Voleva darmi un diamante nuovo dai riflessi innumerevoli. La prova di Papà era, con tutte le sue circostanze dolorose, i gioielli antichi, e il nuovo fu una prova ben piccola in apparenza, ma che mi fece soffrire molto.

214 – Da qualche tempo, poiché il nostro povero caro Babbo si sentiva un po’ meglio, lo facevano uscire in carrozza, e si pensava perfino di farlo viaggiare in treno per venire a trovarci. Naturalmente Celina pensò subito che bisognava scegliere il giorno della mia velazione. «Per non stancarlo – diceva lei – non lo farò assistere a tutta la cerimonia, solamente alla fine andrò a prenderlo, e lo condurrò dolcemente fino alla grata, affinché Teresa riceva la sua benedizione». Ah, riconosco bene il cuore della mia Celina cara… è pur vero che «l’amore non pone mai pretesti d’impossibilità perché crede tutto possibile e tutto permesso». Invece, la prudenza umana trema a ciascun passo, e non osa, per così dire, posare il piede; così il buon Dio che voleva provarmi si servì di lei come di uno strumento docile, e il giorno delle mie nozze fui veramente orfana: non avevo più Padre sulla terra, ma potevo guardare al Cielo con fiducia e dire con piena verità: «Padre Nostro, che sei nei Cieli».

8. Sposa di Cristo (1890-1896)

Cammino nell’aridità – Giorno senza nubi della professione religiosa – Velazione – L’ultima lacrima di una santa – Epidemia al Carmelo – Ineffabile consolazione – Sulla via della confidenza e dell’amore – Desideri realizzati – Entrata di Celina nel Carmelo – Alla scuola di san Giovanni della Croce – Vittima dell’Amore misericordioso.

215 – Prima di parlarle di questa prova, avrei dovuto, Madre mia cara, parlarle del ritiro che precedette la mia professione; lungi dal portarmi consolazioni, mi recò l’aridità più assoluta e quasi l’abbandono. Gesù dormiva come sempre nella mia navicella; ah, vedo bene che di rado le anime lo lasciano dormire tranquillamente in loro stesse. Gesù è così stanco di sollecitare sempre con favori e di prendere le iniziative, che si affretta a profittare del riposo che io gli offro. Non si sveglierà certamente prima del mio grande ritiro dell’eternità, ma, invece di addolorarmi, ciò mi fa un piacere immenso. In verità, sono ben lungi da essere santa, già questo di per sé ne è prova; invece di rallegrarmi per la mia aridità, dovrei attribuirla al mio poco fervore e alla mia scarsa fedeltà, dovrei sentirmi desolata perché dormo (da sette anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti; ebbene, non mi affanno per questo; penso che i bimbi piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli, penso che per fare delle operazioni i medici addormentano i malati. Infine, penso che «il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo soltanto polvere»

216 – Il mio ritiro di professione fu, dunque, come tutti quelli successivi, aridissimo; tuttavia il buon Dio mi mostrava chiaramente, senza che io me n’accorgessi, il mezzo per piacergli e praticare le virtù più sublimi. Ho notato varie volte che Gesù non vuole darmi provviste, mi sostiene minuto per minuto, con un nutrimento affatto nuovo, lo trovo in me senza sapere come ci sia. Credo semplicemente che sia Gesù stesso nascosto in fondo al mio povero cuore che mi fa grazia di agire in me e mi fa pensare tutto quello che vuole ch’io faccia nel momento presente. Qualche giorno prima della mia professione ebbi la felicità di ricevere la benedizione del Sommo Pontefice; l’avevo sollecitata per mezzo del buon fratel Simeone per Papà e per me, e fu una grande consolazione poter rendere al mio Babbo caro la grazia che egli mi aveva procurata conducendomi a Roma.

