Andare all’Inferno o in Paradiso dipende da noi? Le nostre decisioni e scelte terrene incidono sull’aldilà? (Questione 7.11)

Un aiuto per capire la fede: l’Aldilà

Questione 7.11


Le nostre decisioni e scelte terrene incidono positivamente o negativamente sull’aldilà? Cioè, andare all’Inferno o in Paradiso dipende da noi?

Il grande disegno divino, che riguarda addirittura il cosmo, è quello di “ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef 1,10). L’uomo è stato poi creato da Dio “a sua immagine e somiglianza” per poter partecipare alla vita di Dio.

Tutti i singoli uomini nascono quindi per unirsi a Cristo e sono chiamati a partecipare per sempre alla vita di Dio, che ci è donata in Cristo (vero Dio e vero uomo) e per opera dello Spirito Santo. In altri termini, ogni uomo è al mondo per diventare santo e può avere da Dio le grazie necessarie e sufficienti perché questo disegno d’amore si compia. Per questo, l’alternativa è l’inferno, perché appunto anche nel rifiuto di Dio il nostro essere rimane fatto per Lui.

È terrificante pensare, come nella Riforma protestante, che l’esito eterno (di beatitudine o dannazione) non dipenda da noi ma sia una sorta di “predestinazione”. Sarebbe davvero meglio non nascere che nascere per l’inferno.

Pur essendo salvi per “grazia”, cioè per i meriti di Cristo, crocifisso e risorto per noi, spetta però a noi accogliere questo immenso e gratuito dono e viverne le conseguenze nella vita quotidiana. Rimane quindi affidata a noi la responsabilità dei nostri atti e della nostra adesione o rifiuto di Cristo: Egli “sta alla porta e bussa”, dipende da noi aprirgli o no (cfr. Ap 3,20).

L’uso della nostra libertà, se nell’obbedienza a Cristo o nel rifiuto di Lui, ha conseguenze eterne: in fondo scegliamo noi di andare in Paradiso o all’Inferno.

Questa è una terribile responsabilità; ma ci dona anche la forza e la gioia di “combattere la buona battaglia” (cfr 2Tm 1,3-6.11-12; 4,6), ci sospinge a fare ogni sforzo, ci dona una giusta gerarchia di valori. Dio e andare con Lui per sempre (Paradiso) è l’unico vero assoluto, mentre tutto il resto è relativo. Dice Gesù: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?” (Mt, 16,20). Questo è il vero tesoro (cfr. Mt 6,19-34; 13,44; Lc 12,33). Questo deve essere l’amore più grande (cfr. Mt 22,37; Lc 14,26).

Questo ci libera dalla sempre incombente tentazione, visto il nostro bisogno di assoluto, di crearci dei falsi assoluti (idoli), che prima o poi ci deluderebbero o perfino ci distruggerebbero. Vivere nella prospettiva dell’eternità ci richiama all’essenziale, ci rende davvero liberi, non schiavi dell’idolo del momento, del giudizio degli altri.

Del resto comprendiamo che, corta o lunga che sia la vita, essa è comunque infinitamente corta rispetto all’eternità, come è infinitamente piccolo un segmento (corto o lungo che sia) rispetto ad una semiretta.

Per questo Gesù, pur avendo amorevole attenzione anche ai bisogni materiali della vita presente (e ci insegna a fare altrettanto per il prossimo), però proietta tutto sull’essenziale, cioè sull’aldilà. Perdere l’anima, perdere Dio, perdere il Paradiso è la vera “disgrazia” (com’è significativo che in italiano indichiamo con questa parola anche un incidente, un dolore; ma la parola indica appunto la vera “dis-grazia”, cioè la perdita della grazia di Dio), a confronto della quale ogni disgrazia terrena, anche la più terribile, è poca cosa, come dice Gesù (cfr. Lc 13,1-5). I santi dicevano perfino: “è tale il bene che mi aspetto che ogni pena m’è diletto”.

Del resto, non sarebbe davvero ingiusta la vita, specie con alcuni, se avessimo solo questa vita? Perché uno muore bambino e uno invece anziano? Perché uno è intelligente e un altro stupido? Perché uno è bello e uno è brutto? Perché uno nasce in un Paese ricco e uno in un Paese povero, uno in una  buona o in una pessima famiglia? Non sarebbe insopportabile, se avessimo solo questa vita? se ogni sofferenza, specie se offerta unitamente alle sofferenze di Cristo in croce, non ci ottenesse un premio eterno (ottenendo perfino grazie per altri)?

Questa prospettiva non toglie affatto l’impegno nel presente (come era l’accusa di Marx, che sulla scia di Feuerbach considerava per questo la religione come alienante, come “oppio dei popoli”), ma anzi proprio il contrario, cioè proprio il sapere che ogni mia più piccola scelta terrena ha conseguenze eterne, che ogni sacrificio e impegno, anche se non visto dagli uomini o immediatamente non gratificato dai risultati, è visto da Dio ed avrà un premio eterno, così come ogni colpa avrà, se permane nell’anima, conseguenze negative eterne, tutto questo permette di avere la carica giusta per affrontare qualsiasi situazione, perché tutto abbia valore e senso, perché non giunga più il momento in cui ci viene da dire “chi me lo fa fare”. Possiamo sempre dire: “me lo fa fare Dio … e me ne donerà anche il premio”.

Invece, come si capisce facilmente, proprio la perdita della consapevolezza del premio o del castigo eterno toglie energia e forza al cammino dell’esistenza umana, mai privo di difficoltà (croci); ed ha perfino enormi conseguenze sociali, in quanto se si fanno le cose solo per gli altri o per una gratificazione personale, è assai più facile abbandonarsi al comodo, all’egoismo, alla disonestà, alla delusione, all’“intanto così fan tutti”.

