Perché dovrei?
La più urgente e decisiva delle questioni
Una vita che non si ferma mai a pensare, una vita tutta assorbita dalle cose “da fare” e spesso spasmodicamente attirata dalle cose “da avere”, rischia di diventare molto presto una vita disumana.
Il materialismo vorrebbe convincerci che questa è la concretezza della vita, ciò di cui abbiamo bisogno. La logica commerciale dominante sollecita in noi perfino una serie di bisogni artificiali, per poterci vendere sempre qualcosa di nuovo, che ci deve sembrare indispensabile. Certo, abbiamo bisogno di tante cose, senza le quali sarebbe difficile vivere. Però poi ci accorgiamo che le cose più importanti della vita non si possono comprare: come l’amore, l’amicizia, la pace interiore, il senso stesso di quello che facciamo. Intanto avessimo anche tutto, dopo un po’ non ci basta.
Da quando esiste, noi vediamo che l’uomo ha sì bisogno, come gli altri animali, di mangiare, bere, dormire, sente la voglia di accoppiarsi… ma, a differenza di tutti gli altri animali, l’essere umano ha dentro di sé un bisogno più grande, abbiamo fame di qualcosa che ci attira e nello stesso tempo ci supera sempre, è sempre ancora oltre.
Vediamo infatti che già l’uomo primitivo ha sì bisogno di cose immediatamente utili per vivere, come costruire un utensile per cacciare o difendersi dalle belve, ma disegna anche un graffito sulla parete della caverna o prova a fare della musica! Questo non risponde ad un bisogno materiale, cioè alla domanda “a che cosa mi serve”, ma ad una bisogno più profondo: abbiamo ad esempio fame di bellezza!
Già infatti l’arte non è riconducibile al materialismo: la musica non è solo un insieme di onde sonore; quello che può suscitare interiormente la visione di un bel quadro o di uno stupendo panorama non è riducibile ad un insieme di colori.
L’essere umano non si accontenta di provare piacere nell’accoppiarsi, ma si sente solo e sente di essere fatto per l’altro: abbiamo fame d’amore!
Quando poi la morte prende una persona cara, l’uomo prova angoscia, e non solo perché lei o lui non c’è più, ma perché sente che la morte non dovrebbe esserci: abbiamo fame di vita, di una vita senza fine, di una vita eterna!
Anche i più antichi reperti della paleoantropologia, come anche tutte le civiltà antiche, ci mostrano l’esistenza di un “culto dei morti”, cioè l’intuizione profonda e universale che non siamo fatti solo per questa vita. Anche uno dei padri della psicanalisi, G. Jung, osserva come la questione della morte sia quella che sta più al fondo di noi stessi. Per questo il filosofo contemporaneo M. Heidegger arriva a definire addirittura l’uomo un Sein-zur-tode (essere-per-la-morte).
Ogni nostra scelta è in fondo mossa dal desiderio di felicità. Quando un uomo non ha più questa speranza di felicità diciamo infatti che è “di-sperato”. E’ una fame talmente forte che il disperato può arrivare anche al suicidio: meglio non vivere che vivere senza una speranza, senza un fine di felicità, meglio non vivere che vivere senza senso.
E’ drammaticamente significativo infatti che il numero di suicidi giovanili cresca in modo esponenziale proprio in quelle regioni e nazioni con il maggior benessere, cioè proprio là dove non ci sono grandi problemi materiali.
Ma la gioia vera non si può comprare e non può essere costruita artificialmente: per fare allegria può bastare anche un po’ d’alcool o altro nel sangue, un po’ d’euforia che spesso si paga con la successiva depressione (non si tratta dunque di vera libertà, ma di una schiavitù). Non ci vuole poi molto per fare allegria; ma per avere la gioia c’è bisogno di ben altro. Spesso confondiamo la felicità con delle tappe intermedie: “sarò felice quando avrò quella cosa lì”, “quando farò quella cosa là”. Poi ci accorgiamo che non è così, che anche quando abbiamo raggiunto quella tappa, in realtà poi non basta, siamo fatti per qualcosa di più, che sembra sempre sfuggirci. Qualcuno allora diventa cinico: arriva cioè a convincersi che la felicità non esiste, che al massimo esistono solo felicità passeggere; che l’amore non esiste, al massimo ci sono sentimenti passeggeri. Anche se cerchiamo di accontentarci, sentiamo in realtà che siamo fatti per un oltre. Se siamo sinceri con noi stessi, riconosciamo infatti che abbiamo fame di una felicità infinita.