217 – Finalmente il giorno bello delle mie nozze arrivò, fu senza nubi, ma il giorno avanti si alzò nell’anima mia una tempesta come non ne avevo mai viste. Non mi era ancora mai venuto un solo dubbio sulla mia vocazione, bisognava che conoscessi questa prova. La sera, facendo la Via Crucis dopo Mattutino, la mia vocazione mi apparve come un sogno, una chimera… Trovavo bellissima la vita del Carmelo, ma il demonio m’ispirava la sicurezza che non era fatta per me, che avevo ingannato le superiore procedendo in una strada alla quale non ero chiamata. Le mie tenebre erano così grandi che vedevo e capivo una cosa sola: non avevo la vocazione!… Ah, come descrivere l’angoscia dell’anima mia? Mi pareva (cosa assurda, che dimostra come quella tentazione fosse dal demonio) che se avessi detto le mie paure alla Maestra, questa mi avrebbe impedito di pronunziare i santi voti; tuttavia volevo fare la volontà di Dio e ritornare nel mondo piuttosto che restare nel Carmelo facendo la mia; feci dunque uscire la mia Maestra e piena di confusione le dissi lo stato della mia anima… Fortunatamente vide più chiaro di me e mi rassicurò completamente; d’altra parte l’atto di umiltà che avevo fatto aveva messo in fuga il demonio, il quale pensava forse che io non avrei osato confessare la tentazione. Appena ebbi finito di parlare i dubbi scomparvero; per rendere più completo il mio atto di umiltà, volli ancora confidare la mia strana tentazione a Nostra Madre, la quale si contentò di ridere di me.

218 – La mattina dell’8 settembre mi sentii inondata da un fiume di pace, e in questa pace «che superava ogni sentimento» pronunciai i miei santi voti. La mia unione con Gesù ebbe luogo non in mezzo a folgori e lampi, cioè tra grazie straordinarie, ma nel soffio di un vento lieve simile a quello che sentì sulla montagna il nostro padre sant’Elia. Quante grazie chiesi quel giorno! Mi sentivo veramente la Regina, profittavo del mio titolo per liberare i prigionieri, ottenere i favori del Re verso i suoi sudditi ingrati, infine volevo liberare tutte le anime del Purgatorio e convertire i peccatori. Ho pregato molto per la mia Madre, per le mie Sorelle care, per tutta la famiglia, ma soprattutto per il mio Babbo, tanto provato e così santo. Mi sono offerta a Gesù affinché Egli compia perfettamente in me la sua volontà senza che mai le creature vi pongano ostacolo. Quel giorno bello passò come i più tristi, poiché i più radiosi hanno un domani, ma senza tristezza deposi la mia corona ai piedi della Vergine Santa, sentivo che il tempo non avrebbe portato via la mia felicità. Che festa bella, la natività di Maria per divenir la sposa di Gesù! Era la Santa Vergine bambinella di un giorno che presentava il suo fiore piccino a Gesù Bambino. Quel giorno lì tutto era piccolo, eccettuate le grazie e la pace che io ricevetti, eccettuata la gioia serena che provai la sera, guardando scintillare le stelle, e pensando che ben presto il cielo bello si sarebbe aperto ai miei occhi rapiti, e che avrei potuto unirmi al mio Sposo in una letizia eterna.

219 – Il 24 ebbe luogo la cerimonia della mia velazione, la giornata intera fu velata di lacrime. Papà non c’era per benedire la sua regina. Il Padre era in Canada. Monsignor Vescovo, il quale doveva venire e pranzare poi da mio zio, si trovò malato e non venne nemmeno lui, insomma tutto fu tristezza e amarezza. Tuttavia la pace, sempre la pace si trovava in fondo al calice. In quel giorno Gesù permise che io non potessi trattenere le mie lacrime, le mie lacrime non furono capite… In verità, avevo sopportato senza piangere prove ben più grandi, ma allora ero aiutata da una grazia potente; invece il 24 Gesù mi lasciò alle mie proprie forze e mostrai quanto erano piccole.

220 – Otto giorni dopo la mia velazione ci fu il matrimonio di Giovanna. Dirle, Madre mia cara, quanto il suo esempio m’istruì riguardo alle premure che una sposa deve prodigare al proprio sposo, mi sarebbe impossibile; ascoltavo avidamente tutto quello che potevo impararne perché non volevo fare per il mio Gesù amato meno di quanto Giovanna faceva per Francesco, una creatura senza dubbio molto perfetta, ma pur sempre una creatura. Mi divertii anche a comporre una lettera d’invito per paragonarla alla sua, ecco com’era concepita: Lettera d’invito alle nozze del Volto Santo.

Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l’Infanzia di Gesù e la sua Passione, essendo suoi titoli di nobiltà: di Gesù Bambino e del Volto Santo. di suor Teresa di Gesù Bambino e il Signor Luigi Martin, Proprietario e Sire delle Signorie della Sofferenza e della Umiliazione, e la Signora Martin, Principessa e Dama d’Onore della Corte celeste, partecipano il Matrimonio della loro figlia Teresa con Gesù il Verbo di Dio, seconda Persona dell’Adorabile Trinità, il quale, per opera dello Spirito Santo si è fatto Uomo e Figlio di Maria, la Regina dei Cieli. Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l’8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L’ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare.