Questo non ci deve far cadere in una paura angosciante, ma non ci lascia neppure “addormentati” (quante volte Gesù ci dice “vegliate!”: cfr. Mt 24,42; 25,13; 26,38.41; Mc 13,33.37; 14,34.36; Lc 21,36) in una pericolosissima superficialità. Si può dire che è essenziale avere anche un giusto “timor di Dio”.  

Quali danni morali provoca in un bambino o giovane che cresce la perdita del “timor di Dio”, cioè di questa consapevolezza, come se alla fine il bene e il male avessero lo stesso esito. Quali conseguenze anche sociali ha questo non “dover più rendere conto a Dio”: pian piano non vogliamo rendere conto più a nessuno, neppure alla nostra coscienza; allora occorrono continui controlli (statali, dei superiori), e poi occorrerà controllare chi deve controllare … ed alla fine chi controlla i supremi controllori? L’uguale esito del bene e del male, dovuta alla perdita della consapevolezza del giudizio finale di Dio, conduce da un lato ad un relativismo morale (il bene e il male sono soggettivi, lo Stato dovrebbe garantire solo la libertà) e dall’altro a creare una società dove “tutti accusano tutti” e dove lo Stato rischia di diventare poliziesco (un supercontrollore di tutti, ultimamente in mano ad un potere che non accetta di essere controllato perché si sente portavoce dell’autentico bene di tutti). È già avvenuto dalla rivoluzione francese in poi (dove la libertà si è trasformata in terrore), nelle ideologie totalitarie del XX secolo (comunismo e nazismo); ed oggi può accadere – in modo più subdolo ma non meno violento – con le false democrazie (fondate sul relativismo etico) che rischiano di diventare “dittature del relativismo”; ed ora, con l’aiuto dell’elettronica, i controlli possono diventare immensamente più spietati che nelle dittature passate. Diceva S. Giovanni Bosco: “Se togliete il prete dalla società (cioè la formazione cristiana), dovrete mettere carabinieri (cioè forze dell’ordine) ovunque”.

Come potremmo accettare, al di là del giudizio sulla singola anima, che spetta solo a Dio che solo può davvero conoscere, che Hitler o Madre Teresa di Calcutta abbiano lo stesso esito eterno? 

Vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo – potrebbe esserlo, visto che tutti quelli che sono morti improvvisamente non l’avrebbero mai detto la mattina stessa quando si sono svegliati – non è un incubo. Per chi ha scoperto Cristo e il senso vero ed eterno della vita, è scoprire e vivere ogni cosa secondo il suo autentico significato, come un dono da trafficare e di cui rendere conto a Dio (cfr. Mt 25). Sapere che ogni giorno devo e posso abbandonare sempre più il peccato, che ogni sforzo sarà premiato, che posso crescere sempre più nella grazia e nell’amore per Dio e per il prossimo, dona senso al cammino, rende uno spirito giovane, cioè con la voglia e la possibilità di crescere, anche in un anziano; senza questa prospettiva potrebbe invece essere vecchia anche l’anima di un giovane (quando dice “son fatto così”, non combatto neanche più, mi lascio andare).

Ogni giorno posso aumentare la mia felicità eterna, salire sempre più verso Dio, oppure posso tragicamente allontanarmi sempre di più, cadere sempre più nel peccato, divenire schiavo del male e del demonio, aumentare la mia disperazione eterna.

Questa è una grande spinta contro l’accidia: il tempo scorre, non ritorna, le grazie sciupate non tornano (anche se Dio potrà darcene altre).

Questo è il vero “carpe diem”, non quello che coglie l’attimo fuggente senza alcun senso, senza sapere dove sta correndo, fuggendo, il tempo!

Per questo Gesù non ci ha detto “né il giorno né l’ora” in cui terminerà la nostra vita (o il mondo stesso) e dovremmo comparire tutti davanti al giudizio di Dio, sia che ci crediamo sia che non ci crediamo.

Dobbiamo quindi uscire dai seguenti errori:
– quello (eresia pelagiana) di pensare che ci “guadagniamo” il paradiso con le nostre forze, mentre fondamentalmente è Gesù che ci ha guadagnato il paradiso con la Sua croce;
– quello opposto (eresia protestante) di considerare che noi non dobbiamo far niente perché c’è solo la grazia di Dio e noi non possiamo far altro che peccare (con la conseguente idea dei predestinati alla salvezza o alla dannazione);
– quello (oggi di moda anche in ambienti cristiani) di considerare l’inferno come inesistente (o vuoto, che è la stessa cosa, visto che l’inferno non è un luogo ma uno stato delle anime), perché la misericordia divina salverebbe tutti, anche quelli che non vogliono essere salvati, che rifiutano volontariamente la fede, i comandamenti e gli strumenti (sacramenti) per essere salvati, come se in fondo Dio abolisse la nostra libertà e facesse tutto Lui.

Sono proprio questi errori che da un lato gettano nella disperazione (Dio non può salvarmi perché sono troppo peccatore) o lasciano nella presunzione (posso salvarmi con il solo sforzo della volontà, impegnandomi, senza bisogno della preghiera, dei sacramenti, della grazia di Dio, dell’aiuto della Madonna), e dall’altro ci tolgono la voglia e la forza di fare il buon combattimento contro il peccato (tanto mi salvo sicuramente perché Dio è buono), la ricerca della grazia di Dio, banalizzando in fondo sia la nostra dignità e libertà umane che lo stesso amore di Dio, come pure la bellezza della Sua “chiamata” alla santità.