Non abbiamo dunque solo bisogno di cose da fare, ma abbiamo ancora più bisogno di un senso con cui farle, abbiamo cioè bisogno di un significato e di un significato vero. Non abbiamo solo bisogno di vita, ma del senso vero con cui vivere.
Vivere senza un senso vero, in realtà non è vivere ma è un sopravvivere. Abbiamo fame di significato, di un senso vero, abbiamo cioè fame di verità di vita!
Quindi, se abbiamo il coraggio di guardarci dentro, dobbiamo prima o poi riconoscere che il nostro bisogno di bellezza, di vita, di amore, di felicità, di verità, è in realtà bisogno di Bellezza, Vita, Felicità, Verità infinite, di un Amore infinito, in altre parole potremmo dire che abbiamo bisogno dell’Essere infinito.
Già all’inizio della sua missione Gesù risponde a Satana: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Gesù vince il diavolo e ci mette in guardia da questa perenne tentazione di ridurre il bisogno dell’uomo alle questioni materiali. L’uomo ha soprattutto fame di Verità ed ha fondamentalmente fame di Dio.
L’uomo è un essere davvero speciale: è un essere finito, ma con dentro una fame di infinito, per cui nelle sue aspirazioni non si accontenta mai e trascende sempre se stesso e l’universo intero; è parte del mondo ma con il suo pensiero è più del mondo, è un animale evoluto ma ha dentro qualcosa di spirituale, di divino, che lo rende “signore” del pianeta. Quando appare l’uomo, per la prima volta vediamo infatti sulla terra un essere che non è solo un animale biologicamente e cerebralmente evoluto, ma un essere che porta in sé una traccia divina, una caratteristica spirituale che lo rende simile a Dio: è ciò che si manifesta con la sua superiore (spirituale) capacità di pensare e di essere libero.
Nel primo capitolo del primo libro della Bibbia (Genesi), si dice in modo straordinario (e tanto più inaudito in quanto c’è nell’Antico Testamento la proibizione assoluta di farsi immagini di Dio, in quanto Egli è trascendente e puro Spirito) che l’essere umano è creato da Dio “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,26-27), proprio perché oltre all’elemento materiale c’è in lui e solo in lui quello spirituale (cfr. Gen 2,7); per questo non solo è superiore agli animali e in grado di “dominare” il mondo (cfr. Gen 1,26), ma è creato per Dio, “capace” di Dio.
La nostra questione principale, il dramma dell’essere umano ma anche la sua superiore grandezza e dignità, per cui possiamo o soffrire o gioire più di tutti gli altri esseri viventi, è data appunto dal fatto che siamo “finiti”, ma con dentro un’ineliminabile fame di Infinito! L’uomo sembra proprio essere non solo simile a Dio, ma fatto per Dio.
“Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei Tu, Signore, che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te” (S. Agostino, Le Confessioni, 1,1,1).
Anche se ci sforzassimo di non pensare, penseremmo ugualmente. E il nostro pensiero è talmente fatto per la verità, che anche se dicessimo che “non c’è la verità” già ammetteremmo che possiamo conoscere una verità.
Anche se decidessimo di non scegliere sarebbe già una scelta. Siamo “costretti” ad essere liberi, cioè a prendere delle decisioni. E quando scegliamo una cosa in fondo è perché pensiamo che possa darci felicità, che sia cioè un bene. Anche se decidessimo di vivere alla giornata, di fare quel che ci salta in mente o di fare semplicemente quello che fanno gli altri, sarebbe già una scelta, e tale scelta sarebbe anche inavvertitamente mossa dall’idea che questo sia il nostro bene, la nostra felicità. Ma è prima o poi evidente che non tutte le scelte ci edificano, ci danno davvero quella felicità che pensavamo potessero darci. Per cui il problema principale diventa capire quale sia il nostro vero bene, la nostra vera felicità, il senso vero della nostra esistenza.
Anche se lo negassimo, questo è una questione ineliminabile e decisiva della nostra esistenza. Non possiamo scrollarci di dosso questa domanda. Tutta la vita potrebbe realizzarsi o fallire su questa questione, se cioè comprendiamo e vogliamo il nostro autentico bene (il senso autentico dell’esistenza, la verità di noi stessi) oppure non lo comprendiamo, oppure perfino che lo possiamo comprendere ma ancora non lo vogliamo.
Anche l’esito eterno della nostra vita (paradiso o inferno), quello che saremmo per tutta l’eternità (eternamente e infinitamente felici o eternamente disperati, incompiuti, insoddisfatti?), si gioca su questa questione, perché la nostra eternità non sarà che il compimento di ciò che siamo nel nostro divenire nel tempo.