221 – … felicità di aver conosciuto la nostra santa Madre Genoveffa. È una grazia inestimabile, quella; ebbene, il buon Dio, il quale me ne aveva già concesse tante, di grazie, ha voluto che io vivessi con una Santa non già inimitabile, bensì una Santa santificata da virtù nascoste e ordinarie. Più d’una volta ho ricevuto grandi consolazioni da questa Madre, soprattutto una domenica. Andai come di consueto a farle una visitina, ma trovai due religiose presso di lei; le sorrisi, e mi disponevo a uscire poiché non si può essere in tre presso una malata, ma lei, guardandomi con aria ispirata, disse: «Attenda, figlia mia, ho da dirle una parolina sola. Ogni volta che lei viene, mi chiede di darle un mazzetto spirituale, ebbene, oggi le darò questo: Servite Dio in pace e con gioia; si ricordi, figlia, che il nostro Dio è il Dio della pace!» Dopo averla semplicemente ringraziata, uscii commossa fino alle lacrime, e convinta che il buon Dio le avesse rivelato la condizione dell’anima mia; quel giorno ero estremamente provata, quasi triste, in una notte tale che non sapevo più se ero amata da Dio misericordioso, ma la gioia e la consolazione che provai, lei le indovina, Madre mia cara! La domenica seguente volli sapere quale rivelazione Madre Genoveffa avesse avuta; mi assicurò che non ne aveva avuta alcuna; allora la mia ammirazione fu ancora più grande, vedendo a quale grado eminente Gesù viveva in lei e la faceva agire e parlare. Ah, quella santità là mi pare la più vera, la più santa, ed è quella che desidero, perché non si trovano in essa illusioni…

222 – Il giorno della mia professione fui anche molto consolata venendo a sapere dalla bocca di Madre Genoveffa che ella era passata dalla stessa prova mia, prima di pronunciare i suoi voti. Nel momento delle nostre grandi pene, lei rammenta, Madre cara, le consolazioni che trovammo presso lei? Il ricordo che Madre Genoveffa mi ha lasciato nel cuore, è un ricordo profumato. il giorno del suo transito al Cielo mi sentii particolarmente commossa, era la prima volta che assistevo alla morte, realmente quello spettacolo era incantevole… Ero situata proprio a piè del letto della santa morente, vedevo perfettamente i suoi movimenti più lievi. Mi pareva, durante le due ore che passai così, che l’anima mia avrebbe dovuto empirsi di fervore; al contrario, una specie d’insensibilità si era impadronita di me, ma nel momento stesso in cui la nostra santa Madre Genoveffa nasceva al Cielo, le mie disposizioni intime cambiarono, in un batter d’occhio mi sentii piena di una gioia e d’un fervore indicibili, era come se Madre Genoveffa mi avesse dato una parte della felicità della quale godeva, perché sono ben sicura che è andata diritta al Cielo. Durante la vita le dissi un giorno: «Oh Madre, lei non andrà in purgatorio! ». – «Lo spero», mi rispose con dolcezza. Ah, certamente il buon Dio non ha potuto deludere una speranza così piena d’umiltà, lo dimostrano tutti i favori che abbiamo ricevuti… Ciascuna suora si fece premura di richiedere qualche reliquia; lei lo sa, Madre mia cara, quale è quella che io possiedo, felice me! Durante l’agonia di Madre Genoveffa, notai che una lacrima riluceva sulla sua palpebra come un diamante; era l’ultima di tutte quelle sparse da lei, e non cadde, la vidi ancora brillare nel coro senza che alcuna pensasse a raccoglierla. Allora, prendendo un pannolino fine, osai avvicinarmi la sera, senza essere veduta, e prendere come reliquia l’ultima lacrima di una Santa! Dopo, l’ho portata sempre nel sacchetto entro il quale sono chiusi i miei voti.

223 – Io non do importanza ai miei sogni, del resto ne ho raramente di simbolici, e mi domando perfino come mai, pensando tutto il giorno al Signore, io non me ne occupi di più durante il sonno. Generalmente sogno i boschi, i fiori, i ruscelli, il mare, e quasi sempre vedo dei bambini belli, acchiappo farfalle ed uccellini come non ne ho visti mai. Lei vede, Madre, che se i miei sogni hanno un’apparenza poetica, sono lungi dall’essere mistici… Una notte dopo la morte di Madre Genoveffa, ne feci uno consolante: sognai che ella faceva testamento, dando a ciascuna consorella una cosa che le era appartenuta; quando venne il mio turno, credevo di non ricevere niente perché niente le restava più, ma sollevandosi ella disse per tre volte con un tono penetrante: «A lei lascio il mio cuore».

224 – Un mese dopo il transito della nostra santa Madre, l’influenza si manifestò nella comunità; ero sola in piedi con due altre consorelle, mai potrò dire tutto quello che ho visto, e che cosa m’è sembrato della vita e di tutto ciò che passa… il giorno dei miei diciannove anni fu festeggiato da una morte, seguita ben presto da altre due. In quel periodo ero sola ad occuparmi della sacristia, la mia maggiore d’ufficio era ammalata gravemente, perciò toccava a me preparare i funerali, aprire le grate del coro per la Messa, ecc. Il buon Dio mi ha dato molte grazie di forza in quel momento, mi domando ora come io abbia potuto fare senza paura tutto quello che ho fatto; la morte regnava dovunque, le più malate erano curate da quelle che si trascinavano a fatica; appena una consorella aveva reso l’ultimo respiro, eravamo costrette a lasciarla sola. Un mattino, alzandomi, ebbi il presentimento che suor Maddalena fosse morta; il dormitorio era all’oscuro, nessuna usciva dalle celle, finalmente mi decisi a entrare in quella di suor Maddalena, la cui porta era aperta; la vidi, infatti, vestita e distesa sul pagliericcio, non ebbi la minima paura. Vedendo che non aveva più cero, andai a cercarne uno, ed anche una corona di rose. La sera in cui morì la madre Sottopriora, ero sola con l’infermiera. Impossibile figurarsi la triste condizione della comunità in quel momento, soltanto quelle che erano in piedi potevano farsene un’idea, ma in mezzo a quell’abbandono, io sentivo che il Signore vegliava su noi. Senza sforzo le morenti passavano a vita migliore, subito dopo la morte un’espressione di gioia e di pace si diffondeva sui loro volti, si sarebbe detto un sonno dolce; e tale era veramente, perché, dopo che le parvenze di questo mondo saranno dileguate, esse si risveglieranno per godere eternamente le delizie riservate agli eletti.

225 – Per tutto il tempo durante il quale la comunità fu provata in questo modo, potei avere l’ineffabile consolazione della santa Comunione quotidiana. Ah com’era dolce! Gesù mi favorì più a lungo che le sue spose fedeli, perché permise che me la dessero allorché le altre non avevano la felicità di averla. Ed ero anche tanto felice di toccare i vasi sacri, di preparare i lini destinati a ricevere Gesù, sentivo che dovevo essere molto fervente e mi ricordai spesso una parola rivolta a un santo diacono: «Siate santi, voi che toccate i vasi del Signore». Non posso dire d’avere ricevuto spesso delle consolazioni durante i miei ringraziamenti, forse è il momento in cui ne ho meno. Ma questo lo trovo naturale perché mi sono offerta a Gesù come una persona che desidera ricevere la sua visita non già per propria consolazione, bensì per il piacere di Colui che si dà a me. Mi figuro l’anima mia come un terreno libero, e prego la Vergine Santa di sgombrare i detriti che potrebbero impedirle di essere libera, poi la supplico di alzare ella stessa una tenda vasta, degna del Cielo, di abbellirla con i suoi ornamenti, e invito tutti i Santi e gli Angeli affinché vengano a fare un magnifico concerto. Mi pare, quando Gesù discende nel mio cuore, che sia contento di vedersi ricevuto così bene, ed anch’io sono contenta. Tutto ciò non impedisce alle distrazioni e al sonno di venire a farmi visita, ma, uscendo dal ringraziamento e vedendo che l’ho fatto tanto male, risolvo di stare tutto il resto della giornata in azione di grazie.

226 – Lei vede, Madre cara, che sono ben lungi dall’esser guidata per la via della paura, so trovar sempre il mezzo per essere felice e profittare delle mie miserie. Realmente ciò non deve dispiacere a Gesù, perché pare che m’incoraggi su questa via. Un giorno, contrariamente al mio solito, ero un poco turbata mentre andavo alla Comunione, mi pareva che il Signore non fosse contento di me, e io dicevo a me stessa: «Ah se oggi ricevo soltanto metà di un’ostia, sarò addolorata, crederò che Gesù venga quasi malvolentieri nel mio cuore». Mi avvicino… oh felicità! per la prima volta in vita mia, vedo il sacerdote che prende due ostie ben separate e me le dà! Lei capisce la mia gioia e le lacrime dolci che ho pianto, vedendo una misericordia tanto grande.

227 – L’anno che seguì la mia professione, cioè due mesi prima che morisse madre Genoveffa, ricevetti grandi grazie durante il ritiro. Generalmente i ritiri predicati mi sono ancora più dolorosi di quelli che faccio da sola, ma quell’anno accadde diversamente. Avevo fatto una novena preparatoria con grande fervore, nonostante quello che provavo intimamente, perché mi sembrava che il predicatore non potesse capirmi, in quanto pareva adatto soprattutto a far del bene ai grandi peccatori, ma non alle anime consacrate. Il Signore, volendo mostrarmi che è lui solo il direttore dell’anima mia, si servì proprio di quel Padre, il quale fu apprezzato soltanto da me. Avevo allora grandi prove intime di ogni sorta (fino a chiedermi talvolta se ci fosse un Cielo). Mi sentivo inclinata a non parlare delle mie disposizioni intime, non sapendo come esprimerle, ma appena entrata in confessionale sentii l’anima mia dilatarsi. Dopo che avevo detto poche parole, fui capita in un modo meraviglioso e perfino indovinata. L’anima mia era come un libro nel quale il Padre leggeva meglio che io stessa. Mi lanciò a vele spiegate sulle onde della confidenza e dell’amore che mi attiravano così fortemente, e sulle quali non osavo andare avanti. Mi disse che le mie colpe non addoloravano il Signore, e aggiunse come suo rappresentante e a nome suo che il Signore era molto contento di me.

228 – Oh, come fui felice d’ascoltare quelle parole consolanti! Mai avevo inteso dire che le colpe potevano non addolorare il buon Dio, quest’assicurazione mi colmò di gioia, mi fece sopportare pazientemente l’esilio della vita. Sentivo bene in fondo al cuore che era vero, perché il Signore è più tenero di una madre; ora lei, Madre cara, non è sempre pronta a perdonarmi le piccole mancanze di delicatezza che le faccio involontariamente? Quante volte ne ho fatta la dolce esperienza! Nessun rimprovero mi avrebbe toccata tanto, quanto una sola delle sue carezze. Sono di una natura tale che la paura mi fa indietreggiare, con l’amore non soltanto vado avanti, ma volo. Oh, Madre mia, fu soprattutto dal giorno della sua elezione che volai sulla via dell’amore. In quel giorno Paolina divenne il mio Gesù vivente.

229 – Da lungo tempo già ho la felicità di contemplare le meraviglie che Gesù opera per mezzo della mia cara Madre. Credo che la sofferenza sola può generare le anime e più che mai le sublimi parole di Gesù mi svelano la loro profondità: «In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo, ma se muore dà molto frutto». Quale messe abbondante lei ha raccolto! Ha seminato tra le lacrime, ma ben presto vedrà il frutto delle sue fatiche, ritornerà colma di gioia, portando manipoli tra le mani… Oh, Madre mia, tra quei manipoli il fiorellino bianco si nasconde, ma in Cielo avrà una voce per cantare la dolcezza e le virtù che vede praticare da lei giorno per giorno nell’ombra e nel silenzio dell’esilio. Sì, da due anni ho capito molti misteri nascosti per me fino allora. Il buon Dio mi ha mostrato la stessa misericordia che mostrò al re Salomone. Ha voluto che io non abbia nemmeno un solo desiderio inappagato, non soltanto i miei desideri di perfezione, bensì anche quelli di cui capivo la vanità, senza averla sperimentata.

230 – Avendo sempre considerato lei, Madre mia cara, come il mio ideale, desideravo somigliarle in tutto; vedendo lei che faceva belle pitture e deliziose poesie, dicevo: «Come sarei felice di poter dipingere, di sapere esprimere i miei pensieri in versi e così far del bene alle anime…». Non avrei voluto chiedere questi doni naturali e i miei desideri mi rimanevano nascosti in fondo al cuore. Piacque a Gesù, nascosto anche lui in questo povero cuore, mostrarmi che tutto è vanità e afflizione di spirito sotto il sole… Con grande meraviglia delle consorelle, mi fecero dipingere e il buon Dio permise che io profittassi delle lezioni datemi dalla mia cara Madre. Volle inoltre che io riuscissi a fare delle poesie secondo l’esempio di lei, a comporre strofe che furono trovate carine. Così come Salomone volgendosi verso le opere delle sue mani, per le quali si era affaticato inutilmente, vide che tutto è vanità e afflizione di spirito, così io ho riconosciuto per esperienza che la felicità consiste soltanto nel nascondersi, nel restare nell’ignoranza delle cose create. Ho capito che, senza l’amore tutte le cose sono niente, anche le più splendide come risuscitare i morti o convertire i popoli. Invece di farmi del male, di indurmi a vanità, i doni che il buon Dio mi ha prodigati (senza che glielo chiedessi) mi portano verso lui, vedo che lui solo è immutabile, che lui solo può colmare i miei desideri immensi.

231 – Gesù si è compiaciuto di soddisfare anche altri miei desideri d’altro genere, desideri infantili, simili a quello della neve per la mia vestizione. Lei sa, Madre cara, quanto io ami i fiori; facendomi prigioniera a quindici anni, rinunciai per sempre alla gioia di correre nelle campagne smaltate dai tesori della primavera; ebbene! mai ho avuto più fiori che da quando sono entrata nel Carmelo. È usanza che i fidanzati offrano spesso dei mazzi alle fidanzate; Gesù non lo dimenticò, mi mandò in gran numero mazzi di fiordalisi, margherite, papaveri, ecc. di tutti i fiori che mi piacciono di più. C’era perfino un fiorellino chiamato la nigella dei grani che non avevo trovato da quando stavamo a Lisieux, desideravo tanto rivederlo, questo fiore della mia infanzia che avevo colto nelle campagne di Alencon; proprio al Carmelo venne a sorridermi e mostrarmi che sia nelle cose piccole come nelle grandi il buon Dio dà il centuplo fin da questa vita alle anime che per amor suo hanno lasciato tutto.

232 – Ma il più intimo dei miei desideri, il più grande di tutti, che credevo non veder mai attuato, era che la mia Celina entrasse nel nostro stesso Carmelo. Questo sogno mi pareva inverosimile: vivere sotto il medesimo tetto, condividere gioie e dolori della mia compagna d’infanzia; così avevo fatto completamente il mio sacrificio, avevo affidato a Gesù l’avvenire della mia sorella cara, ed ero risoluta a vederla partire verso l’estremità del mondo, se necessario. La sola cosa che non potevo accettare, era che lei non fosse la sposa di Gesù, perché l’amavo quanto me stessa, e mi pareva impossibile vederla dare il cuore a un uomo di questa terra. Avevo già sofferto molto sapendola nel mondo, esposta a pericoli che io non avevo conosciuti. Posso dire che a datare dal mio ingresso nel Carmelo, il mio affetto per Celina era un amore di madre quanto di sorella. Una volta in cui doveva andare a una festa, ciò mi dispiaceva tanto che supplicai il Signore d’impedirle di ballare, e (contro la mia abitudine) ci feci anche un bel pianto. Gesù si degnò di esaudirmi. Non permise che la sua piccola fidanzata potesse ballare quella sera (nonostante che non fosse impacciata per farlo graziosamente quando ciò era necessario). Essendo stata invitata senza che le fosse possibile rifiutare, il suo cavaliere si trovò nell’incapacità totale di farle fare un passo, con grande sua confusione fu condannato a camminare semplicemente per ricondurla al posto, poi sparì, e non ricomparve più per tutta la serata. Quell’avventura, unica nel suo genere, mi fece crescere nella fiducia e nell’amore di Colui che, ponendo il suo segno sulla mia fronte, l’aveva al tempo stesso inciso su quella della mia Celina cara.

233 – Il 29 luglio dell’anno scorso, il buon Dio, rompendo i vincoli del suo incomparabile servo, lo chiamò alla ricompensa eterna e spezzò al tempo stesso il legame che tratteneva nel mondo la sua fidanzata cara; ella aveva compiuto la sua prima missione. Incaricata di rappresentarci tutte presso nostro Padre così teneramente amato, aveva assolto come un angelo questo compito; e gli angeli non restano sulla terra, quando hanno attuato la volontà di Dio tornano subito a lui, è per questo che hanno le ali. Anche il nostro angelo scosse le sue ali bianche, era pronto a volare lontano lontano per trovare Gesù, ma Gesù lo fece volare vicino. Si contentò che venisse accettato il grande sacrificio, ben doloroso per Teresa. Durante due anni la sua Celina aveva nascosto un segreto. Ah, quanto aveva sofferto anche lei! Finalmente dall’alto del Cielo il mio Re diletto, al quale sulla terra non piacevano le lungaggini, si affrettò ad accomodare le faccende così complicate della sua Celina e il 14 settembre ella poté riunirsi a noi.

234 – Un giorno in cui le difficoltà parevano insuperabili, dissi a Gesù durante il ringraziamento: «Voi sapete, Dio mio, quanto desidero conoscere se Papà è andato direttamente in Cielo, io non vi chiedo di parlarmi, ma datemi un segno. Se suor A.d.G. consente che Celina entri nel Carmelo, o almeno non pone ostacoli, sarà la risposta che Papà è venuto difilato da voi». Quella consorella, lei lo sa, Madre mia cara, trovava che eravamo già troppe noi tre, e per conseguenza non voleva ammetterne un’altra, ma Dio, che tiene in mano sua il cuore delle creature e l’orienta come vuole lui, cambiò le disposizioni di questa religiosa; fu proprio la prima persona che incontrai dopo il ringraziamento: mi chiamò con tono amabile, mi disse di salire da lei, e mi parlò di Celina con le lacrime agli occhi. Ah, quante ragioni ho di ringraziare Gesù che seppe colmare tutti i miei desideri.

235 – Ora non ho più alcun desiderio se non quello di amare Gesù alla follia… I miei desideri infantili sono scomparsi, certo mi piace ancora ornare di fiori l’altare di Gesù Bambino, ma dopo che mi ha dato il fiore che desideravo, la mia Celina cara, non ne desidero altri, gli offro lei come il mio più incantevole mazzo. Non desidero più la sofferenza né la morte, eppure le amo tutte due, ma è l’amore solo che mi attira. A lungo le ho desiderate; ho posseduto la sofferenza e ho creduto raggiungere la riva del Cielo, ho creduto che il fiorellino sarebbe stato colto nella sua primavera. Ora l’abbandono solo mi guida, non ho altra bussola! Non posso chiedere più niente con ardore, fuorché il compimento perfetto della volontà del Signore sull’anima mia senza che le creature riescano a porvi ostacolo. Posso dire queste parole del cantico spirituale del Nostro Padre san Giovanni della Croce: «Nel celliere interno del mio Amato, ho bevuto, e quando sono uscita, in tutta questa pianura non conoscevo più nulla e ho perduto il gregge che prima seguivo. L’anima mia si è impegnata con tutte le sue risorse al suo servizio, non ho più gregge, non ho più altro ufficio, perché ora tutto il mio esercizio è di amare! » Oppure ancora: «Da quando ne ho l’esperienza, l’Amore è così potente in opere che sa trarre profitto di tutto, del bene e del male che trova in me, e trasforma l’anima mia in sé». Oh Madre cara! Com’è dolce la via dell’amore! Senza dubbio, si può ben cadere, si può commettere delle infedeltà, ma l’amore, sapendo trarre profitto da tutto, consuma rapidamente tutto quello che può dispiacere a Gesù, lasciando soltanto un’umile profonda pace in fondo al cuore…

236 – Quante luci ho trovato nelle opere del Nostro Padre san Giovanni della Croce! All’età di diciassette e diciotto anni non avevo altro nutrimento spirituale, ma più tardi tutti i libri mi lasciarono nell’aridità, e sono ancora in questa condizione. Se apro un libro scritto da un autore spirituale (anche il più bello, il più commovente), sento subito il mio cuore serrarsi, e leggo quasi senza capire, o, se capisco, lo spirito mio si ferma senza poter meditare. In questa impotenza, la Sacra Scrittura e l’Imitazione mi vengono in soccorso; in esse trovo nutrimento solido e puro. Ma soprattutto il Vangelo mi occupa durante la preghiera, in esso trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi. Capisco e so per esperienza «che il Regno di Dio è dentro di noi». Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime; lui, il Dottore dei dottori, insegna senza rumor di parole… Mai l’ho inteso parlare, ma sento che è in me, ad ogni istante, e mi guida e m’ispira ciò che debbo dire o fare. Scopro proprio nel momento in cui ne ho bisogno, delle luci che non avevo ancora viste, e più spesso non è durante l’orazione che sono maggiormente abbondanti, è piuttosto in mezzo alle occupazioni della giornata.

237 – Madre cara, dopo tante grazie, non posso cantare col salmista: «Che il Signore è buono, che la sua misericordia è eterna»? Mi pare che, se tutte le creature avessero le stesse grazie che ho io, nessuno avrebbe paura del Signore, ma tutti lo amerebbero alla follia, e che tutte le anime eviterebbero di offenderlo, per amore, e non tremando. Capisco tuttavia che non tutte le anime possono somigliarsi, bisogna che ce ne siano di gruppi diversi per onorare in modo particolare ciascuna perfezione del Signore. A me ha dato la sua misericordia infinita, attraverso essa contemplo e adoro le altre perfezioni divine. Allora tutte mi appaiono raggianti di amore, la giustizia stessa (e forse ancor più che qualsiasi altra) mi sembra rivestita d’amore. Quale gioia pensare che il buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze, che conosce perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque avrei paura? Ah, il Dio infinitamente giusto che si degnò perdonare con tanta bontà le colpe del figliol prodigo, non deve essere giusto anche verso me che «sto sempre con lui» ?

238 – Quest’anno, il 9 giugno, festa della Santissima Trinità, ho ricevuto la grazia di capire più che mai quanto Gesù desideri d’essere amato. Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla giustizia di Dio al fine di stornare e attirare sopra se stesse i castighi riservati ai colpevoli, questa offerta mi pareva grande e generosa, ma ero lungi dal sentirmi portata a farla. «O Dio mio! – dissi dal profondo del cuore – soltanto la vostra giustizia riceverà anime le quali s’immolino come vittime? Il vostro Amore misericordioso non ne ha bisogno anche lui?… Da ogni parte è misconosciuto, respinto; i cuori ai quali voi desiderate prodigarlo si volgono verso le creature chiedendo ad esse la felicità col loro miserabile affetto, invece di gettarsi tra le vostre braccia e di accettare il vostro amore infinito. Oh Dio mio! il vostro amore disprezzato resterà dentro il vostro cuore? Mi pare che se voi trovaste anime che si offrissero come vittime di olocausto al vostro amore, voi le consumereste rapidamente, mi pare che sareste felice di non comprimere le onde d’infinita tenerezza che sono in voi. Se alla vostra giustizia piace di scaricarsi, lei che si estende soltanto sulla terra, quanto più il vostro amore misericordioso desidera incendiare le anime, poiché la vostra misericordia s’innalza fino ai cieli. O Gesù mio! che sia io questa vittima felice, consumate il vostro olocausto col fuoco del vostro amore divino!…». Madre cara, lei che mi ha permesso di offrirmi così al buon Dio, lei sa quali fiumi, o piuttosto quali oceani di grazie, inondarono l’anima mia… Ah, da quel giorno felice mi pare che l’amore mi compenetri e mi avvolga, mi pare che, ad ogni istante, questo amore misericordioso mi rinnovi, purifichi l’anima mia e non lasci alcuna traccia di peccato, perciò non posso temere il purgatorio… So che per me stessa non meriterei nemmeno di entrare in quel luogo di espiazione, poiché soltanto le anime sante possono trovare adito ad esso, ma so altresì che il fuoco dell’amore è più santificante di quello del Purgatorio, so che Gesù non può desiderare per noi sofferenze inutili, e che egli non m’ispirerebbe i desideri che sento, se non volesse colmarli… Oh com’è dolce la via dell’amore! Come mi voglio dedicare a far sempre, col più grande abbandono, la volontà del Signore!

239 – Ecco, Madre cara, tutto quello che posso dirle riguardo alla vita della sua piccola Teresa; lei stessa sa ben meglio di me quella che io sono e ciò che Gesù ha fatto per me, perciò lei mi vorrà perdonare se ho abbreviato molto la storia della mia vita religiosa… Come si compirà questa «storia di un fiorellino bianco»? Forse l’umile fiore verrà colto nella sua freschezza, oppure trapiantato su altre rive?… L’ignoro, ma di una cosa sono sicura, ed è che la misericordia di Dio lo accompagnerà sempre, e che mai esso cesserà di benedire la Madre cara che lo ha dato a Gesù; eternamente si rallegrerà di essere uno dei fiori della sua corona. Eternamente canterà con questa Madre diletta il cantico sempre nuovo dell’Amore.