Perché dovrei interessarmi della fede cristiana?
Da duemila anni c’è nel mondo e nella storia una grande provocazione: possiamo davvero partecipare alla vita di Dio, possiamo andare davvero verso la felicità infinita ed eterna. E questo perché l’eterno si è calato nel tempo, l’infinito si è fatto finito, Dio si è fatto uomo, ha preso su di Sé la nostra natura umana, la nostra esistenza, ha perfino pagato per i nostri peccati, per liberarci dal nostro male. E’ “Vangelo”, cioè la straordinaria notizia.
Si tratta proprio di una notizia, perché – a differenza non solo di tutte le filosofie ma anche di tutte le religioni – non si tratta di una teoria, di una saggezza o di una dottrina, e neppure di un modo di comportarsi (etica), ma appunto della notizia di un fatto, di un fatto accaduto.
E’ così significativo, è così storicamente avvenuto, che non solo i cristiani ma praticamente ormai tutti gli uomini contano gli anni proprio da quel fatto (ormai più di 2000); e gli anni precedenti all’indietro, quasi come in attesa di quel fatto.
E poiché si tratta di un fatto e non di una teoria, la questione non è anzitutto se mi piace o no, se sono d’accordo o no, ma solo se è realmente accaduto oppure no.
Il fatto è che appunto Gesù di Nazareth si presenta come Dio stesso fatto uomo.
Ora, la prova più forte che non sia un esaltato o un folle ma che è vero che è Dio, è che, al di là della straordinaria testimonianza di una personalità perfetta, di una parola impareggiabile e del potere di compiere ogni tipo di miracoli, dopo la sua morte in croce è risorto, cioè ha vinto la morte ed è vivo, con il suo stesso corpo trasformato.
Oltre al giusto desiderio di voler conoscere se è vero questo avvenimento, che se è tale è il più grande e decisivo avvenimento della storia dell’universo intero e la scoperta più straordinaria e decisiva che l’uomo possa fare – ora conosciamo Dio, il senso della vita, ora la morte è vinta e si sono riaperte le porte del paradiso – perché sono anche moralmente obbligato a coinvolgermi con questo avvenimento, con questa persona che è Gesù, vero Dio e vero uomo? Perché Dio, se è vero come è vero che è venuto ed è morto in croce e risorto, non ha fatto questo per fare un prodigio e neppure semplicemente perché non sapessimo qualche cosa di più di Dio, ma per la nostra salvezza.
Questo significa che la scoperta di Cristo, il coinvolgersi con Lui, il seguirLo – cosa possibile ancora oggi, perché Lui è risorto e vivo! – il farsi amare da Lui e amarLo, il lasciarsi guidare dalla Sua parola, è condizione non solo per vivere una vita umana pienamente autentica, ma per salvarci dalla dannazione eterna (inferno) ed entrare nella piena comunione con Dio, nostra infinita ed eterna felicità.
Non si tratta cioè di una questione accessoria o facoltativa, ma è l’unica Via di salvezza (la Via della Vita!) per tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi (se hanno ovviamente la possibilità di conoscerla).
Proviamo a pensare che tipo di “alternativa” c’è in gioco:
Se è realmente accaduto, allora esistiamo perché siamo voluti e amati da Dio; siamo fatti per la felicità (verità, bellezza, amore, vita) infinita, perché siamo fatti per Lui e possiamo raggiungerlo perché Egli è venuto per questo; conosciamo ormai la verità, il significato della vita e di ciò che la compone; il male non avrà l’ultima parola, il peccato è vinto perché siamo redenti e perché ci è dato lo Spirito; la morte è vinta; l’inferno è vinto; ma non sarà neppure tutto uguale (bene e male) perché ognuno sarà giudicato da Cristo (il giudizio).
Se invece Cristo fosse un falso, non fosse risorto, non fosse Dio, allora tutto (e noi stessi!) sarebbe casuale (Nietzsche dice infatti che siamo come “granelli di sabbia nell’eterna clessidra del tempo”); tutto inesorabilmente finirebbe, anche le cose più belle; il bene e il male avrebbero lo stesso esito, si vanificherebbero (saremmo “al di là del bene e del male”, come ancora dice Nietzsche); il nostro desiderio di felicità sarebbe vano, noi stessi saremmo una “passione inutile” (come dice Sartre); diventeremmo prima o poi schiavi (di qualcuno, di qualcosa, perfino di noi stessi … proprio mentre ci crediamo liberi), soprattutto della morte, con la paura perfino di pensare, di chiederci il senso delle cose e di noi stessi; soprattutto, saremmo destinati all’infelicità (dannazione) eterna.
Comprendiamo quindi come, con tale posta in gioco, ogni indifferenza o superficialità su questa questione, l’andare avanti “per sentito dire”, perché “i miei amici fanno tutti così”, perché “mi va, se e fin quando mi va” o “non mi va”, diventerebbe imperdonabile, la più grande delle sciocchezze che potremmo compiere, la perdita della più grande occasione della nostra vita.
Per capire … la fede
Molti erroneamente pensano che la fede non possa avere spiegazioni razionali, che sia una sorta di sensazione, se non addirittura di “credenza”, senza alcuna prova; e conseguentemente senza alcuna possibilità di offrire anche a chi non ce l’ha delle “ragioni” per poterla avere. Invece non è così (cfr. 1Pt 3,15).
La fede, si obietta poi, è un dono di Dio. Per cui averla o non averla addirittura non dipenderebbe da noi ma da Dio. Anche questo è errato. Anzitutto perché Dio non discrimina (non siamo “predestinati” – come dice Calvino – alla salvezza o alla dannazione, come se non dipendesse da noi) e questo dono è offerto a tutti, essendo tra l’altro condizione della nostra salvezza eterna.
Possiamo perfino conoscere che Dio c’è già partendo dalla realtà che vediamo (l’universo) e risalendo con la sola ragione fino alla sua causa prima (si dice che è già una Rivelazione naturale di Dio). Ma c’è poi una Rivelazione soprannaturale di Dio nella storia, ancora più importante, bella e decisiva per noi e per la nostra salvezza eterna. Si tratta della Rivelazione di Dio nella “storia della salvezza” (Bibbia), che si compone di due tempi: nel primo (Antico Testamento) c’è la progressiva rivelazione di Dio al popolo ebraico, in preparazione al secondo (Nuovo Testamento), che è la piena e definitiva Rivelazione di Dio, necessaria per la salvezza di tutti gli uomini di tutti i tempi, accaduta con l’Incarnazione stessa di Dio, cioè quando Dio si è fatto uomo, in Gesù Cristo.
Anche per credere a questa superiore e decisiva Rivelazione soprannaturale di Dio abbiamo dei motivi, delle ragioni, cioè dei dati – in questo caso anche “storici” – per dare il nostro assenso, cioè per riconoscere che non solo è possibile ma è vera.
Ancor di più della prima, la piena Rivelazione di Dio in Cristo è certamente una “grazia”, cioè un dono gratuito di Dio, così come è una grazia giungere a crederGli (cfr. Mt16,17), tanto più che si tratta non solo di dover dare un assenso con la nostra intelligenza, ma anche con la nostra volontà, con tutto di noi stessi. Però anche in questo caso ci sono dei “motivi per credere”. Abbiamo infatti una documentazione storica, una ricerca letteraria, perfino sempre più numerose scoperte archeologiche, per capire che ci troviamo di fronte ad un fatto e non ad una favola o un mito.
Perfino della risurrezione – che, come vedremo, è il fatto fondamentale e decisivo per capire che Gesù è Dio e che il cristianesimo è vero – ha le sue prove.
Rimane certo “mistero”: questa parola non significa però che non possiamo capire nulla ma che è una realtà, una verità così profonda che non finiamo mai di capire, che non si esaurisce mai, che più capisci e più gioisci ma anche più c’è da capire, appunto come un orizzonte infinito.
E’ però qui più che mai vero che occorre non solo capire per coinvolgersi ed amare, ma occorre anche coinvolgersi ed amare per capire.
In questa sezione (Un aiuto per … capire la fede) vediamo allora sinteticamente quali sono i motivi per poter dire che:
1) Possiamo conoscere verità ed anche realtà invisibili (Questione 1)
2) Possiamo conoscere che Dio c’è, anche solo con la ragione (Questione 2)
3) Le religioni nascono dal desiderio di Dio, ma non sono tutte uguali (Questione 3);
Dio si è particolarmente rivelato agli Ebrei (Antico Testamento della Bibbia);
4) Gesù è l’unico Dio, Dio fatto uomo, l’unico salvatore dell’uomo (Questione 4)
5) Gesù è vivo e opera nella storia soprattutto attraverso la Chiesa Cattolica, da Lui voluta (Questione 5)
6) La vita cristiana è la pienezza e verità della vita dell’uomo, condizione per giungere in paradiso (Questione 6)
7) Dopo questa vita ci sono il paradiso (felicità infinita) o l’inferno (dannazione), per sempre (Questione 7)
Ascolta l’audio-catechesi di don Antonio Cecchini sul tema: