La Dottrina Sociale della Chiesa
Perché la fede in Cristo permette di avere criteri più giusti e ragionevoli non solo per la vita personale e familiare ma anche per costruire la società stessa?
Cos’è la “Dottrina Sociale della Chiesa”? Perché fa parte della morale cristiana?
Perché è condivisibile anche da chi non è cristiano?
Che rapporto c’è tra fede e politica? e tra fede ed economia?
Perché non si tratta di fare del “fondamentalismo” religioso, ma neppure di lasciare che la democrazia e la “laicità” diventino sinonimi di relativismo etico o addirittura di nichilismo?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza …
Indice
Dalla fede alla vita sociale
1. Perché la fede non è solo un fatto privato o di coscienza, ma riguarda anche la vita sociale?
Come abbiamo già altrove osservato [cfr. nn.10-11 dell’Introduzione alla morale; così pure in Gesù Cristo e ne La vita cristiana], la fede cristiana deve certo nascere nel più profondo del nostro io (coscienza, anima), altrimenti sarebbe una vana esteriorità, ma non riguarda solo l’interiorità, e neppure solo l’aspetto “privato” della nostra vita (personale, familiare), ma tutta la vita. La fede cristiana è infatti la scoperta di Cristo Signore e l’appartenenza completa a Lui, riconosciuto e seguito come Dio, l’unico vero Dio, e quindi come la Verità e il significato di tutto.
Non c’è dunque un aspetto della nostra vita che non sia illuminato dalla fede in Cristo.
Questo non è fondamentalismo, fanatismo, bigottismo, integrismo, ma è semplicemente l’autentica fede cristiana. Una religiosità o una fede che si riducesse a rivolgersi a Dio ogni tanto, magari solo quando se ne sente il bisogno, o che comunque riguardasse solo qualche momento o aspetto della nostra vita, non sarebbe ancora una fede cristiana, sarebbe come non aver ancora capito che Gesù è Dio, la Verità, il nostro vero Bene!
Certo, Dio non ci da la soluzione preconfezionata a tutti i nostri problemi, personali e sociali. Ci ha dato la ragione perché la usiamo, anche per trovare molte risposte; e anche per confrontarci tra noi e per aiutarci a capire e a perseguire ciò che è giusto e il nostro vero bene. Ma Gesù ci ha dato la vera visione dell’uomo, il significato vero della vita e delle cose più importanti della vita. E alla luce di questa Verità si illuminano anche le risposte a tante questioni concrete della vita personale come pure di quella sociale.
Ora, la nostra vita è continuamente intrecciata con quella degli altri, a cominciare dalla nostra famiglia, dalla Chiesa e comunità cristiana di appartenenza (nella Chiesa siamo addirittura tutti “una cosa sola” in Cristo, cfr. Gv 17,21; 1Cor 12,12-13), ma anche dal paese o quartiere dove abitiamo, dal nostro luogo di studio o di lavoro, fino all’intera società, locale, nazionale e internazionale (oggi più che mai diventata “villaggio globale”). Siamo esseri “sociali”. Nessuno si realizza pienamente da solo. Il bene dell’altro non deve essere inteso come antagonista al proprio. E nella società tutti abbiamo anche delle responsabilità, certo diversificate, nei confronti del bene comune da realizzare.
Intanto anche le idee, decisioni e scelte, che riguardano la vita privata e familiare hanno un’enorme incidenza sociale, anzi forse la maggiore. Pensiamo ad esempio alla responsabilità educativa nei confronti dei figli e dei ragazzi, che sono il futuro stesso della società: non possiamo certo aspettarci una società giusta se educhiamo male i nostri figli e le nuove generazioni.
Allo stesso modo, se facciamo bene il nostro lavoro (o se ci prepariamo bene col nostro studio) stiamo costruendo bene non solo la nostra vita personale, ma questo ha o avrà un influsso benefico sull’intera società.
Abbiamo poi dei doveri anche economici e fiscali nei confronti del “bene comune” (ad esempio pagando le tasse). E se non è chiesto a tutti di assumersi delle responsabilità dirette per la costruzione della cosa pubblica (politica), dobbiamo comunque eleggere (con il voto) chi si assume queste responsabilità. E queste scelte devono essere fatte non in base a interessi personali o a simpatie o ad altri giudizi particolari, ma soprattutto in base proprio a quell’idea di bene (e quindi di uomo), di giustizia, di società, che si vuole e si deve realizzare nella società.
Non è possibile una neutralità, perché non è possibile non decidere. Persino l’indifferenza è una decisione, e tra le peggiori! Quando scegliamo e decidiamo lo facciamo sempre, consapevolmente o no, in base ad un’idea di bene che intendiamo raggiungere e realizzare. Ed è proprio qui che la fede ci insegna quale sia il vero bene (verità) dell’uomo.
Perciò anche questo aspetto fondamentale della vita deve essere illuminato dalla Parola di Dio, autenticamente trasmessa e interpretata dal Magistero della Chiesa Cattolica (cfr. nel sito Chiesa).
L’occuparsi non solo del proprio bene o di quello della propria famiglia, ma anche di quello comune (sociale), è in fondo una traduzione del comandamento dell’amore (“amare Dio che tutto noi stessi e il prossimo come se stessi” è la sintesi di tutta la legge di Dio, cfr. Mt 22,37-40); è quindi un fondamentale dovere morale, di cui dovremo rendere conto a Dio stesso (cfr. nel sito esame di coscienza).
Nello stesso Decalogo (10 Comandamenti), dopo i primi 3 Comandamenti che riguardano il rapporto con Dio, ci sono altri 7 Comandamenti che riguardano il rapporto col prossimo [ed è peraltro significativo che questi inizino proprio dalla famiglia (4° comandamento), difesa anche dal 6° e dal 9° comandamento].
Inseriamo talora a margine gli autorevoli testi del Catechismo della Chiesa Cattolica, sintetizzati nel suo Compendio (CCCC) [con riferimento allo stesso Catechismo (CCC)], che esprimono in sintesi quale sia l’autentica dottrina cristiana. A tali testi, come a tutti quelli del Magistero della Chiesa, il cattolico deve fare riferimento, se vuole davvero pensare, agire e presentarsi pubblicamente come <cattolico>.
CCCC, 401. In che cosa consiste la dimensione sociale dell’uomo? Insieme alla chiamata personale alla beatitudine, l’uomo ha la dimensione sociale come componente essenziale della sua natura e della sua vocazione. Infatti: tutti gli uomini sono chiamati al medesimo fine, Dio stesso; esiste una certa somiglianza tra la comunione delle Persone divine e la fraternità che gli uomini devono instaurare tra loro nella verità e nella carità; l’amore del prossimo è inseparabile dall’amore per Dio (CCC 1877-1880; 1890-1891).
CCCC, 402. Qual è il rapporto tra la persona e la società? Principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona. Alcune società, quali la famiglia e la comunità civica, sono ad essa necessarie. Sono utili anche altre associazioni, tanto all’interno delle comunità politiche quanto sul piano internazionale, nel rispetto del principio di sussidiarietà (CCC, 1881-1882; 1892-1893).
CCCC, 407. Che cos’è il bene comune? Per bene comune si intende l’insieme di quelle condizioni di vita sociale che permettono ai gruppi e ai singoli di realizzare la propria perfezione (CCC, 1905-1906; 1924).
CCCC, 408. Che cosa comporta il bene comune? Il bene comune comporta: il rispetto e la promozione dei diritti fondamentali della persona; lo sviluppo dei beni spirituali e temporali delle persone e della società; la pace e la sicurezza di tutti (CCC, 1907-1909; 1925).
CCCC, 409. Dove si realizza in maniera più rilevante il bene comune? La realizzazione più completa del bene comune si trova in quelle comunità politiche, che difendono e promuovono il bene dei cittadini e dei ceti intermedi, senza dimenticare il bene universale della famiglia umana (CCC, 1910-1912; 1927).
CCCC, 410. Come l’uomo partecipa alla realizzazione del bene comune? Ogni uomo, secondo il posto e il ruolo che ricopre, partecipa a promuovere il bene comune, rispettando le leggi giuste e facendosi carico dei settori di cui ha la responsabilità personale, quali la cura della propria famiglia e l’impegno nel proprio lavoro. I cittadini inoltre, per quanto è possibile, devono prendere parte attiva alla vita pubblica (CCC, 1913-1917; 1926).
CCCC, 411. Come la società assicura la giustizia sociale? La società assicura la giustizia sociale quando rispetta la dignità e i diritti della persona, fine proprio della società stessa. Inoltre la società persegue la giustizia sociale, che è connessa con il bene comune e l’esercizio dell’autorità, quando realizza le condizioni che consentono alle associazioni e agli individui di conseguire ciò a cui hanno diritto (CCC, 1928-1933; 1943-1944).
2. Perché il comandamento dell’amore comporta opere concrete di carità (sempre necessarie), ma anche un progetto sociale, culturale, politico ed economico?
Molti cristiani pensano che impegnarsi cristianamente nella società voglia dire solamente fare del bene, porre in atto qualche opera di carità, magari impegnarsi in qualche associazione caritativa o di volontariato, per far fronte a qualche problema o bisogno sociale. Certo, Gesù ci insegna addirittura a riconoscere nel bisognoso la Sua stessa presenza (cfr. Mt 25,31-46); e su questo saremo da Lui giudicati alla fine del mondo, con conseguenze eterne (inferno o paradiso). Gesù stesso, coi suoi miracoli, risponde spesso anche ai bisogni materiali di chi incontra; ma non cede alla tentazione (cfr. Mt 4,3-4) di ridurre a questi il bisogno fondamentale dell’uomo. Gesù intanto ci ricorda che il bisogno più profondo dell’uomo, la questione più decisiva della vita, quella che decide del nostro destino eterno, è proprio il desiderio di Dio; e che tale desiderio (espresso nello stesso universale senso religioso) può compiersi entrando in comunione con Lui. Per cui il vero bene dell’uomo, che il cristiano – cioè colui che ha conosciuto Cristo e l’amore di Dio – deve perseguire e diffondere, è Gesù stesso!
Ecco perché la morale cristiana ha tradotto sinteticamente le opere di carità (di misericordia) in due gruppi, quelle corporali e quelle spirituali (queste ultime oggi un po’ poco citate).
Le 7 opere di misericordia corporale : 1) dar da mangiare agli affamati; 2) dar da bere agli assetati; 3) vestire gli ignudi; 4) alloggiare i pellegrini; 5) visitare gl’infermi; 6) visitare i carcerati; 7) seppellire i morti.
Le 7 opere di misericordia spirituale : 1) consigliare i dubbiosi; 2) insegnare agli ignoranti; 3) ammonire i peccatori; 4) consolare gli afflitti; 5) perdonare le offese; 6) sopportare pazientemente le persone moleste; 7) pregare Dio per i vivi e per i morti.
Si può e si deve dunque parlare (e porre in atto) anche di una “carità intellettuale”, nel senso di un aiuto reale a scoprire ed approfondire la Verità, quanto mai necessaria per la vita.
Non si tratta quindi di un semplice umanitarismo, né di una filantropia, o di un vago “far del bene” (che può fare anche un non cristiano, se mantiene desta la sua sensibilità e ascolta la voce della sua coscienza), ma della carità, che è “virtù teologale”, ha cioè in Dio la sua sorgente, la sua forza e il suo fine ultimo [cfr. Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est (25.12.2005), spec. la II parte].
Sottolineiamo quindi come la parola carità sia assai più pregnante e cristiana della parola volontariato. Infatti la carità è virtù teologale (cioè in rapporto a Dio, come la fede e la speranza); mentre la parola volontariato mette più riduttivamente in evidenza l’aspetto della nostra volontà, cioè il nostro volontario far qualcosa per gli altri.
La storia della Chiesa in questi 2000 anni è costellata infatti di Santi che hanno saputo inventare, con la forza dello Spirito Santo, straordinarie opere di “carità”, perfino nuovi carismi, ordini religiosi e opere di bene internazionali e perduranti nei secoli, specie nel campo della sanità (ospedali, centri per far fronte ad ogni tipo di bisogno, di malattia, di handicap, persino di bassezza morale) come in quello dell’educazione (scuole di ogni ordine e grado, anche nei paesi più poveri del mondo). E quando nuovi sistemi sociali (come quello liberale-capitalista seguito alla rivoluzione industriale) hanno prodotto perfino nuove e più drammatiche situazioni di povertà (la condizione operaia, il degrado sociale, lo sfruttamento persino dei minori), lo Spirito Santo ha suscitato persino nuovi “santi sociali” che facessero concretamente fronte a queste problematiche sociali con la loro carità e le loro straordinarie opere (come ricorderemo più avanti).
Assai spesso queste opere caritative hanno supplito (e suppliscono) a ciò che lo Stato non era (e non è) in grado di fare per rispondere a bisogni di prima necessità di molte persone. Ma anche quando la società civile e le diverse organizzazioni statali pongono in atto (coi soldi dei cittadini) molti servizi sociali per far fronte a questi bisogni, non è inutile che persistano e si pongano in atto queste opere e istituzioni caritative, non solo perché comunque ce n’è sempre bisogno (e per questo lo Stato dovrebbe sempre sostenerle e finanziarle) ma anche per il particolare stile appunto di “carità” che le contraddistingue e le deve caratterizzare.
A meno che non si sia accecati da un laicismo ideologico, il compito e perfino la necessità di tali opere caritative della Chiesa sono universalmente riconosciuti.
Le opere concrete di carità, da quelle che ciascuno di noi può fare individualmente a quelle più organizzate a livello locale, nazionale o internazionale (specie ecclesiali, proprio per la carità che le caratterizza) rimangono sempre necessarie. Pensare che una più perfetta organizzazione sociale o perfino un’ideologia politica che pretenda di risolvere tutti i problemi possano sostituire o rendere inutile tali opere concrete è un’illusione, un’utopia disumana.
Alcune ideologie, come quella marxista (socialista-comunista), vivevano di questa illusione e utopia e portarono addirittura a disprezzare la carità concreta in favore della realizzazione politica di una immaginaria società futura dove tali forme di carità sarebbero state inutili o addirittura non ci sarebbero stati più problemi perché risolti a monte dalla stessa organizzazione perfetta dello Stato.
Per questi futuri “paradisi” sulla terra si sono sacrificate milioni di vite umane, costruendo invece l’inferno già su questa terra.
Negli anni post ’68 anche in Italia c’erano molti che dicevano che era inutile la carità della Chiesa, che non sapeva risolvere i problemi dell’uomo, mentre la presunta scientificità del progetto marxista avrebbe risolto a monte i problemi, costruendo una società comunista dove non ci sarebbero stati più bisognosi ma “ciascuno avrebbe prodotto secondo le sue capacità e tutto sarebbe stato ridistribuito secondo il bisogno” (sogno marxista – peraltro da secoli realizzato ad esempio in ogni monastero! – che ha condotto invece all’estrema povertà interi popoli sottoposti a inaudite violenze, fino al tracollo del sistema comunista nelle società dell’Europa orientale dove era stato imposto).
E’ però vero che, se rimane insostituibile la carità concreta per far fronte alle emergenze del presente, è segno di amore (e di “giustizia”) pensare, progettare, organizzare e porre sempre più in atto un sistema sociale, cioè un certo tipo di strutturazione sociale, anche economica e politica, che sia più consona all’autentica dignità di ogni uomo, più giusta, e più in grado di impedire o di risolvere a monte (cioè nelle cause remote) le questioni sociali. Anzi, per risolvere davvero le questioni sociali, dobbiamo addirittura risalire alle idee che le orientano, cioè alla cultura, perché è con le idee giuste (ecco la “carità intellettuale”) che poi si preparano le scelte e si imposta una vita e anche una società. Ecco perché occorre dunque anche una “dottrina sociale” giusta, più rispondente alla dignità dell’uomo e quindi più in grado di progettare ed edificare una società a misura d’uomo, cioè secondo un “bene comune” che corrisponda al vero bene di ogni uomo.
Ed ecco ad esempio perché, proprio di fronte alle nuove questioni sociali emerse nel XIX secolo, il Magistero della Chiesa ha anche meglio e più organicamente pensato e proposto la sua “dottrina sociale”, non tanto per affermare la presenza cristiana o della Chiesa nella società ma proprio per far fronte in modo più giusto e lungimirante alle questioni sociali ed ai bisogni di milioni di persone.
3. Perché la morale cristiana comprende anche una “dottrina sociale”?
Dopo quanto osservato, si capisce allora perché la “dottrina sociale” della Chiesa sia una vera e propria espressione dell’amore cristiano – e quindi parte integrante della morale cristiana – che non sostituisce il dovere di porre in atto concrete e immediate opere di carità, ma che è altrettanto necessaria per progettare e costruire una società più rispondente al vero bene dell’uomo.
Nessun cristiano può allora permettersi di ignorare tale “dottrina” e deve riferirsi ad essa quando compie delle scelte sociali, anche politiche. E nessun politico può lecitamente attribuirsi il titolo di “cattolico” (o pretendere i voti dei cattolici) se non si fa difensore e promotore di tali principi.
Non si tratta tanto del dovere di “esserci” nella società come cattolici, ma appunto di lavorare (progettare, prendere decisioni, formulare leggi) per il vero bene dell’uomo.
Essendo parte integrante della morale cristiana, devo in coscienza analizzarmi, anche di fronte a Dio, per vedere se conosco, prendo decisioni, faccio scelte e mi comporto secondo tale Dottrina Sociale della Chiesa.
Nel sito, abbiamo ad esempio l’aiuto per fare bene l’esame di coscienza. Ricordiamo allora qui alcune di quelle domande di aiuto: il mio criterio di giudizio (cioè il criterio con cui vivere tutte le cose, il cosa pensare e le decisioni da prendere) è davvero fondato sulla fede (verità) o cedo alle mode, alla mentalità dominante, al giudizio degli altri, anche quando sono contrari ai giudizi di Dio? oltre che nella mia vita privata (personale, familiare), mi attengo alle indicazioni della Chiesa anche per perseguire l’autentico bene comune e quindi nelle mie scelte che hanno un particolare rilievo sociale? Mi impegno a conoscere, applicare e divulgare la “Dottrina sociale cristiana”? Mi impegno affinché a livello sociale (anche culturale, politico, legislativo, economico) siano promossi almeno quei fondamentali valori – detti “non negoziabili” – su cui non posso e non devo scendere a compromesso, pena la perdita stessa della mia identità cattolica e il bene stesso dell’uomo e della società? anche a livello di votazioni (politiche, amministrative), ho sempre scelto persone, liste e partiti che promuovano anzitutto questi valori?
Le forme associative (sociali, culturali, sindacali, economiche, politiche, partitiche) cui il cristiano può e in certi casi deve partecipare sono ovviamente molteplici. Un lecito pluralismo di forme e di metodi non deve però cedere su questi valori fondamentali; altrimenti il cristiano – pur nel rispetto di altrui posizioni – non vi parteciperà o non promuoverà tali realtà (associazioni, partiti, sindacati). Aderire o promuovere realtà radicalmente ostili a questi principi, o addirittura alla fede e alla Chiesa, è peccato (oltre che autolesionista!). In certi casi, come per la “massoneria” (anche se la sua ostilità alla Chiesa è spesso velata), si può incorrere anche nella “scomunica”.
4. Cos’è la “dottrina sociale” della Chiesa?
La “Dottrina sociale” della Chiesa è un insieme di norme, principi e orientamenti – sorti alla luce della Parola di Dio (e dell’esperienza storica) ma anche razionalmente comprensibili e per questo condivisibili anche da un non credente – per costruire e raggiungere sempre meglio e sempre di nuovo un’autentica giustizia, un autentico bene comune, nella promozione e difesa dell’autentica dignità di ogni essere umano e dei suoi inalienabili diritti.
CCCC, 509. Qual è il contenuto della dottrina sociale della Chiesa? La dottrina sociale della Chiesa, quale sviluppo organico della verità del Vangelo sulla dignità della persona umana e sulla sua dimensione sociale, contiene principi di riflessione, formula criteri di giudizio, offre norme e orientamenti per l’azione (CCC, 2419-2423).
CCCC, 510. Quando la Chiesa interviene in materia sociale? La Chiesa interviene dando un giudizio morale in materia economica e sociale, quando ciò è richiesto dai diritti fondamentali della persona, dal bene comune o dalla salvezza delle anime (CCC 2420; 2458).
CCCC, 512. Che cosa si oppone alla dottrina sociale della Chiesa? Si oppongono alla dottrina sociale della Chiesa i sistemi economici e sociali, che sacrificano i diritti fondamentali delle persone, o che fanno del profitto la loro regola esclusiva o il loro fine ultimo. Per questo la Chiesa rifiuta le ideologie associate nei tempi moderni al «comunismo» o alle forme atee e totalitarie di «socialismo». Inoltre, essa rifiuta, nella pratica del «capitalismo», l’individualismo e il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano (CCC, 2424-2425).
4.1. Come si è formata la “Dottrina Sociale della Chiesa”?
Assai spesso si pensa che la Dottrina Sociale della Chiesa sia nata nel 1891 con l’Enciclica Rerum novarum del Papa Leone XIII. In realtà la sorgente della “Dottrina sociale cristiana” è nella stessa Rivelazione di Dio, che ha trovato la sua pienezza insuperabile in Cristo. Essa è dunque nata insieme al cristianesimo, insieme cioè a quell’altissima visione dell’uomo, della vita e della società che scaturisce dalla stessa Rivelazione divina.
Le fede cristiana, mentre è stata in grado di mostrare al mondo non solo la propria bellezza ma anche la propria ragionevolezza, ha pure progressivamente manifestato – con la dottrina e la viva testimonianza – una diversa e più alta concezione della società, più corrispondente alla vera dignità dell’uomo, che la ragione (anche di chi non ha la fede) può comprendere e che proprio la fede in Cristo può più profondamente fondare, cioè spiegare.
Prima ancora di formularsi in una vera e propria “dottrina sociale”, la fede cristiana ha talmente elevata la consapevolezza della dignità di ogni uomo, da abolire ad esempio di fatto la schiavitù e ogni forma di razzismo, ha permesso un’inedita attenzione e cura nei confronti dei poveri e degli ammalati, prima emarginati dalla vita sociale (l’ospedale è infatti un’invenzione cristiana!); ma ha anche permesso una corretta distinzione, che non significa separazione, tra potere politico e religione, così da non cadere né in un fondamentalismo religioso (dove cioè la fede diventi obbligatoria per legge) né in un assolutismo del potere stesso (dove cioè il potere politico ha la pretesa di sostituirsi a Dio, ad esempio nella formulazione dei principi morali). Ha così fornito le basi per la costruzione stessa della civiltà occidentale, perno di quella mondiale.
Si veda in proposito l’ottimo studio di T. E. Woods Jr. in How the catholic Church built western civilization, Washington D.C., 2001 (trad. it., Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli SI 2007)]
Dopo il crollo dell’Impero romano, il cristianesimo, con la sua nuova e più alta visione dell’uomo e della società, è divenuto il nuovo punto di riferimento, capace di costruire un’intera e fecondissima civiltà, in grado di unificare armoniosamente le identità e culture di innumerevoli popoli. Anzi, talora l’autorità della Chiesa (Papa, vescovi) ha dovuto persino assumersi un compito di supplenza nei confronti del potere politico; spontaneamente molte popolazioni si rivolgevano alla Chiesa come unico punto di riferimento in grado di gestire anche la res pubblica (si pensi in questo senso alla formazione, in Italia, dello Stato Pontificio, come pure a delle responsabilità anche civili di certi vescovi).
Anche quando il pensiero moderno (e conseguentemente anche le basi sociali) si è distaccato progressivamente dalla fede e dalla dottrina sociale cristiana, e perfino quando vi si è violentemente opposto, ha però continuato perfino inconsapevolmente a viverne di rendita (si pensi ad esempio agli slogan della rivoluzione francese – libertà, fraternità, uguaglianza – impensabili ad esempio in una civiltà orientale come quella induista).
Quando poi nel XIX secolo le questioni sociali assunsero immani proporzioni continentali e planetarie (pensiamo ad esempio alla “rivoluzione industriale”) e soprattutto sono state condizionate da errate ideologie (post-illuministe e assai lontane dai principi cristiani e quindi dall’autentico bene dell’uomo e della società, come il liberalismo-capitalismo e il socialismo-comunismo), allora anche il Magistero della Chiesa – a cominciare appunto dall’Enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891) fino al giorno d’oggi (v. Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, 2009) – ha formulato in modo più organico e approfondito i contenuti della “Dottrina sociale cristiana”, con particolare riferimento a tali nuove questioni sociali e ideologie (con le politiche ed economie che ne conseguono).
Come abbiamo sopra ricordato, e come vedremo di nuovo, non dimentichiamo che, mentre questi documenti ufficiali fornivano un insostituibile aiuto per poter discernere il vero dal falso e il bene dal male – anche circa le nuove dottrine filosofiche e politiche che coinvolgevano interi Paesi e si imponevano assai spesso con incredibile violenza – e fornivano i principi per costruire invece una società più degna dell’uomo, lo Spirito Santo suscitava pure risposte concrete alle nuove terribili sofferenze e problematiche scaturite da quelle false dottrine, ispirando immense opere di carità sociale della Chiesa e suscitando nuovi santi capaci di farsi davvero prossimo a tanti uomini, donne e bambini bisognosi (talora persino depravati moralmente dalla nuova società); basterebbe pensare agli straordinari Santi “sociali” nel Piemonte del XIX secolo.
Tali documenti del Magistero della Chiesa sulle questioni sociali hanno enucleato in modo sempre più chiaro e aggiornato un insieme di giudizi, orientamenti e indicazioni in grado di mettere in guardia da ideologie che sono erronee – e che purtroppo hanno causato (al di là delle possibili buone intenzioni iniziali) immani catastrofi sociali e mondiali (specie nel sec. XX) – e hanno costituito un ‘corpo dottrinale’ in grado di fornire chiare condizioni per risolvere molte e gravi questioni sociali.
Oggi, a distanza di oltre un secolo, possiamo peraltro osservare che se fossero stati raccolti i giudizi e poste in atto le indicazioni anche già della prima enciclica sociale (appunto la Rerum novarum) il secolo scorso non avrebbe conosciuto la barbarie di due ideologie disumane (nazismo, comunismo) e di due Guerre mondiali, che hanno procurato immani sofferenze e violenze e causato centinaia di milioni di morti!
Il termine “Dottrina sociale della Chiesa”, dopo la grande crisi (anche ecclesiale) del 1968, andò praticamente in disuso, quasi fosse una pretesa del passato (si pensi in questo senso anche alla cosiddetta “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica di quegli anni); ma fu fortemente rivalutato e promosso da Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla visse in prima persona non solo il dramma della Seconda Guerra Mondiale ma delle due disumane ideologie anticristiane – nazismo e comunismo – che provocarono distruzione fisica e morale di milioni di persone e che si abbatterono con violenza anche proprio sulla cattolicissima Polonia del XX secolo. Per questo proprio in Polonia, immediatamente dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, nacque – sulla linea appunto della Dottrina sociale della Chiesa – il primo sindacato libero dell’Europa sotto il comunismo, Solidarnosc, da cui iniziò quella pacifica rivoluzione che, sostenuta e promossa dalla fede cattolica, portò alla liberazione e alla caduta stessa del comunismo, non solo in Polonia ma in tutto l’est Europa, fino al simbolico crollo del “muro di Berlino” il 9.11.1989. Durante il suo lungo pontificato, Giovanni Paolo II scrisse ben 3 encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis(1987) e Centesimus Annus (1991), oltre all’enciclica Evangelium vitae (1995) e Veritatis splendor (1993), anch’esse di grave e urgente rilevanza sociale.
5. La “Dottrina Sociale della Chiesa” pretende di imporre a tutti la visione cristiana?
Quanti hanno scoperto Cristo e hanno deciso di seguirlo (cioè i cristiani), non hanno certo alcun dubbio che quello che Egli ci dice sia la verità, cioè il nostro autentico bene. Altrimenti Gesù non sarebbe Dio! E questa Verità è il bene di tutti e non solo di qualcuno.
Certo, la fede non può essere imposta. Sarebbe peraltro impossibile, dovendo nascere dall’interno dell’uomo, dalla libera risposta della sua coscienza. Può e deve essere annunciata, proposta, spiegata, portandone anche le ragioni, e testimoniata, affinché tutti se ne convincano liberamente, la abbraccino e possano così salvarsi per l’eternità. E per questo dobbiamo anche continuamente pregare. Questo è il mandato (missione) stesso che ci ha dato Gesù (cfr. Mt 28, 18-20).
Nell’attesa operosa – che tutti ci deve trovare impegnati – che il Regno di Dio cresca nel mondo, che tutti gli uomini si convertano a Cristo, che entrino nella grande famiglia che è la Chiesa (Cattolica, che significa appunto “universale”) e così si salvino per l’eternità, dobbiamo però costruire al meglio, con l’aiuto di Dio, anche una società, in cui appunto non tutti sono cristiani e quindi non tutti ancora possono condividere certi valori cristiani.
Che fare allora? Come costruire questa società?
La questione si è ovviamente sempre posta, persino quando (pensiamo al Medioevo europeo) praticamente la quasi totalità delle persone si riconosceva nel cristianesimo e nella sua verità.
Oggi la questione è esplosa in una dimensione mai prima d’ora registrata: la globalizzazione, i sempre più veloci mezzi di trasporto e di comunicazione, le enormi masse di persone che si spostano da un continente a un altro, fanno sì che in ogni villaggio ci sia ormai il mondo intero (persone di diverse razze, popoli, culture e religioni) e nello stesso tempo il mondo sia diventato un solo villaggio, appunto un “villaggio globale”.
Questo può anche generare una ricchezza di scambio di esperienze e una crescita comune; ma può rendere una società anche una Babilonia (una Torre di Babele), dove non è più possibile comunicare e condividere valori, quindi dove in fondo non è più possibile costruire una vera societas, una vera “casa comune”, una comunione, un vero “bene comune” (che non si limiti semplicemente a tollerare tutti o tutto senza poter più condividere e affermare nulla).
Non si tratta dunque certo di costruire una società o uno Stato dove la fede cristiana sia obbligatoria.
Si tratta di costruire una società, una casa comune, su alcuni valori fondamentali, che possano garantire l’autentico bene dell’uomo e su questi orientare le scelte che di volta in volta si devono compiere per attuare questo fine.
Certo, la fede cristiana – nata dalla Rivelazione stessa di Dio – ha una luce superiore per poter cogliere quale sia l’altissima dignità dell’uomo, il significato vero della vita e di tutti i suoi fattori, come pure i principi per poter costruire una società degna dell’uomo e del suo autentico bene, di ciascuno e di tutti. Ma questa superiore verità è anche ragionevole, cioè ha le sue ragioni, e come tale può essere comunicabile, può essere convincente, e quindi condivisibile anche da chi cristiano non è. La ragione umana, infatti, è in grado di cogliere la verità e la bontà di certi principi. La stessa coscienza umana li avverte al suo interno come buoni. Inoltre anche l’esperienza storica può e deve essere illuminante, perché può anche riconoscere la verità o meno di certe impostazioni, dottrine, ideologie, anche dai loro frutti, dalle conseguenze cioè che hanno già portato nella storia.
I principi fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, elaborati lungo il tempo anche in risposta a nuove situazioni e problematiche sociali, sono infatti non solo atti a costruire una società più giusta, ma anche a essere condivisibili da chiunque vuole scorgerne la loro verità e bontà, e costruire così insieme una casa comune fondata su solidi principi.
Non si tratta quindi né di imporre qualcosa, né all’opposto di rinunciare alla propria identità e a questi principi per sottomettersi con un complesso di inferiorità all’ideologia dominante di turno o a un relativismo dove nulla sarebbe vero per tutti, ma di impegnarsi soprattutto a convincere gli altri della bontà di questi principi e poi di costruire su di essi la società, condividendoli anche con coloro che pur non essendo cristiani possono riconoscerne ugualmente la validità.
Alcuni equivoci del pensiero moderno
6. C’è una questione di fondo che sta alla base di tutti gli errori ed equivoci oggi presenti?
Al fondo degli equivoci che rendono oggi praticamente impossibile la costruzione della società, la quale non può che reggersi sulla condivisione di alcuni fondamentali valori, e che a ben vedere rendono persino vuoto e inutile tutto l’oceano di dibattiti che quotidianamente ci vengono propinati dai media, è la perdita della fiducia – che caratterizza progressivamente il pensiero moderno – nella capacità razionale dell’uomo di poter cogliere la verità (oggettiva e universale).
Da questa perdita progressiva della verità consegue una nuova e in fondo impazzita concezione della libertà, appunto totalmente autonoma, senza alcun possibile legame col vero e col bene, e quindi come semplice poter fare quello che si vuole.
Basterebbe la decisiva parola di Gesù “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32) per comprendere come una libertà senza verità è come avere le gambe e non sapere più dove andare!
Poiché questa idea di libertà tende ovviamente a rendere la società una giungla (se ciascuno può fare quel che vuole, vige solo la legge del più forte, fisicamente, economicamente, politicamente), e la stessa democrazia un’anarchia, allora il bene da perseguire sarebbe quello che di volta in volta il potere (culturale, politico) stabilisce. A fondamento del bene dell’uomo e del bene comune non c’è quindi più Dio-Creatore, ma l’ideologia, cioè un progetto astratto di felicità, e lo Stato, che lo deve attuare. Quanto è avvenuto già con la Rivoluzione francese e più ancora con le ideologie e le dittature del XX secolo (nazismo e comunismo) è dentro quest’ottica, che è in fondo “statolatria” (lo Stato al posto di Dio). Ora questa impostazione è più che mai imperante, anche se meno appariscente: a sostituirsi a Dio, a voler essere a fondamento del bene e del male, è la stessa democrazia, cioè la maggioranza (peraltro ben pilotata dal potere economico e culturale che ha in mano gli strumenti di comunicazione di massa, capaci di orientare il pensiero del popolo); ma senza più quel necessario riferimento al “vero”, essa stessa è dittatura (tanto è vero che continua a distruggere valori e non tollera chi non è d’accordo), cioè appunto la “dittatura del relativismo”.
Possiamo notare come gran parte del pensiero moderno (da Cartesio in poi) abbia progressivamente abbandonata la fiducia nella possibilità della ragione di conoscere la verità oggettiva e universale. Nello stesso tempo, allontanandosi sempre più da Cristo (o perdendo i riferimenti oggettivi della vita cristiana, come nel caso della Riforma protestante), anche i princìpi che sono scaturiti proprio dal cristianesimo, pur se ancora enunciati, in realtà si sgretolano o impazziscono, cioè si esasperano in modo unilaterale. La “rivoluzione francese” e ciò che ne è seguito, nonostante il motto “liberté, fraternité, égalité”, nei suoi esiti storici, ne è una tragica conferma.
La liberté, privata del suo necessario legame con la verità, ha prodotto un “liberalismo” esasperato e una dittatura del capitalismo. La fraternité, da giusto riconoscimento della dimensione sociale dell’uomo (esaltata nella comunione cristiana), diventa imposizione statale e annientamento della singola persona, conducendo alla dittatura del socialismo-comunismo. L’égalité, dall’originario significato cristiano di uguale dignità in tutti gli uomini, diventa la pretesa di fare tutti la stessa cosa (con sempre nuovi presunti diritti).
Come il “figliol prodigo” della parabola evangelica (Lc 15,11-32), che se ne andò dalla casa del padre con i soldi del padre ma la sua presunta autonomia si trasformò nello sperpero di tutti quei beni e in una disumana povertà e perdita di dignità, così sembra proprio che i valori cristiani, pur così consoni alla natura umana e infatti razionalmente comprensibili, staccati dal riferimento al Padre (e lontani dal Figlio) nella pretesa totale autonomia dell’uomo si capovolgono essi stessi nel loro contrario, come una benedizione che diventa una maledizione, come un’eterogenesi dei fini. In fondo Gesù ci aveva avvertito: “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5), come un ramo staccato dal tronco.
Nietzsche in fondo l’aveva acutamente e tragicamente profetizzato: se Dio non c’è, se “Dio è morto”, allora siamo “al di là del bene e del male”, al di là del vero e del falso.
“Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede, ahimè, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, animale, senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella sua fede di una volta era quasi Dio (<figlio d’Iddio>, <Uomo-Dio>)… Da Copernico in poi, si direbbe che l’uomo sia su un piano inclinato – ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale – dove? nel nulla? nel <trivellante sentimento del proprio nulla> […] chi potrebbe ormai biasimare gli agnostici se costoro adorano ora come Dio lo stesso punto interrogativo?” (F. Nietzsche, Genealogia della morale).
6.1. Sulla libertà (senza verità)
Questo è appunto l’equivoco di fondo della “modernità”: smarrita la concezione stessa della verità (oggettiva, universale, conoscibile), la libertà si esaspera in una pura autonomia, senza alcun legame col vero. Si riduce semplicemente ad una libertà da, senza più il decisivo aspetto della libertà per.
Come appunto se uno fosse libero di camminare ma non sapesse più la strada, anzi, negando che ci sia una strada. Questo solo all’inizio genera quasi un’ebbrezza e potrebbe farci sentire quasi come Dio. In realtà pian piano ci trasporta in uno spaventoso vuoto, nell’angoscia del totale nonsenso. In fondo è la storia del peccato, a cominciare dal primo fondamentale peccato “originale” (cfr. Gen. 3).
Nel XIX secolo l’ideologia “liberale” (liberalismo) ha così esaltato la libertà del singolo a scapito del bene comune. Nel suo risvolto economico ha generato uno spietato “capitalismo”.
Dentro questa logica, nella migliore delle ipotesi si accetta che la propria libertà venga limitata solo dalla libertà degli altri (il falso motto “la mia libertà deve finire dove comincia quella degli altri”, che purtroppo molti pensano sia una regola saggia, in realtà è riduttiva e falsa). Intanto non si può più dire dove sia effettivamente questo limite (se io ad esempio sono molto più ricco e potente di te dove sarà questo limite tra la mia libertà e la tua?). Si perde così la dimensione sociale dell’uomo e il bene del singolo prevale sul bene comune. Per di più, in questa logica, se gli altri non ci fossero sarebbe meglio perché io sarei ancor più libero (“L’inferno sono gli altri” è arrivato ad affermare conseguentemente J. P Sartre).
Si capisce dunque che la libertà, anche se è fondamentale, non può essere l’unico valore da garantire nella società.
All’opposto, l’ideologia “marxista” (socialista-comunista), per garantire un bene comune (peraltro presunto, in quanto deciso dal partito), ha sacrificato totalmente la libertà del singolo, compresa ogni sua proprietà privata ed ogni iniziativa sociale, politica ed economica che non sia quella decisa dal partito. E ciò ha permesso una delle più gravi e violente soppressioni della dignità umana (fino a provocare spietati sistemi polizieschi statali e solo nel secolo scorso più di 100 milioni di morti!).
Si capisce dunque che il bene comune non può essere qualcosa di deciso dal partito o dallo Stato, né può soffocare la dignità, la libertà e il bene dei singoli e degli stessi gruppi sociali intermedi.
Una conseguenza di questo equivoco sulla libertà è quell’errore che fa dire a tanti (persino non pochi cattolici!): “io la penso così, per me è bene questo; ma perché dovrei obbligare un altro a pensarla e ad agire così?”. In realtà anche questa domanda, che potrebbe sembrare inizialmente giusta, si fonda proprio sul “dogma relativista” secondo cui non ci sarebbe una verità, oggettiva e valida per tutti. Anche questo errore, questo equivoco sulla libertà, renderebbe di fatto impossibile qualsiasi legge statale (il diritto) e trascinerebbe ogni democrazia in una sostanziale anarchia. L’idea stessa di “legge” (civile, penale), infatti, presuppone che ci siano dei beni (propri e altrui) da difendere ad ogni costo, così che anche chi non ne è convinto la debba osservare; e debba essere punito se non la osserva. Si potrebbe infatti osservare che la legge è fatta apposta per chi non ne è convinto, perché chi ne è convinto in fondo l’osserverebbe anche se non ci fosse una legge o una punizione per i trasgressori.
Potremmo inoltre osservare che in base a questo principio relativista e a questo equivoco sulla libertà, diventerebbe impossibile persino educare un figlio, perché qualunque norma morale gli insegnassimo sarebbe, secondo questa falsa ottica, semplicemente una violenza, una pretesa di imporgli un proprio particolare punto di vista.
Lo stesso insegnamento scolastico, dentro questa logica relativista, sarebbe inteso come violento e dovrebbe ridursi (come purtroppo assai spesso avviene) ad una serie di informazioni da trasmettere, presupponendo che esse siano neutrali e asettiche, mentre in realtà nascondono inevitabilmente una scelta e una precisa visione dell’uomo, della società e della storia. Poiché infatti non esiste nulla di neutrale (perché ogni scelta implica una visione dell’uomo e della sua felicità), lo sforzo educativo deve essere proprio quello di introdurre, certo anche criticamente, nella verità.
6.2. Sull’uguaglianza (come il fare le stesse cose)
Pur essendo un dato che la ragione può cogliere nella stessa comune “natura umana”, fu proprio il cristianesimo a far capire che ogni uomo ha la stessa dignità, per il semplice fatto che esiste (creato a “immagine e somiglianza di Dio”, salvato personalmente da Cristo e chiamato a partecipare alla stessa vita eterna di Dio), indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, psichiche e persino morali, al di là della sua razza, cultura o religione (non è invece così chiaro nelle altre religioni, basti pensare ad esempio alla suddivisione in “caste” promossa dall’induismo).
Perduto questo fondamento ontologico e cristiano, anche l’idea di uguaglianza è caduta e cade in un grossolano equivoco: per essere uguali dobbiamo poter fare le stesse cose.
Questo equivoco ha generato vere e proprie forme ideologiche, che come tali giungono a negare perfino l’evidenza stessa della realtà (secondo il famoso detto per cui “se l’ideologia è smentita dalla realtà è la realtà che sbaglia e non l’ideologia”). Il femminismo, ad esempio, per affermare la giusta uguaglianza delle donne con gli uomini, ha spinto le donne a fare le stesse cose degli uomini, nascondendosi che ciò non è sempre possibile e recando assai spesso danno alle donne stesse (sia a livello di condizioni di lavoro che a livello di abbassamento morale), oltre che alle loro famiglie (soprattutto nell’educazione dei figli). Il “diritto allo studio”, da fondamentale diritto di poter compiere gli studi appropriati e consoni alle proprie capacità anche da parte di coloro che non ne avessero le possibilità economiche, col ’68 è diventato diritto per chiunque di accedere a qualsiasi tipo di studio, anche senza averne le capacità (abbassando di conseguenza il livello generale di preparazione scolastica e universitaria; è evidente che non ho ad esempio il diritto di studiare ingegneria se non capisco niente di matematica). La fondamentale uguaglianza di dignità del maschio e della femmina è diventata la loro interscambiabilità (padre/madre) o confusione [con le nuove teorie del gender (la sessualità scelta), della perfetta normalità dell’omosessuale e del suo conseguente presunto diritto di sposarsi con la persona dello stesso sesso e persino di “adottare” bambini (visto che in questo caso la natura prevale necessariamente sull’ideologia, in quanto da due uomini o da due donne non può nascere un figlio)]. Questi equivoci si nascondono talora persino dietro la sacrosanta attenzione da riservare ai disabili (oggi infatti denominati “diversamente abili”), attenzione che spesso oggi si ammanta di aspetti demagogici, confondendo l’amore di cui hanno bisogno e la possibilità di fare tutto quello che possono fare, con la pretesa di poter far tutto (cosa che tra l’altro nessuno può fare, perché chiunque ha dei limiti), inventandosi sempre nuovi diritti ma nascondendosi la realtà che intanto ciò non è possibile (un non vedente non ha ad esempio il diritto di guidare l’autobus); quando poi l’attenzione ai disabili diventa diritto di ucciderli se non sono ancora nati o se sono in fase clinica terminale, allora si capisce la falsità di questa visione demagogica.
CCCC, 412. Su che cosa si fonda l’uguaglianza tra gli uomini? Tutti gli uomini godono di eguale dignità e diritti fondamentali, in quanto, creati a immagine dell’unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura e origine, e sono chiamati, in Cristo unico salvatore, alla medesima beatitudine divina (CCC, 1934-1935. 1945).
CCCC, 413. Come valutare le disuguaglianze tra gli uomini? Ci sono delle disuguaglianze inique, economiche e sociali, che colpiscono milioni di esseri umani; esse sono in aperto contrasto con il Vangelo, contrarie alla giustizia, alla dignità delle persone, alla pace. Ma ci sono anche differenze tra gli uomini, causate da vari fattori, che rientrano nel piano di Dio. Infatti, Egli vuole che ciascuno riceva dagli altri ciò di cui ha bisogno, e che coloro che hanno «talenti» particolari li condividano con gli altri. Tali differenze incoraggiano e spesso obbligano le persone alla magnanimità, alla benevolenza e alla condivisione, e spingono le culture a mutui arricchimenti (CCC, 1936-1938; 1946-1947).
6.3. Sulla democrazia (che degenera in anarchia)
Che il popolo possa scegliere i propri governanti (democrazia = potere del popolo) può essere cosa buona e quindi preferibile. L’essenziale è però che i governanti attuino il vero bene dell’uomo.
Dobbiamo però ricordare che la verità non dipende dal consenso, non è il frutto della maggioranza, ma è oggettiva; e solo in riferimento ad essa si può perseguire l’autentico bene dell’uomo e della società. L’intelligenza e la coscienza ci avvertono che i valori fondamentali non dipendono dal consenso (è evidente ad esempio che rubare sia male e che questo giudizio non dipenda da quanti lo dicono e resterebbe male anche se il 60% o persino l’unanimità dicessero il contrario!). Dobbiamo poi cogliere un altro limite della democrazia, ed è l’aspetto esclusivamente quantitativo (numero – forse anche in questo siamo ancora dipendenti dal pensiero cartesiano …): il voto segue infatti inevitabilmente un criterio numerico (quantità) e non di verità (qualità), per cui il voto di uno che sta tutto il giorno al bar e non si è mai occupato di affrontare le problematiche sociali vale quanto quello che ha dedicato tutta la vita a questa missione.
Su tante questioni contingenti si deve discutere (qui sta il lavoro di un <Parlamento>) per capire quale sia il vero bene sociale da costruire. Dovrebbe essere però evidente che certi principi morali sono per sé indiscutibili, perché appunto non dipendono dal consenso.
Se poi la politica da “strumento” (per il raggiungimento del bene comune) diventa il “fine”, e se a monte è smarrita appunto la consapevolezza dell’oggettività del bene, allora diventa praticamente impossibile discutere: si rischia di giudicare il bene o il male semplicemente in dipendenza dalla fazione politica che lo afferma. E ciò rende evidentemente impossibile raggiungere qualsiasi accordo e costruire realmente una società (ogni decisione verrà bloccata dalla parte contraria, non perché si creda che il bene da raggiungere sia un altro, ma perché è male semplicemente in quanto lo dice l’avversario); il problema si risolverebbe allora solo potendo raggiungere un consenso politico (voti) così forte da poter permettersi di fare scelte indipendentemente dall’opposizione.
Ciò determina appunto che i <mezzi> per individuare ed ottenere il bene comune, la res publica, diventano il <fine>. Gli stessi partiti, da mezzi diventano fine a se stessi, capaci solo di lottare gli uni contro gli altri e incapaci di qualsiasi seria progettualità. Il venire meno della stessa passione politica (che non sia per interesse o vanagloria), la sfiducia e lo scetticismo nei confronti della politica, fino al sempre più forte astensionismo (paradossalmente presente proprio nelle democrazie considerate più avanzate), ne sono una conseguenza.
Senza una consapevolezza dell’oggettività di alcuni valori, fondati sulla stessa natura umana e riconoscibili dalla stessa ragione umana, la democrazia diventa sinonimo di “relativismo etico” e come tale non può reggersi e rischia di degenerare in nuove e magari subdole forme di dittatura (se non di un dittatore singolo, magari quella della maggioranza, del potere economico e di quello degli strumenti di comunicazione di massa, se non altro la dittatura stessa del relativismo, dove tutto è possibile tranne negare che tutto è possibile). Perché comunque qualche decisione occorre pur prenderla per costruire una società!
Ecco le lucidissime parole di Giovanni Paolo II, a soli pochi anni dal crollo del comunismo nell’est-Europa, che indicano il pericolo di nuove e subdole forme di dittatura anche nelle moderne democrazie [Enciclica Veritatis splendor (6.08.1993), n. 101]:
“Nell’ambito politico si deve rilevare che la veridicità nei rapporti tra governanti e governati, la trasparenza nella pubblica amministrazione, l’imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli avversari politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e condanne sommarie, l’uso giusto e onesto del pubblico denaro, il rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo il potere, sono principi che trovano la loro radice prima – come pure la loro singolare urgenza – nel valore trascendente della persona e nelle esigenze morali oggettive di funzionamento degli Stati. Quando essi non vengono osservati, viene meno il fondamento stesso della convivenza politica e tutta la vita sociale ne risulta progressivamente compromessa, minacciata e votata alla sua dissoluzione (cf Sal 131, 3-4; Ap 18,2-3. 9-24).
Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo – e prima fra esse il marxismo -, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità. Infatti, «se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere.
Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia [già nell’Enciclica sociale di Giovanni Paolo II Centesimus annus (1991), n. 46].
Così in ogni campo della vita personale, familiare, sociale e politica, la morale – che si fonda sulla verità e che nella verità si apre all’autentica libertà – rende un servizio originale, insostituibile e di enorme valore non solo per la singola persona e per la sua crescita nel bene, ma anche per la società e per il suo vero sviluppo”.
Senza dunque una consapevolezza dell’oggettività del vero e del bene la democrazia si trasforma in anarchia, dove semplicemente tutto è lecito; ma questo, rendendo impossibile una vita sociale, si trasforma assai presto in dittatura (ci aveva del resto già avvertito Platone nella Repubblica).
Che democrazia non significhi relativismo e che alcune concezioni fondamentali del bene comune da garantire e perseguire non dipendano semplicemente dal consenso parlamentare e dai governi (sempre provvisori) è testimoniato dal fatto che uno Stato, al di là delle leggi che di volta in volta un Governo propone e discute in Parlamento, fa riferimento ad una Costituzione e ai suoi principi, che appunto non cambiano ad ogni cambiamento di maggioranza o di governo.
6.4. Sui diritti (reali e presunti)
Una sempre più diffusa conseguenza di questa assolutizzazione della libertà (sganciata dalla verità) è il moderno progressivo prevalere dei diritti sui doveri, fino al punto di inventarsi presunti diritti, perfino quelli che sono semplici velleità, gusti e capricci. Si pensi al presunto diritto di essere famiglia senza esserlo davvero (cioè con i doveri corrispondenti, come nel caso della provvisorietà di una “coppia di fatto” o nell’impossibilità di generare figli in una coppia omosessuale) o al presunto diritto ad avere un figlio (a ogni costo, sia con ogni tipo di procreazione artificiale, sia adottandoli da parte di coppie omosessuali), senza pensare assolutamente ai diritti (questi sì sono reali!) del figlio. Si potrebbe anche pensare a quell’indebita estensione del diritto all’informazione, che diventa assai spesso calunnia, diffamazione o anche semplicemente occasione di scandalo o di inutile e nociva divulgazione del male (peraltro con grave pericolo di emulazione).
6.5. Sul male (sociale)
Senza una verità oggettiva e universalmente riconoscibile diventa impossibile ovviamente anche stabilire cosa sia bene e male (morale). Oggi si predica continuamente che tutto è soggettivo; però tutti si scandalizzano continuamente e sono molto inquietati sul male che ogni giorno riempie la nostra società e il mondo (e i giornali). Allora: c’è il male oggettivo? O quello che è male per uno potrebbe essere un bene per un altro? Come allora poter fare delle leggi che obblighino chiunque a rispettare certi beni ed evitare certi mali? è evidente che si deve fare riferimento ad una verità oggettiva.
La modernità ha anche un altro equivoco sul male, dovuto al fatto che misconosce quello che la fede cristiana sa, cioè il “peccato originale”: che cioè l’uomo è buono, perché è creatura di Dio e fatto a Sua immagine, ma è anche non solo capace di male, ma con una ferita nella sua natura che lo rende particolarmente debole e incline al male. Gran parte del pensiero moderno (persino della pedagogia moderna, si pensi all’Émile ou de l’éducation di Rousseau) è dentro questo equivoco, ma si deve contraddire continuamente: secondo questo pensiero l’uomo sarebbe naturalmente buono e sarebbe la società a condizionarlo e a fargli fare il male. Anche se è vero che tutte le nostre relazioni possono aiutarci nella via del bene ma anche nella via del male (da cui la necessità, specie da giovani, di avere buoni amici), tale equivoco è evidentemente contraddittorio, perché se tutti fossero buoni, anche la società, essendo fatta di uomini buoni, sarebbe buona, senza ombra di male. In realtà l’uomo è anche capace di male. Persino anche quando sa cos’è il bene!
Ecco perché occorre appunto un’educazione, per allenare la persona a crescere nel bene (virtù) e a vincere il male (vizio); ma essa diventa impossibile se non si sa più cosa sia bene e male (oggettivi). Anche la società, lo Stato e perfino un ordine internazionale (si pensi alla Dichiarazione universale dei diritti umani redatta dall’ONU nel 1948, cioè proprio dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale!), non può che basarsi su una concezione oggettiva del bene e del male, perché si devono comunque garantire dei beni e respingere dei mali (con leggi appropriate e pene corrispondenti per chi le contravviene), anche se qualcuno (singolo, gruppo o Nazione) non fosse d’accordo o fosse inclinato e disposto a fare del male.
6.6. Sulla tolleranza (come sinonimo di relativismo etico)
Il fondo relativista, scettico, per non dire nichilista, della cultura oggi sempre più dominante, genera degli equivoci anche sulle parole buone di cui oggi ci si riempie la bocca, senza accorgersi che tali equivoci possono arrecare anche gravi danni morali e sociali. Una di queste parole buone oggi di moda ma equivoche, e persino pericolose se non ben comprese, è la parola “tolleranza” (termine peraltro assai più riduttivo rispetto a “rispetto”, per non dire ad “amore”).
Vista infatti l’indubitabile presenza del male, è evidente che non è possibile tollerare tutto e non possiamo permettere a nessuno la libertà di fare qualsiasi cosa. La tolleranza del male può renderne persino corresponsabili! Ma dentro un’ottica relativista chi potrebbe assumersi il diritto di non tollerare quel male e di limitare la libertà di quella persona che vuole farlo, se non ci fosse una morale oggettiva, se la verità non esistesse o non fosse davvero conoscibile? Uno (singolo o Stato) potrebbe sempre rispondere che ciò è male per te ma non per me! Come si vede, ritorna sempre il problema di cosa sia davvero bene e male, se sia oggettivo, se si possa conoscere e come.
6.7. Sulla (presunta) neutralità
Poiché pensiamo e non possiamo non pensare, così come facciamo delle scelte e non possiamo non scegliere (il non voler formarsi delle idee giuste è già un’idea sbagliata e il non scegliere è già una scelta sbagliata, perché significa lasciarsi liberamente trascinare da altri o dalle semplici passioni), formiamo in noi comunque delle idee che riteniamo giuste e ne rifiutiamo altre che riteniamo sbagliate, così come facciamo inevitabilmente delle scelte in base a ciò che riteniamo sia comunque la nostra felicità. Per questa impossibilità di non avere idee e di non scegliere, la neutralità è impossibile. E questo non è una condanna ma un bene. Dobbiamo però continuamente essere provocati per verificare se le nostre idee e le nostre scelte siano effettivamente giuste. Dobbiamo infatti cercare e vivere il bene oggettivo.
Anche a livello politico, se non prendessimo alcuna decisione sarebbe anche questa una decisione; e non scegliendo nulla (ad esempio con l’astensionismo alle votazioni) in fondo facciamo scegliere agli altri, lasciando cioè agli altri di decidere cosa sia bene (e che lo decidano per tutti, compreso me e la mia famiglia); ma anche questa è una scelta, quella più rinunciataria ma non certo neutrale.
Questo non significa che allora ciascuno è “di parte”. Chi pensa così è già dentro l’equivoco relativista e scettico che pensa non si possa mai conoscere il vero ma solo avere opinioni soggettive.
Per questo uno Stato, pur dovendo costituirsi anche su un vero diritto naturale (e ultimamente su una morale oggettiva), non può e non deve avere alcuna pretesa né di essere neutrale (cosa impossibile oltre che inutile per la costruzione della società) né di essere la sorgente del diritto e della morale (lo Stato non è Dio). Lo Stato deve garantire che le diverse identità presenti nella società possano liberamente esprimersi, svilupparsi, confrontarsi e costruire così la “casa comune”.
Questo principio vale anche per la scuola, che non deve essere “statalista”: come vedremo, lo Stato deve garantire la libertà di educazione, i cui orientamenti devono essere scelti liberamente dalla famiglia e non imposti dallo Stato. E questo proprio perché la scuola non può e non deve essere neutrale (vuota di criteri e di contenuti, cosa appunto peraltro impossibile) ma neppure che sia lo stato a stabilire i principi, i valori e gli orientamenti educativi.
Dunque ognuno, con le decisioni che prende nella vita, rivela una propria morale; potremmo dire persino una propria “dottrina sociale” (tanto è vero che quando sceglie e legge un giornale o ascolta un telegiornale continua a dire questo “è giusto” o questo “non è giusto”, cioè è bene o è male).
Il problema è se razionalmente si è in grado di giustificare perché si dice questo, perché si hanno quelle idee, perché si pensa che siano giuste, perché si dovrebbero prendere quelle decisioni e perché si pensa che sarebbe giusto. Si dovremmo fare tutti lo sforzo di mostrare la ragionevolezza e la bontà della propria dottrina sociale, cioè del proprio pensiero. La fiducia nella ragione rende possibile una vera ricerca e un possibile dialogo, per verificare continuamente e confrontarsi in profondità sulla verità o meno della propria posizione (idee e scelte). Si tratta cioè del dovere di verificare se la propria dottrina soggettiva (opinione) sia davvero corrispondente a quella oggettiva (verità). Su questo e solo su questo può e deve vertere anche l’autentico dialogo (tra persone ragionevoli, indipendentemente dal proprio credo religioso o politico) e il vero confronto in vista della costruzione del bene comune.
Ed è proprio per questo che la “Dottrina sociale della Chiesa” è buona e condivisibile da tutti, perché non solo ha una base sicura che viene da Dio stesso (Rivelazione), ma ha anche una ragionevolezza in grado di mostrare la sua verità a chiunque.
6.8. Sulla laicità (intesa come ateismo o nichilismo)
All’interno del relativismo, cioè della perdita dell’idea stessa di verità e della sua conoscibilità, ciascuno sembra goda del diritto di dire tutto e il contrario di tutto, così come di poter fare quello che vuole. In realtà l’eterna contraddizione del relativismo è che non relativizza se stesso, così che non può di fatto tollerare chi non è d’accordo con esso. In qualsiasi caso cessa di essere davvero relativista (a meno che non taccia): o accetta che ci sia una verità (e non è più relativista) o accetta solo se stesso come verità (e diventa “dittatura del relativismo”; e quindi non è più relativista).
Questo si evidenzia ad esempio nel grande attacco che il relativismo occidentale sta sferrando contro la Chiesa Cattolica, perché in fondo sembra rimasta l’unica a poterlo contraddire, mostrando appunto che esso non è affatto relativista e tollerante come dice di essere!
Il relativismo accetta tutto, ma non accetta infatti di essere contraddetto.
Su questo sfondo culturale (relativista e quindi tendenzialmente nichilista) dobbiamo intendere anche molti attuali equivoci sulla “laicità dello Stato”.
Se per “laicità” – termine peraltro cristiano, perché per sé “laico” significa fedele cristiano non appartenente al clero o ad ordini religiosi – si intende che nessuna fede religiosa debba essere imposta per legge (sarebbe fondamentalismo religioso) essa è giusta e tra l’altro è una conseguenza proprio del cristianesimo.
Se invece per “laicità” si intende che lo Stato nega qualsiasi fede religiosa, o ne impedisce la propria manifestazione pubblica e la propria incidenza anche sulle scelte sociali (la “libertà religiosa” è infatti molto più ampia della semplice “libertà di culto”!), allora non sarebbe più una vera laicità, né sarebbe una sorta di neutralità, ma si trasformerebbe di fatto in una scelta “atea” (che non è una non-scelta, ma una scelta ben precisa, e la peggiore di tutte!), pretendendo in fondo di sostituirsi a Dio e di obbligare al “relativismo etico” (appunto la dittatura del relativismo!) e persino al nichilismo.
La vera “laicità” non è né ateismo, né relativismo etico, né tanto meno nichilismo; ma rispetto e promozione di ogni identità culturale e religiosa presente nella società, con particolare attenzione a ciò che costituisce il patrimonio culturale e religioso della propria civiltà, cioè delle proprie radici e fondamenta.
Fin dall’inizio, persino nelle persecuzioni, i cristiani sono sempre stati ottimi cittadini e nessuno poteva accusarli di disonestà nei confronti dello Stato (anzi, la loro condotta era di esempio a tutti) e pregano anche per chi è al potere; ma quando il potere statale (imperatore od altro) pretende di essere Dio e giunge persino non a tollerare il male morale ma a pretenderlo (ad esempio di sostituirsi a Dio), allora i cristiani hanno preferito piuttosto il martirio, cioè essere uccisi, piuttosto di sottomettersi (secondo il noto principio, espresso significativamente da S. Pietro fin dall’inizio, che “dobbiamo obbedire a Dio e non agli uomini”, cfr. At 4,19 e 5,29). E questo in fondo “relativizzare” il potere umano è ciò che indispettisce di più il potere, specie quando vuole sentirsi autorizzato a decidere autonomamente cosa sia bene e cosa sia male, sostituendosi cioè a Dio.
Spesso si porta a pretesto per questa visione distorta della “laicità” il fatto che viviamo ormai in una società multietnica e multi religiosa e quindi più che mai lo Stato deve essere indipendente da qualsiasi religione.
Potremmo però osservare che secondo una logica perversa, che purtroppo è diffusa nel mondo (ed ha un sapore perfino “diabolico”), quando i cristiani sono “minoranza” non potrebbero parlare e contribuire (anche politicamente) alla costruzione della società proprio perché minoranza; e quando sono maggioranza non dovrebbero ugualmente farlo, per rispetto delle minoranze.
E’ il caso di chi sostiene addirittura, perfino nelle scuole, che non dovremmo più parlare del Natale o della Pasqua di Gesù [poi magari si è costretti a fare la festa di Halloween!], e nemmeno appendere Crocifissi nei luoghi pubblici, per rispetto dei musulmani presenti (che in realtà non sono affatto emarginati o indignati per questo); mentre in molti paesi islamici (ad esempio in Arabia Saudita) è proibito perfino pregare e meditare la Bibbia anche in casa propria!
Anche in questo caso, oltre a confondere la laicità con l’ateismo o la nullità (ma l’assenza ogni riferimento religioso non è una non-scelta ma una terribile scelta di parte!), non si tiene conto di come comunque la civiltà occidentale, europea e italiana in particolare, è talmente intrisa di cristianesimo, che sarebbe ridicolo pensare di sopprimere di conseguenza tutti i riferimenti cristiani comunque in essa presenti
Se, per coerenza con questa idea assurda di laicità, volessimo allora eliminare tutti i riferimenti cristiani presenti nella nostra cultura, non dovremmo far studiare ad esempio gran parte della storia dell’arte, della musica, della letteratura, per non parlare dei riferimenti a Dio, alla Madonna ed ai Santi non solo nel calendario e nelle tradizioni popolari tuttora esistenti, ma anche dalla toponomastica (nonostante il grande sforzo risorgimentale di mutare anche la toponomastica cristiana, i riferimenti sono rimasti innumerevoli, basta prendere un elenco dei nomi dei Comuni e dei paesi d’Italia dedicati ad essi), ai nomi stessi di persona, fino ai Crocifissi che in genere sorgono sulla cime delle montagne più importanti.
Una vera laicità, se non obbliga evidentemente i cittadini ad alcuna religione, tanto meno obbliga alcuna religione a rinchiudersi nell’ambito della sola coscienza e del privato. Non censura poi il fatto che ogni società e persino civiltà ha una propria religione fondamentale (il cristianesimo in Europa e nel mondo occidentale) che ne ha plasmato le fondamenta e ne può orientare anche il futuro.
Nel rispetto di ogni religione e nella consapevolezza della possibilità di un vero dialogo (interculturale e anche interreligioso) con chiunque, uno Stato è in grado di accogliere e di non discriminare nessuno, tanto meno ovviamente la religione cui appartiene la maggior parte dei suoi componenti (che in Europa, in America e ora anche in Africa è appunto il cristianesimo). Semmai lo Stato deve essere preoccupato e garantire che le scelte religiose non creino disordine sociale. In questo senso, pur riconoscendo la libertà religiosa di tutti, uno Stato deve essere anche molto cauto nell’accogliere convinzioni religiose (anche atee) da cui conseguano stravolgimenti anche nel campo del diritto e quindi dei fondamenti sociali: basterebbe pensare al diritto matrimoniale (per chi mantiene ad esempio la poligamia, come nel caso dei musulmani, o chi nega valore alla stabilità matrimoniale, come per molti atei), alla distribuzione delle feste (è impraticabile ad esempio una organizzazione della società o del lavoro in cui ad esempio i musulmani facciano festa il venerdì, gli ebrei il sabato e i cristiani la domenica; oppure che non si faccia più nessuna festa, per esigenze di mercato, perché anche questo è un abuso di potere).
In Italia permangono poi spesso altri particolari equivoci “laicisti”. Da un lato permane una visione molto clericale della Chiesa (così che quando si parla di Chiesa ci si riferisce non a cittadini italiani cattolici ma solo al Papa, ai Cardinali o Vescovi) [ad esempio: Avvenire è il “quotidiano dei Vescovi” e non dei “cattolici italiani”; il pensiero della Chiesa (certamente guidata dal Magistero per interpretare l’autentica volontà di Dio, e quindi non come opinione particolare e variabile!) non è la posizione dei “cittadini italiani che sono cattolici” ma quella del tal Vescovo o Cardinale o del Vaticano!]. Dall’altro ci si ostina a permane in una visione risorgimentale, secondo cui Chiesa e Stato sarebbero come di due Enti, totalmente separati se non addirittura contrapposti, magari confondendo Chiesa e Vaticano (questo sì è uno Stato indipendente). In realtà la Chiesa è l’insieme dei credenti in Cristo, cioè i cristiani cattolici, i quali sono però a pieno titolo anche cittadini dello Stato ed hanno – come tutti – il diritto di parola, di fare le proprie scelte liberamente e di essere rispettati). Tra l’altro tuttora, almeno anagraficamente, i cattolici (battezzati)sono il 94% della popolazione italiana, per cui quando si pensa a Chiesa e Stato in Italia si dovrebbe ricordare che il 94% dei cittadini italiani (e quindi della società italiana) “sono Chiesa” (e se lo Stato riconosce dei diritti alla Chiesa non concede dei privilegi, ma compie solo il proprio dovere “democratico”, perché lo Stato non è al di sopra dei cittadini, della società e della Nazione, ma al loro servizio).
Concludendo, la censura sulla questione della verità (e sulla possibilità della ragione di conoscerla), rende impossibile costruire non solo la vita personale ma anche quella sociale, che non può costruirsi se non su valori condivisi (e non certo solo per motivi economici o per strategie politiche).
Una società che voglia essere tale, e non un’accozzaglia di libertà e di interessi privati, non può che costruirsi su valori condivisi. Questo vale dalla famiglia, all’amicizia, dai gruppi sociali fino alla Patria e addirittura alla comunità globale. Se perdiamo la consapevolezza che esistano valori (beni) condivisibili, non per un accordo estemporaneo ma inscritti nella nostra stessa natura, non possiamo costruire nessuna vera società. Finirebbe per essere una giungla, dove vige la legge del più forte (economicamente, politicamente) di turno.
Fatta un po’ di chiarezza sulla questione di fondo dell’organizzazione della vita sociale e sugli equivoci di moda che la rendono però impossibile, ecco che si capisce come normale e decisivo che i cristiani si muovano nella società secondo la “dottrina sociale della Chiesa”, che la conoscano, la diffondano e in base ad essa compiano le loro scelte, condivisibili anche da chi cristiano (purtroppo) non è.
Una “casa comune” non può che essere costruita su valori condivisi
7. Come riconoscere e condividere i veri valori?
Dopo aver sottolineato come il relativismo renda di fatto impossibile la costruzione di una società, perché essa è possibile solo nella condivisione di alcuni valori fondamentali, ci chiediamo allora come poter riconoscere e condivide tali valori, anche tra persone di diversa mentalità, cultura e religione.
Abbiamo già osservato che anche chi predica continuamente e falsamente che tutto è relativo (relativismo) e che ciascuno può farsi il bene e il male a piacimento – la verità e il bene sarebbero cioè solo soggettivi e sempre provvisori – poi di fatto si inquieta di fronte a molti mali che vede quotidianamente nella società e non dice più “ma per lui o per loro forse è bene”.
I valori (come la verità) infatti non si costruiscono, non si inventano, ma si riconoscono. Tanto meno possono essere calati dall’alto, dal potere politico, fosse pure quello di una provvisoria maggioranza parlamentare. Essi sono infatti inscritti nella nostra stessa natura.
7.1 – La coscienza può riconoscere i veri valori?
In effetti la nostra coscienza avverte quasi spontaneamente la presenza di certi valori, cioè di beni irrinunciabili e non trascurabili dalla libertà di nessuno.
Se non vogliamo mentire a noi stessi, dobbiamo in effetti riconoscere – lo fa anche un bambino e lo coglie anche il buon senso – che ad esempio “rubare” è male (anche se fosse conveniente e anche se tutti lo facessero) e l’onestà è bene, che la pace è meglio della violenza e della guerra (a cominciare dall’amore in casa, che è meglio dei litigi e della disunione), che la sincerità è meglio della menzogna, che fare bene il proprio lavoro è meglio (per sé e per gli altri) che trascurarlo, ecc.
Come possiamo vedere anche da questi semplici esempi, la nostra coscienza avverte queste verità (beni, valori) e capisce che non dipendono da quanti le riconoscono, da chi le afferma, da una maggioranza, o dalla situazione “di fatto”, ma sono in fondo inscritti nella nostra stessa natura, che in fondo già ci avverte che cos’è bene e ci spinge a farlo, anche se fosse costoso.
Potremmo osservare in proposito anche un altro fondamentale fenomeno interiore dell’uomo, che è molto più indicativo di quel che possa superficialmente sembrare: il rimorso di coscienza. Infatti, nonostante tutto quello che potrebbe ridurlo (una falsa educazione ricevuta, i condizionamenti sociali, l’essersi abituati al male con il vizio) in noi stessi avvertiamo come la coscienza in fondo ci disapprovi se compiamo il male. E’ in fondo già una voce di Dio nella nostra coscienza, che ci approva e proviamo soddisfazione se compiamo il bene e ci disapprova e ci oscura l’anima se compiamo il male. Per questo molti che sono nel male hanno paura della loro stessa coscienza: hanno infatti paura di stare da soli e in silenzio, perché emergerebbe appunto più chiaramente quella voce e quel rimorso.
Un’altra luce per comprendere il male ci viene dalla maggiore chiarezza che normalmente abbiamo quando lo vediamo compiuto dagli altri. Infatti vediamo spesso come anche chi si mostra indifferente al male quando è egli stesso a farlo, e giunge talora persino a teorizzarlo e predicarlo, poi di fatto è molto contrariato quando sono gli altri a farlo, specie se lo fanno contro di lui.
Per questo Gesù ci dà anche questa “regola aurea” per distinguere il bene dal male: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12) e ci fa osservare come siamo molto più capaci di individuare il male negli altri piuttosto che in noi stessi (vediamo “la pagliuzza” nell’occhio dell’altro e magari non ci accorgiamo della “trave” che è nel nostro, v. Mt 7,3-4).
Certo la coscienza può essere oscurata dalle passioni, dagli egoismi, dall’abitudine al male, da una errata educazione; e quindi occorre prestare la massima attenzione – sia personalmente ma anche socialmente – a ciò che può inquinare le coscienze, specie oggi, che ci troviamo quotidianamente bombardati dalle comunicazioni di massa e si giunge a chiamare bene il male e male il bene (il che è proprio la massima perversione della coscienza).
Potremmo osservare come in passato (ad esempio nel Medioevo), si poneva particolare attenzione non solo a reprimere i crimini, ma ancor più ad evitare che certe false idee potessero talmente inquinare le coscienze da portare poi molti a commettere dei crimini o comunque ciò che danneggia il vero bene proprio e altrui. Certo qui si pone la grande questione di garantire da un lato la libertà di coscienza e dall’altro di impedire che il male si annidi talmente nelle coscienze, a motivo anche di idee sbagliate, da provocare poi anche di fatto innumerevoli mali. Come si vede, ritorna la questione dei limiti della tolleranza e della libertà. Il relativismo, ripetiamolo, non capisce assolutamente il fondo di questa questione e diventa per questo incapace di garantire anche socialmente l’autentico bene (se è tutto relativo e soggettivo, nessuno ha più il diritto di impedire che ciascuno possa fare quello che vuole o di punire chi attenta al vero bene).
Si capisce qui l’importanza decisiva della questione educativa. A cominciare dalla famiglia e dalla prioritaria responsabilità educativa dei genitori, dalla scuola (da cui il conseguente e fondamentale diritto, della famiglia, alla “libertà di educazione”), ma anche dagli strumenti di comunicazione di massa (radio, televisione, stampa, internet) e fino alle stesse leggi statali (che hanno anche una valenza pedagogica, perché se un bene è garantito anche dallo Stato e un male è punito anche dallo Stato, è più facile che il cittadino avverta più facilmente cosa sia bene e male, anche se non è lo Stato a stabilirlo o inventarlo). Si capisce che qui si gioca la questione di fondo della società e del suo futuro. Una democrazia in cui tutto è permesso, con il pretesto che non si può limitare la libertà altrui, e ogni falsità e malvagità può essere propagandata, con il pretesto della libertà di informazione, si condanna alla propria progressiva autodistruzione.
7.2 – L’esperienza, la storia e la tradizione aiutano a scoprire i veri valori?
Potremmo poi notare che anche l’esperienza (propria e altrui) può aiutarci molto a riconoscere cosa sia bene e male e quindi anche gli autentici valori su cui costruire la società. Al di là infatti di ciò che immediatamente potremmo capire, così che falsi beni potrebbero attirarci e farci sbagliare, il tempo viene spesso a dimostrare se le nostre scelte siano state davvero giuste o sbagliate. Ecco perché si può imparare persino dal male, ovviamente per non ripeterlo. Abbiamo imparato, come si suole dire, “battendoci di naso”. Questo però non significa che dobbiamo per forza fare esperienza per capire il bene e il male. Sarebbe tragico non potere prevedere il male in anticipo.
Potremmo osservare come, specie nelle società antiche, l’anziano fosse per questo un punto di riferimento. Alcune cose le aveva capite infatti se non altro per la lunga esperienza di vita. Ecco perché alcuni responsabili della vita pubblica si chiamavano e si chiamano “senatori” (cioè anziani), così come nella Chiesa il responsabile della piccola comunità si chiama “presbitero”(in genere abbreviato con “prete”, che significa appunto anziano).
Per questo stesso motivo si deve anche conoscere la storia, a cominciare da quella della propria terra, cultura e civiltà. Non si tratta di mera erudizione sui fatti del passato, ma di trarre insegnamento dal passato per progettare anche la vita futura di un popolo e dell’intera umanità, cercando di far crescere le esperienze di bene, che si sono dimostrate davvero feconde per l’umanità) e per non ripetere possibilmente mai più le esperienze di male.
Per questo motivo facciamo studiare la storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado, cioè alle nuove generazioni di uno Stato; e per questo è decisivo che non si dicano menzogne anche sulla storia, ma si sottolinei proprio la ricerca e la scoperta, anche attraverso la storia, dell’autentico bene.
Potremmo osservare in proposito anche l’importanza della tradizione, cioè di quel patrimonio di valori su cui per secoli si è costruita la propria civiltà. Con ciò non è detto che non si possano ridiscutere certi valori che hanno costruito un bene sociale e talora persino una civiltà; ma lo stesso buon senso dovrebbe spingere ad essere immensamente cauti prima di rifiutarli, magari per inseguire progetti ideologici astratti, come la storia di questi tre secoli ha purtroppo testimoniato.
Non a caso le ideologie illuministe e le “rivoluzioni” che ne sono nate hanno voluto tagliare tutti i ponti col passato, con la tradizione, con la pretesa di iniziare il “mondo nuovo” daccapo e che il loro progetto politico avrebbe procurato sicuramente questo presunto bene comune, perfino un paradiso in terra (così ad esempio nel socialismo-comunismo; ma già nella rivoluzione francese). Ne è sempre seguito un inferno! E l’ideologia è spesso così ottusa che anche quando è smentita dalla realtà, dai fatti, è la realtà che deve essere cancellata e censurata e non l’ideologia che deve essere ripensata e abbandonata.
Anche per questo le esperienze sociali, che talora crescono su valori millenari che hanno plasmato un’intera civiltà, hanno la preminenza sullo Stato e sugli stessi organismi e programmi politici.
Non è lo Stato che decide i valori; lo Stato può solo riconoscerli e promuoverli, specie quando nella società essi hanno generato una cultura di base e persino un’intera civiltà, con l’esperienza di secoli.
Ecco perché lo Stato non può e non deve avere la pretesa di stabilire i valori, né di imporre una propria ideologia. Per questo motivo non deve essere il grande “educatore” (come lo è invece nella ideologia comunista), né deve avere il monopolio della scuola o stabilire dall’alto i valori che devono essere insegnati.
7.3 – La ragione può scoprire i valori e pure convincere altri a riconoscerli?
E’ decisivo riconoscere come la ragione, nonostante i possibili errori, sia comunque in grado di riconoscere certi valori, di coglierne la ragionevolezza (verità), prevederne o riconoscerne le conseguenze, e possa allo stesso tempo convincere (chiunque sia in grado di seguire e comprendere un retto ragionamento) della loro esistenza e verità.
Non deve essere una ragione astratta, ideologica, con atteggiamenti o chiusure aprioristici (come purtroppo è gran parte della ragione filosofica moderna), ma una ragione vera, autentica, umile, che sia davvero aperta alla verità, che muova dalla realtà e ne colga appunto le ragioni profonde.
Senza questo ottimismo e apertura della ragione è in fondo impossibile cercare, conoscere e tendere verso un autentico bene comune da realizzare nella società.
Fede e ragione
Qui si innesta una questione decisiva perché i valori cristiani siano proponibili a chiunque e condivisibili anche da chi non è cristiano, ma come uomo possiede la ragione e la sappia e voglia usare. La fede, infatti, essendo “assenso intelligente a ciò che Dio ha rivelato” (e Dio non si sbaglia), permette certamente di conoscere la verità in modo più chiaro ed elevato. Dio ci ha infatti rivelato non una morale per alcuni, ma la verità stessa e più profonda dell’umano, cioè com’è la natura umana e cosa dobbiamo scegliere e fare per conseguire il nostro autentico bene. Ma essa è anche ragionevole; e come tale è pure convincente. Permette così di “dialogare” con chiunque: non nel senso di andare d’accordo con chiunque e tanto meno di scendere a compromessi con il male, ma di mostrare come molti suoi contenuti possano essere scoperti e condivisi anche da chi non ha purtroppo ancora questa luce soprannaturale (la fede), ma ha ugualmente la stessa natura umana e la stessa ragione per poter capire.
Se riprendiamo anche solo i semplici esempi che abbiamo riportato all’inizio di questo punto, cioè quei valori che la coscienza e il buon senso (tanto più quindi la ragione) quasi spontaneamente avvertono, noi vediamo che essi riprendono infatti molti di quei contenuti che troviamo ad esempio nel “Decalogo”, cioè nei <10 Comandamenti> che Dio aveva già dettato nell’Antico Testamento (XIII sec. a.C.) e che Gesù stesso conferma e perfeziona.
Ebbene, la “Dottrina Sociale cristiana” si muove proprio da questa fondata consapevolezza: la fede cristiana permette di conoscere assai meglio quale sia il vero bene dell’uomo, a cominciare dal senso ultimo della vita (che ci si è pienamente mostrato in Cristo: siamo fatti per Lui e per la vita eterna con Lui), ed anche il significato (bene) di tutte le cose. Ma molti di questi fondamentali valori sono comprensibili anche per via razionale, e cioè anche coloro che non condividono ancora la fede cristiana hanno lo strumento comune (la ragione appunto) per poterli scoprire, per poterli condividere e per costruire su di essi e insieme la vera “casa comune”, la societas. La Dottrina Sociale della Chiesa verte appunto su questi principi e valori, li spiega, ragionevolmente li propone per tutti, come il bene di tutti (e non solo dei cristiani), e alla luce di essi cerca di affrontare e risolvere anche le sempre nuove problematiche che il cammino storico dell’umanità incontra (talora proprio a motivo di false valori, di false ideologie).
8. Esistono valori irrinunciabili, indispensabili per la costruzione di una vera società, e su cui specialmente un cristiano non può mai scendere a compromessi?
Da quanto abbiamo fin qui osservato, emerge che non si possa costruire una società se non su valori condivisi e quindi senza una chiara idea di cosa sia l’uomo (antropologia), di quale sia il bene da perseguire (morale), e quale bene comune debba essere garantito anche per legge (diritto).
Se cioè va garantita la libertà di coscienza, va però perseguito anche l’autentico bene.
Sulla possibilità di capire “insieme” quale sia l’autentico bene da perseguire, abbiamo visto appena sopra alcuni strumenti essenziali che abbiamo (la coscienza, l’esperienza, la ragione e, per chi è cristiano, la fede).
Il campo del diritto, cioè quello delle leggi statali che tutti devono osservare, anche se non può prescindere totalmente da quello della morale, non coincide esattamente con esso: infatti non tutto il bene che l’uomo deve fare deve essere obbligatorio anche per legge dello Stato e non tutto il male che l’uomo deve evitare deve essere anche vietato per legge dello Stato.
Rimane quindi il problema di dove porre questo limite, cioè di quali beni devono comunque essere garantiti anche dallo Stato e dai quali mali dobbiamo comunque essere difesi anche dallo Stato.
Su molte questioni potremmo dire che tale limite deve sempre essere di nuovo discusso, non perché la morale e conseguentemente il diritto debbano inseguire semplicemente i tempi e continuamente mutare (avevamo osservato infatti che certi principi sono garantiti ad esempio da una Costituzione e non cambiano ad ogni votazione politica o ad ogni maggioranza di governo), ma perché nelle situazioni concrete si deve sempre vedere di nuovo come attuare certi beni e come evitare certi mali. In questo senso talora si è costretti anche a scendere a compromessi e talora certi beni possono essere attuati progressivamente e non immediatamente, così come certi mali possano essere provvisoriamente tollerati, possibilmente in vista della loro eliminazione.
Ci sono però dei beni e dei mali così fondamentali – che l’uomo può scoprire e che la fede maggiormente illumina e ne approfondisce la consapevolezza – su cui non è possibile scendere a compromessi, pena appunto la perdita di valori essenziali senza i quali una società si disgrega e potrebbe anche distruggersi. Qui il limite alla tolleranza del male dovrebbe essere chiaro.
Da parte dei cristiani tali beni irrinunciabili da garantire e tali mali da dover comunque essere evitati sono chiari e su questo non è possibile transigere, almeno per quel che spetta a loro. Sono quei valori che di recente sono stati autorevolmente indicati (dal Papa Benedetto XVI) appunto come “valori non negoziabili”.
Nessun cristiano cattolico può rinunciarvi (ne risponderebbe moralmente anche di fronte a Dio) e nessun politico che si presenta come “cattolico” (o che vuole i voti dei cattolici) può su questo scendere a compromessi.
Tali valori fondamentali da promuovere anche per legge e su cui un cattolico (ed ogni uomo di buona volontà) non può negoziare, cioè non può transigere, per il bene stesso della società intera, sono fondamentalmente questi:
1) il rispetto della vita (dal concepimento alla morte naturale);
2) la difesa e promozione della famiglia (fondata sul matrimonio stabile tra un uomo e una donna);
3) la libertà religiosa (non solo di culto ma anche come esperienza e capacità di proposta sociale; è un diritto fondamentale dell’uomo, legato a quello della libertà di coscienza);
4) la libertà di educazione (reale e senza discriminazioni strutturali o economiche e i cui contenuti fondamentali devono essere stabiliti dalla famiglia e non dallo Stato).
Tali valori non sono certi gli unici, basti ad esempio pensare al valore della solidarietà, ma senza di essi non si costruisce un autentico “bene comune”, per l’intera società.
Abbiamo già detto che questo non è fondamentalismo religioso: nessun cattolico si sogna di imporre la propria fede religiosa (anche se è vera), neanche fossero il 99% della società o di un Parlamento, e neppure di obbligare per legge a perseguire tutto il bene (come ad esempio la legge suprema dell’amore, che Dio peraltro ha dato a tutti gli uomini e di cui tutti dovranno rendere conto a Lui, con conseguenze eterne); ma di garantire alcuni beni fondamentali e irrinunciabili per la vita stessa della società e del suo autentico progresso, così come di impedire alcuni mali (non tutti i peccati, nessuno se l’è mai sognato di farlo) che se fossero ammessi si deteriorerebbe gravemente e persino si annienterebbe la stessa società civile.
Del resto, chi si ostina a non voler capire e accusa continuamente la Chiesa di imporre la propria visione a tutti, non si accorge che sta facendo un “fondamentalismo laicista”, dove cioè diventa obbligatorio il relativismo etico.
8.1 – E’ giusto dire “io la penso così, ma non posso obbligare gli altri a fare così”?
Sono purtroppo molti i cattolici che entrano in questo equivoco, che è anche una trappola per eliminare il criterio di giudizio cristiano dalla società. In realtà, specie quando tale obiezione è posta persino su valori fondamentali e irrinunciabili, pensare così è un grave errore!
Anzitutto questa posizione è in fondo già inficiata di relativismo: come dire, io penso che questi siano valori fondamentali ma in fondo è solo la mia opinione e non la verità e il bene di tutti! Inoltre ci si dimentica che ogni legge dello Stato è fatta non per quelli che sono già convinti di quel bene (che lo attuerebbero lo stesso anche se non ci fosse alcun obbligo o divieto della legge dello Stato), ma proprio per quelli che non ne sono convinti e farebbero quel male o distruggerebbero quel bene se non fossero obbligati dallo Stato a rispettare quel bene o vietare quel male.
Nessuno dice infatti “io penso che sia male uccidere una persona, ma non posso obbligare gli altri a non uccidere”; perché allora lo facciamo invece, ad esempio, a riguardo all’aborto, che è oggettivamente, anche biologicamente, l’uccisione di una persona innocente?
Se non vogliamo ridurre il rispetto di ogni opinione alla tolleranza di tutto e la stessa democrazia ad anarchia, ci accorgiamo che dobbiamo comunque porre dei limiti alla libertà. Ma questo limite non può e non deve essere inventato dallo Stato, ma riconosciuto dallo Stato per garantire l’autentico bene dell’uomo e l’autentico bene comune.
Quello dunque che potrebbe sembrare rispetto per la libertà dell’altro, in questo caso (cioè su valori fondamentali) diventa grave assenza di amore per l’altro, cioè non impedire che distrugga se stesso e gli altri o non fare tutto quello che possiamo fare (peccato di omissione!) per il vero bene dell’altro.
Questa falsa obiezione è anche una trappola più volte usata dal laicismo per zittire i Cattolici e affermare solo se stesso (laicismo). Questo ha spesso falsato, e tuttora falsa, persino dei risultati di votazioni politiche o referendarie (a cominciare ad esempio dai Referendum sul divorzio del 1974 e quello sull’aborto del 1981): i Cattolici non dicono come la pensano per rispetto a chi la pensa diversamente, mentre chi la pensa diversamente dice esattamente come la pensa!
Non è neppure vero che lo Stato deve regolare solo quei beni che riguardano i rapporti tra i cittadini, ma spesso deve garantire dei beni che sono proprio dei singoli, persino quando gli stessi interessati non ne fossero convinti.
Ad esempio, lo Stato mi obbliga ad un livello minimo di istruzione (scuola dell’obbligo); oppure mi obbliga a mettere la cintura di sicurezza quando guido (o il casco se sono in moto), e mi multa se non lo faccio, anche se il disobbedire a questo non recherebbe danno agli altri ma solo a me stesso.
Il “Regno di Dio”, la Chiesa e il mondo
9. Cosa significa che il “Regno di Dio” è presente, ma dobbiamo continuamente chiedere che “venga” (v. nel “Padre nostro”), e che il Regno di Gesù “non è di questo mondo” (Gv 18,36)?
Tutto ciò che esiste è creato, cioè è opera di Dio, che l’ha tratto dal nulla: è Dio che mantiene nell’essere tutte le cose e le ha regolate secondo le rispettive leggi (che la scienza progressivamente scopre). Tutto è stato fatto in vista dell’uomo; ma l’uomo è stato creato per Dio. E se il “peccato originale” ha rovinato questo progetto, questo disegno universale, con Gesù (Dio-fatto-uomo, morto e risorto per noi, e che ci ha fatto dono dello Spirito Santo) è stato non solo recuperato (Redenzione) ma per l’infinita misericordia di Dio è stato perfino migliorato, così che siamo chiamati a partecipare fin d’ora alla vita divina, vivendo in Cristo e abitati dallo Spirito, per poi godere eternamente di questa comunione divina, della Sua visione beatifica. Dunque Gesù Cristo non è un “optional” per l’uomo, ma è necessario per la sua salvezza. La storia va avanti, in attesa del ritorno glorioso di Cristo quando “verrà a giudicare” tutti, per permettere a tutti di convertirsi a Lui, di conoscere, amare e servire Dio in questa per poi goderLo nell’altra (eternità). L’alternativa è rimanere eternamente privati della vita di Dio, cioè l’Inferno.
La missione fondamentale di Gesù e dello Spirito Santo è proprio quella di condurci alla salvezza eterna. E questa è anche la missione fondamentale della Chiesa.
Il <Regno di Dio> è Gesù stesso (Dio-fatto-uomo), risorto e vivo nella storia e che sarà il giudice universale. La Chiesa, in quanto “Suo corpo mistico”, è già la presenza del Regno; ma non ancora in pienezza, perché il Regno di Dio deve ancora dilatarsi, sia quantitativamente (abbracciare tutti gli uomini, convertendoli a Cristo ed entrando nella Chiesa), sia qualitativamente (nel senso che deve continuare a crescere anche in chi è già “di Cristo” in virtù del Battesimo, ma deve continuamente e sempre più purificarsi dal peccato e crescere in santità).
Per questo Cristo è il Re dell’universo, “vive e regna nei secoli dei secoli”, è già il Regno di Dio in mezzo a noi e in noi battezzati e in comunione con Lui; ma dobbiamo sempre chiedere al Padre – come Gesù stesso ci ha insegnato nel Padre nostro – che “venga il Suo Regno”.
Gesù, nel processo finale di fronte a Pilato, afferma per questo di essere Re; anche se il Suo Regno non è di questo mondo (Gv 18,36). Esso è già presente ma si compirà pienamente nell’Aldilà. Questo però non significa che sia solo un fatto interiore, né che riguardi solo l’altra vita.
[Gesù in realtà si offre volontariamente alla morte e Pilato non avrebbe nessun potere su di Lui se non gli fosse stato dato dall’alto (cfr. Gv 19,11)].
La regalità di Cristo, già preannunciata dai profeti, fa sempre tremare il potere [v. fin dall’inizio, con Erode (cfr. Mt 2,1-19) e alla fine sarà questo il pretesto politico per condannarlo a morte, come recita il capo d’accusa infisso sulla Croce stessa], ma Gesù fa sempre molta attenzione che la Sua messianicità e regalità non sia catturata dentro un progetto semplicemente “politico” [gli zeloti vorrebbero questo e talora anche la folla (cfr. Gv 6,15) ma Gesù sfugge a questa tentazione, che avrebbe falsato e ridotto la Sua missione].
Il Regno di Dio (Gesù) è regno della verità sull’uomo (e quindi della vera pace, del vero amore).
“(Gesù Cristo) assoggettate al Suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita (del Padre) il regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (Prefazio della Solennità di N. S. Gesù Cristo, Re dell’universo).
Gesù risorto afferma che Gli è “è stato dato ogni potere in cielo e in terra” e invia i Suoi discepoli (Chiesa Cattolica) ad evangelizzare tutti gli uomini (“Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole … insegnando loro …” – Mt 28,18-20); fino a quando Dio non sia tutto in tutti (“Bisogna che Egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi […] E quando tutto gli sarà sottomesso, anche Lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”, 1Cor 19,25.28).
Per questo anche i cristiani, che sono partecipi della vita di Cristo, oltre ad annunciare Cristo e convertire il mondo a Lui, sono chiamati ad essere “luce” (illuminare) e “sale” (dare sapore, cioè senso vero) al mondo e alla storia (cfr. Mt 5, 13-15). Anche loro, in certo qual modo sono “nel mondo” ma non sono “del mondo” (Gv 15,19; 17,11.14-16). Sono già partecipi del Regno di Dio e lo dilatano, chiedendolo sempre al Padre. Possono essere anche piccola cosa (come un seme di senapa o il lievito), può esserci anche in loro e tra loro persino ancora il male seminato dal diavolo (la zizzania, cfr. Mt 13,24-33), ma il Regno di Dio è destinato a crescere e a portare la vera vita a tutti gli uomini.
Questo avverrà nell’amore e nel cercare di “convincere” (dando anche le ragioni – cfr. 1Pt 3,15), non certo con la violenza, perché la conversione deve nascere dal cuore.
Fino alla fine del mondo, rimane però operante nella storia anche il Regno del male (“mysterium iniquitatis”), che è in fondo quello di Satana (il “principe di questo mondo”, che pur è vinto definitivamente da Cristo – cfr. Gv 12,31; 14,30; 16,11).
Rimane quindi il problema di come e fino a che punto tollerarlo.
Nella vita personale, pur essendo lecito il diritto alla difesa, si può e si deve giungere perfino a farsi sopraffare dal male altrui (cfr. Lc 6,29), fino al “martirio”, pur di non scendere a compromesso col male (cfr. Rm 12,9) e senza rispondere al male col male.
Ma non fare quanto è possibile fare per impedire al male di fare del male ad altri o all’intera società sarebbe invece errato, colpevole, perfino una cooperazione al male stesso! Ecco perché il cristianesimo si è fatto universale promotore della difesa dei diritti umani fondamentali.
10. Cosa vuol dire Gesù quando afferma “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17)?
Con questa frase Gesù risponde ad una domanda circa il dovere o meno di pagare le tasse ai Romani (ed era una vera trappola per poterlo accusare o di insubordinazione o di sottomissione al potere dei Romani!). Chiedendo di vedere una moneta, manifesta anzitutto la Sua superiorità e distacco da queste cose. La risposta è ardita, ma non sibillina. Essa diventerà un cardine della novità cristiana, che ha plasmato l’intera civiltà occidentale e si è divulgata nel mondo come criterio per un autentico rapporto/distinzione tra potere politico e potere religioso. Quindi è diventato un principio fondamentale della “Dottrina Sociale della Chiesa”.
Una lettura riduttiva di questa affermazione di Gesù è quella che in fondo presuppone che le cose religiose (quelle di Dio) siano appunto o solo trascendenti (l’Aldilà) o solo interiori (lo spirito, la coscienza, l’intimo della persona o al massimo la vita privata). In realtà tutto è di Dio!
Ma con Gesù, e quindi con il cristianesimo, si evidenzia che Dio, poiché ci ha creati a Sua immagine e quindi dotati di intelligenza e libertà, non risponde a tutte le domande e non fa fronte direttamente a tutti i bisogni dell’uomo. In base ai principi che Egli ci ha rivelato e all’uso della ragione che ci ha donato, noi possiamo e dobbiamo anche affrontare e risolvere progressivamente molte questioni relative non solo alla nostra vita personale ma anche sociale.
Cosa dunque è di Dio e dipende da Lui?
Per chi non riduce la religione a un vago ed episodico sentimentalismo religioso, per chi capisce cosa significhi la stessa parola <Dio>, e soprattutto per chi ha conosciuto la Rivelazione di Dio (che trova il suo culmine e la sua pienezza in Cristo, Dio fatto uomo), la risposta è facile: tutto! Sì, tutto dipende da Dio, perché solo Lui è l’Assoluto, il Creatore e il Signore, e “solo Cristo sa cosa c’è nel cuore dell’uomo”*, cioè quale sia il suo vero bene. Gesù Cristo è “il Redentore dell’uomo, il centro del cosmo e della storia” (Giovanni Paolo II, inizio della sua prima Enciclica Redemptor Hominis, 4.03.1979).
*: “Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!” (Giovanni Paolo II, Omelia nella S. Messa di inizio pontificato, 22.10.1978).
Dio è il fondamento dell’ordine morale e quindi anche di quello sociale. Senza di Lui, tutto corre pian piano il pericolo di sgretolarsi (cfr. Mt 7,24-27), di sbriciolarsi nel relativismo (come il nostro tempo dimostra), spingendo la società verso il baratro dell’anarchia, verso una sempre più caotica accozzaglia di libertà, Alla fine a Dio si sostituisce il potere stesso (di un dittatore, dello Stato, dell’economia, della scienza, della maggioranza, della politica); ma al fondo al Regno di Dio si sostituisce il regno di satana.
Questo non significa però che Dio ci riveli tutto, che si sostituisca totalmente a noi, che ci tratti come dei burattini o dei semplici esecutori di leggi già pronte per affrontare qualsiasi situazione o risolvere qualsiasi problema personale e sociale.
Nell’Antico Testamento, la Legge di Dio (Torah) entrava sì in tanti particolari per regolare tutta la vita personale e sociale, anche a livello politico, del diritto civile e penale, dell’economia e persino delle regole sanitarie. In fondo si trattava di una “teocrazia”.
Così è il Corano per la religione musulmana (non a caso già Maometto fu non solo il fondatore della nuova religione, ma anche il condottiero politico e militare che iniziò la sua divulgazione). E ancora oggi vediamo tutta la loro difficoltà a distinguere il potere politico da quello religioso, così che la legge di Dio diventa la legge dello Stato (shari’a).
Ecco perché possiamo dire che c’è anche una “relativa autonomia” delle cose del mondo e della storia. Cosa significa? Se per “autonomia” intendessimo un’autonomia assoluta, come se tutto non avesse il proprio fondamento in Dio Creatore e Signore, sarebbe profondamente sbagliato (perché appunto tutto dipende da Dio). Ma se per autonomia intendessimo che le cose dell’universo e della storia hanno delle leggi loro proprie (che Dio ha loro dato) e che l’uomo anche solo con la sua ragione (ancor più se illuminata dalla fede) può pian piano capire, allora l’autonomia è intesa in modo giusto.
Questo corretto e complesso concetto di “relativa autonomia” delle realtà terrene è bene espresso nel Concilio Ecumenico Vaticano II dalla Costituzione Pastorale Gaudium et spes, al n. 36):
“Molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore […] Se invece con l’espressione «autonomia delle realtà temporali» si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni”.
Questo vale anche per il rapporto tra fede e scienza: dalla Parola di Dio capiamo molto meglio come tutto dipenda da Dio e sia creato da Lui, anche le leggi scientifiche che regolano i fenomeni naturali, ma Dio lascia alla ricerca della nostra intelligenza di scoprire pian piano queste leggi, che sono il riflesso della Sua Sapienza infinita.
Se qualcuno pretendesse di trovare nella Bibbia la spiegazione della forza di gravità sarebbe un ingenuo; se al contrario qualcuno (non certo Newton, che era un fervente credente) dicesse che la forza di gravità non dipende da Dio, come tutto il cosmo, direbbe una falsità tale da non comprendere neppure più perché il cosmo sia appunto un cosmo, cioè un tutto ordinato e regolato da leggi, e non un caos.
Lo stesso vale per il rapporto tra fede e politica, tra fede ed economia, tra morale e diritto.
Dio ci ha insegnato le questioni fondamentali della vita, e alla luce di questi insegnamenti possiamo meglio individuare le risposte e gli obiettivi per costruire anche una società “giusta”, veramente degna dell’uomo. Questi principi fondamentali sono inoltre comprensibili anche dalla ragione, e quindi anche da un non cristiano o ateo (se seriamente in ricerca del vero), e quindi condivisibili anche per costruire insieme la società su solide fondamenta.
Ecco perché il cristianesimo, pur sapendo che in Dio c’è il fondamento e il fine ultimo dell’uomo, non vuole costruire una “teocrazia”, e correttamente distingue la morale cristiana (non imponibile a tutti, anche se è la verità di tutti e ciò di cui tutti hanno davvero bisogno) dal diritto (le leggi dello Stato), senza però lasciare che questo diventi un arbitrario accordarsi di provvisorie maggioranze senza alcun fondamento nella morale (se non altro quella naturale, oggettiva e universale, che anche la ragione di un non credente può scoprire – anche se il credente conosce assai meglio, in quanto ha una ragione e una coscienza illuminata dalla fede, la Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa).
Potremmo dire che proprio in questa visione cristiana sta il fondamento delle “vera laicità”.
Nella storia dell’Occidente (in Europa e in particolare in Italia), la Chiesa Cattolica ha assunto per lunghi periodi anche un compito di “supplenza” a riguardo del potere temporale (specie nello smarrimento generale successivo al crollo dell’Impero, dove l’unico vero punto di riferimento per le popolazioni erano i vescovi e soprattutto il Papa; e così fu per gran parte del cosiddetto Medioevo). Questo ha portato spesso a far coincidere il potere spirituale e quello politico (ad esempio il Vescovo che è anche e il Papa che diventa anche Capo dello Stato Pontificio); ma era in fondo un compito accessorio e secondario della missione della Chiesa, che poteva essere dismesso, come infatti è poi storicamente accaduto. Assai spesso però (potremmo dire dallo “schiaffo di Anagni” a Bonifacio VIII nel 1303; e sempre più dal XVI al XIX secolo) la lotta contro il potere temporale della Chiesa non stava ad indicare il desiderio dei popoli (che spesso, contrariamente a quanto la polemica storica anticristiana tuttora vuol far credere, stavano assai bene e volentieri sotto questa guida anche temporale, cfr. ad esempio nel sito: Dossier < Chiesa e Risorgimento) di distinguere lecitamente tra potere temporale e potere spirituale della Chiesa, ma la prepotenza e pretesa dei nuovi sovrani, cioè dei nuovi poteri politici, non solo di sottrarre territori e incamerare tutti i beni della Chiesa (che peraltro, unico caso nella storia, i popoli avevano ad essa donati), ma sempre più di sostituirsi addirittura a Dio nella voler porsi a fondamento dell’ordine morale, cioè appunto con la pretesa di costruire senza di Lui e persino contro di Lui la nuova società, in realtà per poter poi di fatto sottometterla totalmente (come è ad esempio tragicamente avvenuto con i sistemi atei a dittatoriali del XX secolo, e che oggi si manifesta nella crescente pretesa del più intransigente “laicismo”, cioè appunto nella montante “dittatura del relativismo”, tale da voler perfino porre “fuori legge” la stessa possibilità di riconoscere e affermare le più fondamentali leggi morali universali e di poter dare giudizi morali sugli stessi modelli e stili di vita che vengono proposti).
11. Il cambiamento della società e il vero bene comune possono attuarsi solo con nuove strutture sociali, con nuove politiche o economie?
No, se non cambia il cuore (la coscienza, l’anima) dell’uomo, nessuna struttura sociale, politica, economia o legge può costruire una società buona e giusta.
Gesù ci fa capire molto bene che il male e il bene nascono dal cuore dell’uomo, non dall’esterno (cfr. Mc 7,20-23; Mt 15,17-20). Anche perché, se non si purifica il cuore dell’uomo (fin nelle sue intenzioni), “fatta le legge, trovato l’inganno” , come si sul dire. Se non c’è una formazione religiosa e morale interiore, per far fronte al dilagare del male lo Stato è allora tentato di creare un sistema “poliziesco” violento, una sorta di terrore dove tutti potrebbero diventare la spia di tutti (come era avvenuto nel sistema comunista).
Infatti il cambiamento della vita e del mondo che porta Gesù, e che ha cambiato la civiltà mondiale, è proprio quello che nasce dal “cuore”, cioè dall’interno dell’uomo.
Non a caso l’Europa e l’intera civiltà occidentale nasce dai Santi (ad esempio Benedetto per l’Europa occidentale e i fratelli Cirillo e Metodio per quella centro-orientale), dal monachesimo, dai pellegrinaggi medievali e dalle opere caritative e sociali nate quasi sempre dai santi.
Ecco perché una società che voglia diventare davvero giusta e buona deve avere come prima preoccupazione (anche da sostenere economicamente) l’educazione, specie delle nuove generazioni, specialmente di una “buona” educazione.
Ecco perché in passato erano attenti a che non si divulgassero “idee errate”, che avrebbero potuto produrre tanto male, più ancora che ai crimini stessi. Oggi il soggettivismo-relativismo dominante (non c’è più una verità oggettiva e universale) è totalmente e progressivamente incapace di avere questa preoccupazione prioritaria. Essa viene progressivamente a mancare perfino all’interno delle famiglie, negli stessi genitori nei confronti dei figli!
E questo è un compito che non può assumersi lo Stato, ma che lo Stato deve promuovere e sostenere. è invece compito prioritario della famiglia.
Il cristianesimo è però certo consapevole che le cose terrene, che dobbiamo costruire e vivere nel miglior modo possibile, non saranno mai perfette, ma sempre perfettibili. Inoltre la Rivelazione ci spiega, e l’esperienza lo dimostra, che esiste nell’uomo anche la possibilità del male, che dobbiamo cercare di vincere (a cominciare da noi stessi), ma che in questa vita non sarà mai definitivamente estirpato. L’uomo non è mai solo buono, per cui deve vigilare su se stesso, cercando di combattere dentro di sé . (il demonio è il “principe di questo mondo”, definitivamente vinto da Cristo, ma sino alla fine del mondo sempre in agguato. E solo con la forza (“grazia”) di Cristo è possibile combatterlo e vincerlo. La pienezza del <bene>, senza alcuna mescolanza col male, sarà solo in paradiso. E ciò ridimensiona anche ogni pretesa politica: la felicità viene dall’interno dell’uomo e viene da Dio, e una società non sarà mai perfetta ma sempre perfettibile.
Le leggi dello Stato e le strutture sociali (politiche, economiche) possono però contribuire non solo a difenderci dal male (almeno dai mali più gravi), ma a diffondere e garantire il bene (almeno alcuni beni). Inoltre le leggi statali hanno anche un valore pedagogico.
L’esistenza stessa di una legge, e della relativa “pena” per chi la trasgredisce, ha una valenza sociale educativa. Infatti, anche se un comportamento non è buono o cattivo semplicemente se la legge lo permette o lo vieta (perché la “morale” ha la priorità sul “diritto”!), nel sentire comune della gente il fatto stesso che una cosa sia proibita anche per legge aumenta la percezione che essa sia effettivamente sbagliata, mentre il fatto che un tale comportamento sbagliato sia permesso per legge (e oggi in certi casi addirittura perfino dichiarato “diritto”) può alimentare nei cittadini l’errata percezione che sia “diventato” (!) lecito anche moralmente.
Questo “ridimensionamento” della politica e del potere dello Stato è necessario per non attendersi troppo dalla politica ed evitare uno statalismo (frutto anch’esso dell’Illuminismo), che soffoca invece di incentivare il buon uso della libertà. Come vedremo, si tratta di coniugare bene il “principio di sussidiarietà” (lo Stato non faccia più di quel che deve fare e non si sostituisca a ciò che i singoli o le singole comunità possono e devono fare per il bene comune) e quello di “solidarietà” (per garantire che il bene dei singoli o dei gruppi intermedi non leda il diritto di tutti di godere appunto dei beni essenziali).
Come si può capire, è un equilibrio che non si trova una volta per sempre ma è sempre di nuovo da ritrovare. Ma non lo si può fare senza che le diverse forze sociali (e poi politiche) non si confrontino con sincerità su cosa sia davvero il bene comune; e il bene comune, come abbiamo visto, non lo si può pensare, progettare ed ottenere senza una autentica antropologia, cioè un’autentica visione dell’uomo, della sua dignità e di cosa sia il suo autentico bene. Per questo tutto ciò che contribuisce alla scoperta ed alla diffusione delle idee giuste in merito (appunto: la verità), è l’elemento essenziale e imprescindibile per ottenere il bene comune. La POLITICA è in un certo senso secondaria, cioè ne consegue. In fondo è come dire che il DIRITTO (che non è un semplice e momentaneo accordo tra forze sociali) dipende dalla MORALE (la distinzione del bene e del male, oggettivi), come questa da una corretta ANTROPOLOGIA
CCCC, 404. Che cos’altro richiede un’autentica convivenza umana? Richiede di rispettare la giustizia e la giusta gerarchia dei valori, come pure di subordinare le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. In particolare, là dove il peccato perverte il clima sociale, occorre far appello alla conversione dei cuori e alla grazia di Dio, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente al servizio di ogni persona e di tutta la persona. La carità, che esige e rende capaci della pratica della giustizia, è il più grande comandamento sociale (CCC, 1886-1889; 1895-1896).
Alcuni principi fondamentali
12. Che differenza c’è tra “persona” e “individuo” (e tra personalismo e individualismo)?
Basta guardarci dentro per accorgerci che ciascuno di noi è un mistero profondissimo, che in fondo solo Dio conosce davvero; e solo Lui ci ama davvero e sa qual è il nostro vero bene. Siamo infatti unici e irripetibili. Per questo c’è in noi anche una radicale solitudine, che solo Dio può colmare.
Nello stesso tempo siamo esseri sociali, cioè siamo fatti per essere in “relazione” con gli altri. La società non è solo un fattore esterno a noi, come se essa fosse semplicemente una somma di individui, ma è una dimensione della nostra stessa persona.
Già per questo la morale non può essere solo un fatto individuale ma ha un enorme rilievo sociale. Per vivere insieme abbiamo bisogno anche di “regole” per ben vivere insieme e per realizzare l’autentico bene, non solo dei singoli ma anche quello comune.
Il termine stesso persona indica questo duplice significato: unicità e trascendenza del singolo, unitamente alla sua dimensione sociale, di relazione.
Ciascun essere umano ha una tale dignità, è talmente importante, che non può essere ridotto a semplice parte di un tutto (società) o a strumento per ottenere un fine (sociale).
Nessuno può permettersi di violare la nostra incomparabile dignità, nessuno deve permettersi di violentare il nostro pensiero e la nostra libertà, perché nessuno può permettersi di violare la nostra coscienza.
E nello stesso tempo il suo essere fatto per entrare in relazione indica che gli altri non sono semplicemente qualcosa fuori di noi o addirittura antagonisti a noi, ma il nostro bene (felicità) si intreccia con quello altrui (bene comune), così che il loro è parte del nostro.
La Bibbia ci spiega questo in modo stupendo fin dalla prima pagina (Gen 1,26): l’uomo è “creato a immagine e somiglianza di Dio”; e c’è in Dio un significativo e strano plurale: “facciamo l’uomo”. Siamo infatti capaci di pensare e di volere liberamente perché abbiamo lo spirito e in fondo siamo persino “capaci di Dio” (infatti siamo fatti per Lui). Ma Dio dice anche che “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18), e lo crea in coppia (maschio e femmina) così da costituire “una carne sola” e formare la prima e fondamentale comunità (la famiglia). Quando poi Dio si è rivelato pienamente in Cristo, si è svelato per quello che: cioè una comunione d’amore di Tre Persone (SS.ma Trinità), così perfetta da essere un Dio solo. Per questo la nostra “somiglianza” con Dio-Trinità si manifesta anche nel fatto che siamo esseri sociali, siamo fatti cioè per vivere in relazione, perfino in comunione, con Dio e con gli altri.
Questo è appunto il duplice significato del termine “persona”, che infatti entra significativamente nella lingua italiana proprio a motivo delle discussione teologiche dei primi secoli cristiani (per esprimere la duplice natura umana e divina dell’unica persona di Gesù e per indicare che la SS.ma Trinità è la comunione di tre Persone ma un solo Dio).
Il peccato, che stravolge fin dall’inizio questo progetto di Dio, crea invece “divisione”. Dopo il peccato Adamo ed Eva entrano in conflitto (Gen 3,12.16); Caino non vuole essere in relazione col fratello Abele e lo uccide (Gen 4,8-9); volendo sfidare Dio e farsi come Lui, gli uomini non sono più in grado di comprendersi tra loro (Torre di Babele, Gen 11,4-9; e solo quando Cristo redimerà l’uomo e scenderà lo Spirito Santo, gli uomini ritorneranno a essere una cosa sola e a comprendersi, At 2,1-12).
Questa pregnanza della parola “persona” è fondamentale anche per la dottrina sociale cristiana, perché appunto indica questo duplice significato di ineliminabile dignità del singolo e nello stesso tempo questa costitutiva sua dimensione sociale.
Il termine “individuo” è invece assai più povero, perché sottolinea piuttosto l’isolamento a scapito della relazione, così che la società risulta semplicemente ridotta a somma di individui e spesso a scontro tra libertà individuali.
Ecco perché già il termine persona (da cui il “personalismo”) è decisivo per la costruzione sociale, in quanto mantiene entrambe queste due posizioni, singolare e plurale. Tutta la dottrina sociale (e persino la politica) cristiana, come vedremo, ne è positivamente orientata.
A partire dal termine “individuo”, che sottolinea appunto in modo unilaterale l’aspetto dell’unicità del singolo, e quindi della libertà del singolo, genera l’“individualismo” e la visione individualistica della società, come semplice somma di individui, addirittura in continuo conflitto di interessi tra loro, tra i loro beni e le loro libertà, smarrendo cioè la dimensione della socialità (che ci sostituisce) e del bene comune. Il “liberalismo” (e il capitalismo) sorto nel XIX secolo ne sono una conseguenza.
Al contrario, per controbattere all’individualismo (liberalismo, capitalismo), nel XIX secolo il pensiero marxista (K. Marx) e il sistema politico-economico che ne è conseguito (socialismo, comunismo), è caduto nell’errore opposto, di cancellare la dignità (libertà, proprietà) del singolo per ottenere un (presunto) bene comune.
Possiamo finora capire che proprio il giusto concetto di persona ed il conseguente rapporto tra beni del singolo e bene comune sia un cardine della dottrina sociale cristiana, cioè di una società che possa essere giusta e rispettosa della dignità dell’uomo. Da questa duplice valenza del termine persona (personalismo) emergono anche i due principi fondamentali della dottrina sociale cristiana, cioè di un’autentica società: il principio di sussidiarietà (che rispetta la dignità dei singoli e delle comunità e non permette che lo Stato prevalga su di essi ma anzi li sostenga) e il principio di solidarietà (che non permette che l’interesse dei singoli e delle singole comunità prevalga sul bene comune, che lo Stato deve garantire).
13. Perché la società non è solo uno scontro tra libertà e tra interessi privati?
Non viviamo né potremmo vivere totalmente da soli. La nostra libertà convive con quella degli altri. Anche le nostre decisioni interagiscono con quelle degli altri. L’essere con gli altri non è solo una dato esterno a noi, un dato sociale, ma un elemento interno della nostra stessa persona. Non ci realizziamo da soli, ma insieme e insieme dobbiamo realizzare un “bene comune”. La felicità (bene) dell’altro non può essere allora intesa in antagonismo alla mia. Anzi, la legge dell’amore, quella che ci costituisce nel più profondo di noi stessi (perché creati a immagine di Dio-Amore e fatti per Lui) – ci porta a gioire della felicità dell’altro (mentre l’invidia o la soppressione del bene altrui è una perversione dell’umano, è contro la nostra vera natura; infatti è peccato).
Evidentemente si ripresenta la questione di cosa sia allora non solo il nostro singolo bene (felicità), ma di cosa sia l’autentico bene comune. Per questo si ripresenta la questione decisiva della verità.
Già all’interno di quella prima e fondamentale comunità che è la famiglia, si sperimenta, secondo la logica dell’amore (pensiamo a quello materno) secondo cui la felicità dell’altro (ad esempio del figlio) non è assolutamente in antagonismo con la propria ma ne è anzi parte integrante (anzi, una mamma vera è persino spontaneamente più contenta della felicità del figlio che della propria).
E pure in famiglia si capisce che non si costruisce nulla se non in base a una condivisa idea di bene da raggiungere. Il sentimento non basta. Perfino il fidanzamento deve essere una verifica dell’amore e di questa stessa concezione, altrimenti prima o poi fa fallimento o diventa violenta (uno si impone sugli altri). L’educazione dei figli mette pienamente in risalto questa questione: come educarli? Di fatto li educhiamo in base a quello che pensiamo sia il loro vero bene. Ma qual è il vero bene dell’uomo? Evidentemente ritorna la questione del bene e del male (morale) e quindi della verità dell’uomo (antropologia). Una neutralità è impossibile. Anche se decidessi (ma è impossibile) di non dire niente – dicendo ad esempio “così sceglierà lui” (questo lo si fa purtroppo spesso, specialmente sulla verità religiosa, ma ciò presuppone che non si conosca la verità della fede) – in realtà anche questa scelta è una scelta, non neutrale!
Come si vede riemerge quindi necessariamente la questione della “verità”. Senza la verità la libertà rimane vuota, senza un senso; e la società diventa di fatto non una “casa comune” ma lo scontro di libertà.
Come abbiamo già ricordato, il celebre motto “la mia libertà finisce dove comincia quella altrui”, che tutti pensano sia una suprema regola sociale, in realtà è palesemente riduttivo. Infatti porta con sé la concezione che la felicità dell’altro non sia parte della mia stessa felicità. Se questa è la concezione della libertà e dei suoi limiti, allora l’altro viene inteso come un fastidio, perché se non ci fosse sarei allora più libero.
Inoltre, se uno possiede ad esempio molti soldi e un altro pochissimi, dove sarebbe il confine tra le due libertà?
Portata alle estreme conseguenze, questa visione della libertà senza verità inevitabilmente riduce la società a uno scontro di libertà; e diventa:
– o anarchica (ciascuno può fare quello che vuole); ma l’anarchia è socialmente invivibile (a meno che non si creda che l’uomo sia così buono da non avere peccati e capace solo di fare il bene);
– o liberale (una lotta tra interessi particolari). Ma questo rende la società sempre più ingiusta: per garantire la libertà del singolo e dei singoli gruppi si distrugge la solidarietà e il bene comune;
– o comunista (il singolo non conta; decide tutto lo Stato, cioè il partito). Ma questo rende la società disumana, perché la dignità, libertà e persino proprietà del singolo vengono totalmente sacrificate al realizzazione del (presunto) bene comune (deciso dall’ideologia e dal partito).
Dunque, la neutralità è impossibile. E come non si costruisce la propria vita o la propria famiglia senza una idea (il più possibile vera!) di felicità (bene), così non si può costruire neppure una vera società senza una conseguente idea di bene comune, cioè di cosa sia la vera felicità dell’uomo. Ma questo non può deciderlo lo Stato.
14. Cosa indica il “principio di solidarietà“?
Il “principio di solidarietà” indica che il bene dei singoli deve essere rapportato al bene comune, poiché tutti gli uomini hanno la stessa dignità e hanno dei diritti inalienabili che devono essere garantiti a tutti. Tale principio sottolinea l’aspetto sociale (bene comune) della vita dell’uomo.
CCCC, 414. Come si esprime la solidarietà umana? La solidarietà, che scaturisce dalla fraternità umana e cristiana, si esprime anzitutto nella giusta ripartizione dei beni, nella equa remunerazione del lavoro e nell’impegno per un ordine sociale più giusto. La virtù della solidarietà attua anche la condivisione dei beni spirituali della fede, ancor più importanti di quelli materiali (CCC, 1939-1942; 1948).
15. Cosa indica il “principio di sussidiarietà“?
Il “principio di sussidiarietà” indica che un organismo superiore (e lo Stato stesso) non deve compiere ciò che una persona o un organismo minore (a cominciare dalla famiglia) può compiere e assicurare con le proprie forze.
In fondo tale principio sottolinea l’aspetto dell’unicità, irripetibilità, dignità e libertà di ogni singola persona, mentre gli enti superiori sono al suo servizio come a servizio del bene comune.
CCCC, 403. Che cosa indica il principio di sussidiarietà? Tale principio indica che una società di ordine superiore non deve assumere il compito spettante a una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità (CCC 1883-1885; 1894).
Fede e politica
16. Perché la politica è importante ma non può salvare l’uomo?
Esistono da parte del cittadino due atteggiamenti sbagliati nei confronti della politica: o chi non se ne interessa affatto (magari perché deluso o perché pensa che in fondo non serva a niente se non per giochi di puro potere) o chi pensa che dalla politica – governi, leggi, strutture pubbliche – possa venire la soluzione di tutti i problemi dell’uomo, cioè come se da essa potesse venire la salvezza dell’uomo e dell’umanità (risolvere totalmente il problema del male, costruire la società perfetta, dare la felicità).
Questo secondo atteggiamento ha preso particolarmente campo con l’Illuminismo e con le ideologie e rivoluzioni che esso ha generato. Così si è pensato: non è la religione, Dio, Gesù Cristo a salvare l’uomo – anzi, la religione è stata nociva per l’uomo! (v. Marx) – ma sono i nostri (astratti) progetti politici ed economici, le nostre rivoluzioni (anche violente), che risolveranno finalmente il problema del male e costruiranno il “paradiso” (la società perfetta) su questa terra. In realtà la storia dei successivi due secoli ha dimostrato che su questa base si sono creati invece gli “inferni”.
E’ stato così già con la rivoluzione francese. Nel socialismo-comunismo questo è divenuto ancor più lampante: l’ideologia marxista pensava che la dialettica storica avrebbe dovuto portare verso una società senza classi (socialismo), dove l’uomo diventa miracolosamente buono, ciascuno produce per quel che può e tutto viene distribuito secondo i bisogni; e dove non ci sarà finalmente più bisogno di pensare a un alienante Aldilà (religione). [A parte che se K. Marx fosse entrato in un qualsiasi monastero cristiano avrebbe visto già realizzato da secoli questo suo sogno (che non era però imposto dallo Stato ma liberamente scelto e soprattutto una conseguenza della fede cristiana, cioè dell’incontro con Cristo e della scoperta dell’amore di Dio]. Filosoficamente parlando si può vedere in questo progetto ideologico la conseguenza di una visione della storia già presente non solo in Feuerbach ma soprattutto in Hegel, dove cioè lo Spirito Assoluto (Essere) viene a coincidere con la storia (divenire), così che la dialettica storica lo avrebbe progressivamente manifestato. In realtà rimane già a priori una contraddizione: o questo fine della storia non si raggiungerà mai (e quindi è ancora metastorico, nell’Aldilà), oppure se si raggiungesse che ne sarebbe allora della storia successiva? dove tenderebbe ancora? In realtà questo concetto di storia (lineare) è esso stesso di derivazione biblica, ma con la sostanziale differenza (dimenticata dal pensiero moderno) che nella Bibbia la storia è sì il luogo della manifestazione di Dio (“storia della salvezza”), ma Dio trascende sempre la storia; essa ha in Dio la sua sorgente (creazione), il suo culmine (Incarnazione) e il suo sbocco (eternità). Essa è l’incontro di due libertà: quella suprema di Dio, che chiama, e quella creata dell’uomo, che deve rispondere a questo appello d’amore.
In realtà la politica ha un suo compito specifico, che è quello di promuovere e garantire alcuni diritti fondamentali dell’uomo e di regolare con equità alcune questioni del rapporto tra le persone e gli organismi sociali, per promuovere e garantire anche un progressivo bene comune.
Pretendere che la politica (le amministrazioni pubbliche, le leggi e i governi) risolva tutti i problemi dell’uomo è falso, sbagliato e persino violento.
Ecco perché la politica e lo Stato stesso non devono essere invasivi né devono pretendere di affrontare, risolvere e regolare tutti gli aspetti della vita umana e sociale.
Anche questa visione “statalista”, che spesso è diventata una vera e propria “statolatria” (si pensi ad esempio alle dittature comunista, nazista e fascista; ma in fondo anche dentro certe pretesa attuali di regolamentare tutto), è in fondo una conseguenza dell’Illuminismo e ancor più dell’ateismo, poiché negando Dio lo Stato pretende pian piano di sostituirvisi, stabilendo in proprio (il partito stesso!) cos’è bene e cos’è male e regolando di conseguenza tutta la vita dei cittadini.
Da una corretta ed equilibrata visione della politica ne scaturisce una sua presenza efficace ma discreta, non oppressiva, che si esprime appunto nel principio di sussidiarietà, secondo cui lo Stato non deve sostituirsi ai cittadini ed ai corpi sociali intermedi nella gestione di questioni, problemi e strutture che i singoli o le strutture sociali minori possono fare e risolvere da sé.
Un equivoco, purtroppo assi spesso attuato anche in Italia (con gravi conseguenze economiche e sociali), ha fatto sì che non solo la perdita di questo principio di sussidiarietà provocasse una eccessiva statalizzazione e centralismo burocratico dispendiosissimo, asfissiante e paralizzante l’iniziativa privata (col conseguente fallimento anche economico; e anche l’incredibile “debito pubblico” ne è una tragica conseguenza, che trascina l’intera società verso il fallimento, come vediamo!); ma ha fatto sì che anche quando lo Stato (la gestione politica, amministrativa ed economica) ha demandato alcuni suoi compiti a struttura amministrative inferiori (ad esempio Regioni e Province), non ha agevolato l’iniziativa dei corpi intermedi, ma ha moltiplicato il centralismo statale (con le sue strutture , debiti e talora gravi difetti), cioè non ha applicato il principio di sussidiarietà (più società e meno Stato!), ma ha ampliato e parcellizzato lo statalismo.
17. Perché occuparsi di “politica” è un dovere morale?
La politica, secondo la sua stessa etimologia, è occuparsi della polis, della città, della cosa pubblica, del bene comune. Potremmo dunque dire che è un dovere occuparsi di politica, in quanto fa parte del dovere di occuparsi del bene proprio e altrui; e come tale è un dovere non solo civico, ma morale. Nella vita cristiana è quindi in fondo un ramo della carità; e come tale un obbligo morale (certo a diversi livelli di responsabilità, da quello del semplice cittadino che vota a quello di chi si assume o viene delegato ad assumersi specifiche responsabilità di conduzione politica, locale o nazionale). Anche se è vero che il vero bene dell’uomo non viene dalla politica, però se non mi occupo di politica è come se non mi occupassi del bene proprio e altrui (Gesù dice che il secondo fondamentale comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è simile al primo “ama Dio con tutto te stesso” e non può esservi disgiunto – cfr. Mt 22,39).
18. Perché ci deve essere e come deve essere il rapporto tra fede e politica?
La politica, in senso lato, è occuparsi della res pubblica, cioè del “bene comune”. In questo senso si capisce allora che un cristiano, come del resto ogni buon cittadino, non può non interessarsene e deve interessarsene bene, cioè in vista dell’autentico bene (dell’uomo e di ogni uomo). Come s’è detto, si tratta in fondo di una doverosa applicazione del comandamento dell’amore del prossimo. Del resto possiamo socialmente e anche storicamente constatare come una buona o una cattiva politica possa contribuire notevolmente a edificare una buona società o anche a distruggerla.
Proprio a questo livello di impegno sociale si vede quanto è mai necessario far riferimento alla “Dottrina sociale cristiana”, proprio per essere aiutati a capire quale sia il vero bene dell’uomo.
Ogni persona adulta, ogni buon cristiano, deve allora interessarsi di politica e deve farlo bene; se non altro per promuovere associazioni e partiti che possano portare avanti e il più possibile attuare questi principi. Anche il semplice “voto politico” è in questo senso una gravissima responsabilità di tutti. Non si deve votare chi ci è simpatico o chi può semplicemente garantire i nostri interessi, ma chi – a partire dai propri programmi e verificando poi se davvero si sforza di attuarli – promuove questi principi della “Dottrina sociale” cristiana, cioè l’autentico bene comune.
Potremmo persino osservare come questa correttezza di un buon programma di governo, cioè con la proposta di leggi giuste, e lo sforzo continuo di attuarlo, sono persino più importanti della stessa coerenza morale del politico che lo propone. Certo, più è buono e perfino santo e meglio è (come il patrono stesso dei politici cristiani, Thomas More, e alcuni santi governanti che la Provvidenza ci ha donato lungo la storia), perché la testimonianza e la coerenza sono sempre un grande valore capace anche di attirare un giusto seguito; ma è ancora più importante che il programma politico che tale candidato si impegna ad attuare e le stesse leggi che riesce a far approvare siano conformi all’autentico bene. Potremmo infatti paradossalmente osservare che fa più danni sociali chi fosse anche personalmente buono ma promuove leggi sbagliate, di chi magari non è un buon testimone ma promuove leggi giuste. E, ripetiamolo, che tali programmi o leggi siano giuste lo si deve dedurre proprio dai principi della “Dottrina sociale” della Chiesa.
Anche a livello amministrativo locale, così come in occasione di particolari Referendum (specie quelli inerenti a problematiche di grande rilevanza etica!), il criterio di scelta deve essere dettato da quei principi cristiani. Se poi fossero in gioco addirittura i “valori non negoziabili” (vita umana, famiglia, libertà religiosa e di educazione), allora non si deve transigere: nessuno che vuole essere cristiano deve rinunciarvi quando vota e nessuno dei votati ha il diritto di presentarsi come “cattolico” se non li promuove. In questo caso, essendo in gioco la dignità stessa dell’uomo e il buon futuro della società, piuttosto che il compromesso meglio ritirarsi, addirittura meglio il “martirio” (come la storia ci insegna, e come lo stesso Tommaso Moro ci ha testimoniato). Teniamo presente infatti che anche su questo dobbiamo un giorno rendere conto a Dio, e che è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. At 4,19).
Ecco l’esempio di alcuni dei sovrani santi (canonizzati): S. Venceslao (907-929), S. Enrico (973-1024), S. Stefano d’Ungheria (975-1038), S. Margherita di Scozia (1046-1093), S. Edvige (1174-1243), S. Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), S. Ludovico (Luigi IX; 1214-1270), S. Elisabetta del Portogallo (1271-1336), S. Casimiro (1458-1484).
Il Patrono degli statisti e dei politici è St. Thomas More (S. Tommaso Moro, 1478-1535; martire)
Consigliere e segretario di Enrico VIII a Londra, preferì il martirio (pena capitale) piuttosto che riconoscere la rivendicazione del re di farsi capo supremo della Chiesa d’Inghilterra. Giovanni Paolo II lo ha proclamato patrono degli statisti e dei politici nel 2000.
Chi poi si assume una particolare responsabilità politica come cristiano – ed è in fondo una chiamata, una vocazione laicale che viene da Dio – deve attenersi precisamente a questi principi fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa e si assume in prima persona la responsabilità di trovare di volta in volta il modo più giusto di attuarli. E di ciò dovrà rendere conto alla società, alla Chiesa, ma anche e soprattutto a Dio stesso.
CCCC, 519. In che modo i cristiani partecipano alla vita politica e sociale? I fedeli laici intervengono direttamente nella vita politica e sociale, animando, con spirito cristiano, le realtà temporali e collaborando con tutti, da autentici testimoni del Vangelo e operatori di pace e di giustizia (CCC, 2442).
19. Che responsabilità morale hanno i “politici”?
La prima cosa da chieder ai politici non è che ci cambino la vita, che ci diano la felicità e neppure che ci costruiscano il paradiso in terra. Anzi, tutte le volte che la politica ha voluto fare questo, normalmente ha creato degli inferni (come il secolo XX ha tragicamente dimostrato). Come abbiamo sopra ricordato, è certamente importante che i politici, come tutti i capi e i responsabili di altri, diano anche il buon esempio e siano pure dei testimoni credibili. Ma il primo e più importante compito che dobbiamo chiedere ai politici e che essi devono assolvere è proprio quello di fare delle leggi “giuste” (non troppe e senza la pretesa di disciplinare tutta la vita) e di farle osservare.
Fede ed economia
20. Perché ci deve essere e come deve essere il rapporto tra fede ed economia?
Secondo una certa (falsa) logica, di stampo soprattutto liberale, l’economia sarebbe una sorta di scienza neutrale, sganciata dall’etica (secondo il falso slogan popolare “gli affari sono affari”). In realtà anche ogni scelta economica può contribuire o a edificare una società migliore (non è certo questo l’unico fattore e neppure il più importante, ma è decisivo) o a distruggerla, creando sempre più gravi ingiustizie. C’è dunque un’economia giusta e una ingiusta. Essa ha dunque una valenza morale (bene/male). E in questo senso ha anche un legame con la fede e la morale cristiana.
La Dottrina sociale della Chiesa si è infatti opposta sia ad un’economia di mercato che non tenga conto della solidarietà (come in certe linee “liberali” specie del primo esasperato capitalismo), come di un’economia eccessivamente statalizzata che non tenga conto dei diritti dei singoli e dei corpi intermedi (addirittura abolendo la proprietà privata e nazionalizzando ogni industria, come nel caso dell’ideologia marxista, propria del socialismo-comunismo). Come vedremo, la Dottrina sociale ha promosso un’economia, cosiddetta “mista”, che fosse di volta in volta in grado di garantire sia il bene del singolo (senza sacrificarlo) che quello comune (senza esasperarlo).
In questo senso persino l’aspetto fiscale ha una grande importanza, e può essere giusto o ingiusto, quindi ha una rilevanza etica e inerisce anche alla fede e alla morale, cioè appunto alla Dottrina sociale cristiana.
Osserviamo fin d’ora che pagare le tasse è anche un dovere morale, perché è un modo di sostenere il bene comune; ma lo Stato ha anche il dovere di promuovere un’economia, una gestione della cosa pubblica, e quindi anche un prelievo fiscale che sia equo e che non sia ingiusto (eccessivo, ripartito non in modo equo). I responsabili della cosa pubblica (Stato) hanno inoltre il grave dovere morale di amministrare beni quel denaro pubblico (soldi che sono comunque dei cittadini e non dei politici o degli amministratori della cosa pubblica).
Negli ultimi decenni abbiamo anche potuto osservare come l’economia, se non tiene conto dei principi etici (e di una corretta antropologia), oltre ad essere moralmente riprovevole – in quanto contro l’autentico bene dell’uomo e quindi contro l’autentica giustizia – è anche false e prima o poi crolla addirittura su se stessa. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso abbiamo infatti visto crollare l’economia comunista dell’Europa orientale (a motivo anche del suo eccessivo centralismo statale), come ora stiamo assistendo in certo qual modo al crollo della economia capitalista occidentale (quando priva l’economia di qualsiasi riferimento etico).
Anche per questo la società, e non solo i cristiani, dovrebbero finalmente porre molta attenzione alla Dottrina Sociale della Chiesa, che aveva previsto da tempo dove avrebbero portato certi errori di fondo e aveva ed ha promosso i principi per promuovere anche un’autentica economia (e se la Chiesa fosse stata ascoltata non saremmo caduti e non cadremmo in certi crisi e in certi baratri)
CCCC, 511. Come va esercitata la vita sociale ed economica? Va esercitata, secondo i propri metodi, nell’ambito dell’ordine morale, al servizio dell’uomo nella sua integralità e di tutta la comunità umana, nel rispetto della giustizia sociale. Essa deve avere l’uomo come autore, centro e fine (CCC, 2459).
Alcuni temi fondamentali della “Dottrina Sociale della Chiesa”
Una premessa fondamentale
21. Che rapporto c’è tra morale e diritto?
Come abbiamo già potuto osservare, la morale è l’esplicitarsi del senso vero della vita e delle cose della vita. E come tale distingue ciò che è bene – cioè ciò che corrisponde a quello che dobbiamo essere e diventare – e che dobbiamo fare, da ciò che è male – cioè non corrisponde alla verità di noi stessi, non ci fa diventare quello che dobbiamo essere – e che dobbiamo evitare. Per questo la morale cristiana, rivelata da Dio stesso, è ciò che è più consona alla natura umana; ed è anche pienamente ragionevole e quindi condivisibile.
Il diritto non regola solo i rapporti tra i cittadini, né tanto mento solo i loro conflitti (di libertà, di interessi), ma garantisce alcuni beni fondamentali, soprattutto quelli comuni, ma anche alcuni beni dei singoli; allo stesso modo vieta, punisce e combatte alcuni mali particolarmente gravi (non solo tra i cittadini, ma anche della stessa persona).
Che lo Stato, attraverso le sue leggi (e le relative pene per chi le contravviene), non solo mi obblighi a rispettare la vita altrui ma si ponga a garanzia persino di alcuni dei miei beni (anche se io decidessi di non garantirli!) lo si evince persino dal <Codice della strada>: non solo infatti esso regola i rapporti tra i cittadini, in questo caso tra chi si muove in strada, obbligandomi a rispettare la presenza e la vita degli altri, per non creare danni materiali o addirittura mettere a rischio la vita altrui (regolamentazione del traffico, della velocità, ecc.), ma si pone a garanzia della mia stessa incolumità, anche se non danneggiassi altri (ad esempio mi obbliga all’uso della cintura di sicurezza in auto o del casco in moto).
Lo Stato può poi garantirmi altri beni, come ad esempio un minimo di istruzione (da cui l’obbligo scolastico fino ad un certo livello, assicurandone l’accesso anche economico), anche se io non ne volessi godere.
Anche il diritto si pone dunque in riferimento al bene da garantire e al male da evitare (morale).
Si capisce che c’è e ci deve essere dunque un rapporto strettissimo tra morale e diritto, ma non possono e non devono coincidere. In altri termini: non tutti i beni morali sono obbligatori anche per il diritto e non tutti i mali morali sono vietati anche per il diritto (vedi nel sito: Introduzione, n. 6).
Se è vero che il diritto non coincide con la morale, rimane però vero che questo limite oggettivo alla libertà dobbiamo pur trovarlo e porlo. Ma non può essere arbitrario; e neppure il potere politico può porlo a piacimento, magari secondo il governo o la maggioranza parlamentare del momento. Deve avere quindi una base naturale (diritto naturale), in quanto deve avere una base morale oggettiva, inscritta nella nostra stessa natura e che noi possiamo conoscere.
L’attuale progressiva difficoltà a fondare un diritto, che non sia solo un capriccio o un momentaneo accordo tra diverse fazioni politiche, dipende evidentemente dal relativismo, che prima di essere etico (bene/male) è gnoseologico (vero/falso); e a sua volta risente dell’abbandono da un lato della metafisica (da cui l’incapacità di cogliere l’essere e persino “una” natura umana) e dall’altro della fede (perdendo la consapevolezza che non siamo i creatori di noi stessi ma siamo stati creati da Dio, con una natura umana che ha già il suo significato e quindi la sua legge morale oggettiva).
Nel necessario rapporto tra diritto e morale ci sono evidentemente due pericoli (errori) opposti:
– il fondamentalismo, che può essere “religioso” (vorrebbe imporre a tutti non solo una morale ma una fede religiosa) ma anche “laicista”, relativista, ateo (che vorrebbe imporre a tutti questa posizione come unico pensiero lecito)
– il relativismo etico, dove non sarebbe in fondo più possibile dire bene/male, giusto/ingiusto, lecito/illecito, se non per un momentaneo accordo di forze politiche o in base alle pressioni esercitate dal potere culturale, economico o persino scientifico dominanti.
La soluzione di questo problema, apparentemente insolubile, sta nel fatto che l’uomo può riconoscere in sé l’esistenza di valori morali (secondo quei mezzi che abbiamo più sopra ricordato), inscritti oggettivamente nella natura umana, razionalmente enucleabili e quindi condivisibili, e senza i quali non solo non è possibile edificare una vera società (che, come abbiamo più sopra ricordato, non è edificabile senza una condivisione di valori), ma è invece possibile distruggerla!
Ebbene, la Dottrina Sociale della Chiesa è in grado di mostrare a tutti la ragionevolezza e bontà di quei valori fondamentali, che emergono ad esempio già nel DECALOGO, alcuni dei quali sono così imprescindibili – non solo per la fede ma proprio per la costruzione di una vera società – da essere considerati “non negoziabili”, pena appunto la distruzione dell’uomo e della società.
Tra l’altro, essendo il Decalogo ancora Antico Testamento (Es 20), anche se confermato e portato a compimento da Cristo stesso, dovrebbe intanto essere patrimonio religioso e morale comune a ebrei, cristiani e musulmani – che insieme sono oggi la maggioranza assoluta della popolazione mondiale! – i quali riconoscono appunto nell’Antico Testamento la Parola stessa di Dio.
Non sembri dunque strano o improprio, ma analizzeremo allora di seguito alcune questioni principali del diritto e della società (da cui la “Dottrina Sociale della Chiesa”), facendo proprio riferimento a quella morale fondamentale che è indicata dal Decalogo (i “10 comandamenti”, che implicano tanti aspetti della vita umana personale e sociale – v. III parte del Catechismo della Chiesa Cattolica e del relativo Compendio), ma che può essere riconosciuta anche da una retta coscienza e da una ragione che ben ragiona; tenendo certo presente che appunto non tutti i beni da esso garantiti debbono diventare obbligatori per tutti nella società, così come non tutti i mali (peccati) da esso condannati devono diventare anche vietati (o reati) per tutti nella società. Ma possiamo appunto vedere come il prescinderne determini però il progressivo sfaldamento e la distruzione non solo dell’uomo ma della stessa società. Compiamo dunque un’analisi di alcuni contenuti della <Dottrina sociale cristiana> muovendoci da essi.
Si tenga presente anche quanto detto in questa sezione del sito nella Introduzione, come pure nell’Aiuto per fare l’esame di coscienza”, dove si può trovare anche un elenco dei peccati in riferimento alla vita sociale, economica, politica.
Dal Decalogo alla Dottrina Sociale
I primi 3 Comandamenti del Decalogo, che riguardano e specificano il rapporto con Dio, sembrano quelli che meno abbiano a che fare con la Dottrina Sociale della Chiesa. In realtà anch’essi vengono a evidenziare valori, e conseguentemente indicare diritti e doveri, che riguardano la vita sociale e interessano anche la politica e l’economia.
In riferimento al I Comandamento
(“Io sono il Signore Dio tuo: Non avrai altro Dio fuori che me”)
La libertà religiosa
22. Perché quello della “libertà religiosa” è un diritto fondamentale dell’uomo e un valore non negoziabile?
Mentre il 1° Comandamento ci obbliga moralmente a cercare, conoscere, adorare, amare e seguire il vero Dio (SS.ma Trinità), per la Dottrina sociale cristiana – cioè per l’impegno cristiano nella costruzione di una vera società, più giusta e degna dell’uomo – non dice certo che si debba essere “obbligati per legge” ad avere l’autentica fede! Anzi, proprio l’importanza fondamentale della religione (di Dio) per la vita dell’uomo e della società, fa sì che nessuno possa sostituirsi a Dio e all’anima di ogni singola persona, cioè che nessuno, tanto meno lo Stato, possa obbligare o impedire ad alcuno di aderire alla propria religione, di seguirla, compreso le sue manifestazioni pubbliche e le decisioni anche sociali che ne derivano (tranne che siano palesemente contro il rispetto dei beni e diritti fondamentali dell’uomo) e la possibilità di annunciarla ad altri e insieme agli altri di offrire contributi e prendere decisioni per la costruzione della società stessa.
In fondo questo è il diritto fondamentale dell’uomo alla “libertà religiosa”, che appunto non indica solo il diritto di seguire il proprio credo religioso nell’intimo della propria coscienza (dove peraltro nessuno può comunque entrare!) o esclusivamente nella vita privata, e neppure semplicemente nella vita comunitaria di preghiera, ma di viverne anche le sue giuste conseguenze sociali. Ecco perché la “libertà religiosa” non è e non deve essere semplicemente “libertà di culto”, come invece troppo spesso vorrebbe intenderla il laicismo.
Il Santo Padre Benedetto XVI ci ha pertanto aiutato a capire e ci ha autorevolmente indicato che questo diritto/dovere della libertà religiosa sia un “valore” talmente fondamentale per l’uomo e la società, da non potersi ridurre, mediare e tanto meno negare, cioè è appunto uno dei quattro valori non negoziabili, che non solo il cristiano ma ogni uomo vero deve impegnarsi a promuovere e difendere, proprio per garantire il vero bene dell’uomo e di ogni uomo. Ed è quindi un diritto e un dovere per tutti.
23. In che rapporto stanno religione e politica?
Dalla perdita di Dio al relativismo, fino alle nuove dittature
Abbiamo già parlato più sopra del rapporto tra fede e politica e della pretesa di una falsa laicità.
Possiamo e dobbiamo dunque notare, sia nella storia come nel presente (oggi in modo più subdolo ma non meno violento), che quando Dio non ha il primo posto, non solo nella vita personale ma anche in quella sociale, qualcosa o qualcuno vuole sostituirsi a Lui!
Ad esempio, senza un riferimento a Dio, l’uomo fa sempre più fatica a riconoscere persino l’oggettività di valori morali fondamentali e naturali (iscritti nella sua stessa natura umana e che per sé può comprendere anche con la sola ragione), è tentato di cambiare il bene e il male a piacimento (in fondo questo è già stato il “peccato originale”); ma quando ciò accade, tutto diventa soggettivo, relativo, temporaneo. Di conseguenza diventa difficile costruire relazioni e quasi impossibile costruire insieme qualcosa. Il “relativismo etico” rende pian piano impossibile costruire una società, che non sia solo una lotta tra interessi contrapposti. La stessa democrazia diventa anarchia. Ora, questo porterebbe all’autodistruzione sociale. Allora, tanto più se non si crede alla possibilità della ragione di cogliere le verità fondamentali, ci vuole qualcuno o qualcosa che dica cosa sia bene e male per tutti, cioè in pratica vuole sostituirsi a Dio. Sarà un singolo dittatore o una singola ideologia o un singolo partito (come più volte è avvenuto nella storia, e tragicamente nel XX secolo!), oppure, come sempre più spesso oggi accade, la maggioranza del momento (a sua volta però pilotata da chi ha in mano il potere culturale, dei media, dell’istruzione). Il relativismo stesso diventa una terribile “dittatura”, cioè è obbligatorio essere relativisti ed è proibito non esserlo. Come sempre, il relativismo non relativizza se stesso, e diventa “dittatura del relativismo”.
Quale laicità?
Come abbiamo già osservato, dobbiamo prestare molta attenzione alla falsa pretesa della “neutralità”, come se il rendere tutto relativo, o addirittura la scelta del “nulla” (come chi ad esempio pensa che, per un presunto rispetto di ogni religione, si debbano eliminare tutti i segni religiosi), fosse una non-scelta, un non-indirizzo da dare alla società. La scelta del nulla – che dietro la pretesa e presunta “laicità” nasconde di fatto appunto l’ateismo e il nichilismo – non è una non-scelta, ma la peggiore delle scelte. Semmai, per una corretta equidistanza dello Stato nei confronti delle religioni – intesa nel senso di non abbracciare in quanto Stato una religione, ma di garantire a tutti la libertà religiosa – si dovrebbero ammettere tutte le identità (e i segni) religiose, non nessuna!
Qui si può però aprire la grande questione se, nonostante la globalizzazione e la presenza ormai di società multietniche e multireligiose, si possano recidere le radici culturali e religiose della propria civiltà! Pur nel rispetto e nella garanzia della libertà religiosa di chiunque, e nello sforzo di un dialogo e di un’integrazione spesso possibile (non sempre, come quando ci sono ad esempio diverse concezioni del diritto, del matrimonio, della libertà religiosa), una civiltà non dovrebbe mai rinunciare al proprio patrimonio culturale e religioso, tanto più, come nel caso dell’Europa e del mondo occidentale, quando tale civiltà bimillenaria, fondata sulla fede cristiana, è stata di fatto quella trainante per il mondo intero! [Tanto più se poi il relativismo intacca la fede degli stessi cristiani nella unicità di Cristo come unico vero Dio-fatto-uomo e della Sua necessità per la salvezza di ogni uomo!].
La laicità, il potere politico, lo Stato
Il potere dello Stato è sempre tentato di sostituirsi a Dio e di porre se stesso a fondamento (magari in modo sempre provvisorio) dei diritti/doveri dei cittadini. “Cesare” non si limita a chiedere ciò che gli compete (cfr. Mc 12,17), ma vuole fare il “Dio”!
Il cristianesimo, che ha sempre insegnato ad essere obbedienti all’autorità civile e alle leggi dello Stato (v. poi a riguardo del 4° Comandamento), per cui il cristiano è anche un ottimo cittadino, ha però sempre rifiutato di obbedire al sovrano, allo Stato e alle sue leggi qualora questi obbligassero a disobbedire a Dio (sin dall’inizio, v. le parole di S. Pietro davanti a capi del popolo nei primi giorni della Chiesa: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, At 5,29 e 4,19). Appunto perché lo Stato non può sostituirsi a Dio.
Dunque anche la politica (come l’economia), pur godendo di una propria relativa autonomia, ed essendo importante e decisiva per la costruzione di una società – e richiede quindi necessariamente, sia pur a livelli diversi, il nostro impegno – non è tutto e non dipende da essa il cambiamento della vita, tanto meno può sostituirsi a Dio e alle Sue leggi. La religione, come la morale, è superiore alla politica!
Nella civiltà medievale, tanto calunniata dalla storiografia anticristiana tuttora dominante (anche nelle scuole), questo principio secondo cui, pur nella distinzione cristiana (in linea di principio) dei poteri spirituale e temporale, questa superiorità di Dio su tutto, quindi anche della religione sulla politica, era ovvia. Il segno di questo era ad esempio che anche gli imperatori, come Carlo Magno, venivano incoronati dal Papa. La tentazione del potere temporale di prendere il sopravvento su quello spirituale era certo sempre presente, come anche viceversa, ma la distinzione e persino la gerarchia dei poteri e dei valori era chiara. Dalla fine del Medioevo il sorgere di nuovi sovrani e poi di nuovi Stati ha visto progressivamente l’affermarsi non solo di una totale autonomia del potere politico su quello spirituale, ma sempre più addirittura il suo opporsi ad esso. Questo ha inciso fortemente anche sulla divisione religiosa dovuta all’eresia e agli scismi della Riforma protestante del XVI secolo, quando i nuovi sovrani colsero l’occasione di rendersi indipendenti da Roma per poter acquisire un potere più assoluto sulle popolazioni, oltre che potendo così incamerare tutti i beni della Chiesa. Anche il cosiddetto Risorgimento italiano (v. nel sito: Fede e cultura < Tutta un’altra storia < Il Risorgimento e l’unità d’Italia, come pure in Dossier < Chiesa e Risorgimento italiano), sotto il pretesto dell’unificazione italiana, in realtà ha conosciuto l’invasione piemontese dell’Italia, talora in odio alla Chiesa, così che anche la politica apparentemente liberale di Cavour (“libera Chiesa in libero Stato”) in realtà si traduceva in soppressione di ordini religiosi, in incameramento di tutti i beni ecclesiastici, in pretesa di sostituirsi in tutto, anche nell’educazione dei giovani, alla Chiesa e alla religione [ancor oggi si avverte in questa logica, ora detta laicista, il fastidio per la presenza della Chiesa e la pretesa quantomeno di zittirla ogniqualvolta essa si introduca nella costruzione della società comune, come se essa dovesse essere ad essa estranea].
23.1 – Qual è il compito dei politici?
Dobbiamo dunque chiedere ai politici – oltre al dovere, come per tutti e specialmente per chi ha un compito di guida, di essere buoni, onesti, di esempio; anzi, possibilmente santi * – non di fare tutto, e neppure troppo cose (in base appunto al “principio di sussidiarietà”), ma di fare leggi giuste (potere legislativo ed esecutivo; così come si chiede al potere giudiziario di farle rispettare, senza pretendere di inventarle). E in base a questo, cioè i loro programmi di governo, le leggi che si propongono di fare e quelle che hanno già fatto, vanno giudicati, eletti o rifiutati, non certo per la loro simpatia e per sé neppure per come sono nella loro vita privata. Paradossalmente è meglio un politico che si comporti male nella sua vita privata ma faccia leggi giuste che promuovano e difendano il vero bene dell’uomo, che non un politico magari integerrimo nella sua vita privata ma che faccia leggi che sono contrarie all’autentico bene dell’uomo e che rovinino la società (è però ovvio che se è encomiabile nella sua vita privata e sa fare pure leggi giuste è ancor meglio).
E’ significativo che nella tradizione della preghiera cristiana (perfino liturgica: si pensi ad un’orazione solenne nel Venerdì Santo, ma anche allo schema della Preghiera dei fedeli nella Santa Messa) ci sia sempre stata la preghiera per i governanti, persino quando fossero stati ostili alla Chiesa e alla vita cristiana (ma se obbligavano a fare cose contrarie alla legge di Dio, non dovevano essere obbediti, anche a costo del martirio).
*E’ altrettanto significativo che nella storia ci siano regnanti (imperatori, re-regine, principi) ma anche politici non solo cattolicissimi ma persino Santi canonizzati, tra cui il loro patrono S. Thomas More (1478-1535), politico inglese che accettò il martirio piuttosto che tradire Cristo e la Chiesa.
Dalla politica, come dai capi di Stato o dai governanti, dobbiamo dunque attendere e pretendere molto, ma non troppo: il vero bene, le leggi morali, il cambiamento dell’uomo e della società, perfino la felicità stessa (il paradiso in terra, come hanno promesso tante ideologie!) non vengono né dalla politica, né dall’economia e neppure dalla scienza, se pretendono di essere superiori alla morale e svincolate da essa. Alla fine si ritorcerebbero sempre contro l’uomo.
La storia ha già dimostrato (specie quella moderna e particolarmente del XX secolo) che tutte le volte che c’è questa pretesa, fino a pensare di costruire l’assoluto nella storia (v. ad esempio la derivazione hegeliana di K. Marx e del socialismo-comunismo) e di farlo con le proprie mani, cioè con le proprie forze e le proprie strutture, cioè quando si pretende di costruire così il “paradiso” in terra, si creano sempre degli “inferni”!
Il primo comandamento può quindi fornire al nostro impegno sociale e politico la chiara consapevolezza che il fondamento dell’uomo e della società è Dio, che il cambiamento dell’uomo e della società nascono anzitutto dall’interno (dalla coscienza, cfr. Mt 25,31-46), che le strutture sociali, politiche ed economiche, possono e devono impegnarsi ad essere sempre più (e sempre di nuovo) giuste e degne dell’uomo, ma che saranno sempre perfettibili (non esisterà mai lo Stato perfetto), riformabili e da riformare (senza però intaccare i valori fondamentali).
23.2 Qual è il compito dell’educazione?
L’EDUCAZIONE
Se dal 1° Comandamento emerge dunque il fondamentale valore (non negoziabile) della “libertà di coscienza” e in particolare della “libertà religiosa”, ne scaturisce pure (come si vedrà meglio in seguito, in riferimento al 4° comandamento), insieme all’obbligo morale di educare la propria coscienza al vero e al bene, il fondamentale valore (anch’esso “non negoziabile”!) e diritto-dovere della “libertà di educazione”.
Questo fa pure capire che l’educazione delle coscienze, propria e altrui (specie di coloro che siamo chiamati ad educare, in particolare i figli e comunque i ragazzi e i giovani, futuro della società), la ricerca della verità e dell’autentico bene, l’aiuto a crescere nel bene (e nelle virtù) e a combattere in se stessi il male (e i vizi), è il primo compito e l’imprescindibile fattore per costruire una vera società, un futuro autenticamente degno dell’uomo e possibilmente sempre migliore. Senza questa preoccupazione, che lo Stato deve promuovere senza pretendere di essere esso stesso l’Educatore, una società è destinata all’autodistruzione.
Per questo motivo nelle società medievali (molto più umane e cristiane di quel che una certa diffusa storiografia anticristiana si ostina a presentarci!) si avvertiva come una distruzione delle coscienze, ad esempio mediante l’insegnamento di dottrine erronee, fosse un pericolo e un crimine persino più grave di chi faceva il male con le proprie azioni. Chi insegna il male fa più danni di colui che lo fa. Abbiamo infatti potuto constatare ad esempio come filosofie erronee del XIX secolo si siano tradotte in sistemi sociali, culturali, economici, politici, e in strutture statali, che hanno provocato nel XX secolo violenze inaudite e centinaia di milioni di morti! Sarebbe stato poi così sbagliato se si fosse impedita la diffusione di certi libri (filosofie) o se si fossero messe comunque le nuove generazioni in grado di essere critiche e di scorgere l’errore e l’enorme potenziale distruttivo di certe dottrine?
Come si vedrà a proposito dell’8° Comandamento, possiamo trovare fin d’ora il fondamento al diritto-dovere di assicurare alle nuove generazioni, ma in fondo anche all’opinione pubblica, una corretta informazione sulla religione, sulla Chiesa, sul suo insegnamento, sulle testimonianze di bene e persino di santità che sempre ha offerto e tuttora offre. Mentre quasi sempre le scuole e gli strumenti di comunicazione di massa, cioè la cultura e mentalità che si vuol diffondere, si oppongono a tutto questo e continuano a presentare, per la storia e per il presente, visioni falsificate, erronee, parziali, perfino caricaturizzate, della fede cristiana e della Chiesa, così che le coscienze – specie delle nuove generazioni – vengono lasciate in preda a ignoranza e pregiudizi tali da renderli persino ignari del patrimonio culturale e di civiltà in cui sono nati, oltre che in uno spaventoso deserto culturale e spirituale (una vera “emergenza educativa”, religiosa, morale e culturale, così da doversi fare di nuovo addirittura una prima evangelizzazione, anche in quei Paesi che sono stati cristiani per due millenni)!
Questo indica con ancor più urgenza il diritto-dovere della libertà di educazione, da garantire anche a livello economico, così da permettere ad esempio una pluralità di percorsi formativi anche nelle scuole di ogni ordine e grado, compreso un più adeguato percorso di informazione e formazione cristiana, specie per le famiglie e i giovani che lo desiderano, o anche per tutti coloro che vogliono meglio conoscere se non altro le radici cristiane della nostra stessa civiltà.
Potremmo in proposito riaffermare il diritto-dovere (ancora garantito dallo Stato Italiano) non solo di un insegnamento religioso cattolico nelle scuole di Stato, che ha comunque una valenza culturale per tutti, ma anche la garanzia di una assistenza spirituale in strutture quali gli ospedali (e case di cura o di riposo) o come nelle caserme.
Infine, un limite alla libertà religiosa deve essere pensato e garantito a tutte quelle forme di religiosità che ledono dei fondamentali diritti umani e sociali (come nel caso di gruppi religiosi violenti) o quelle forme devianti di religione (sétte che riducono in schiavitù psicologica, sataniche, ma anche certe stregonerie, magie, superstizioni) che arrecano oggettivi e gravi danni psicologici, fisici o materiali ai loro adepti, che devono invece essere difesi e garantiti dallo Stato, che pur non può e non deve entrare nel merito dei loro contenuti religiosi, dottrinali o morali.
In riferimento al II Comandamento
“Non nominare il nome di Dio invano”
24. Perché la religione deve essere rispettata da tutti?
Il rispetto della religione
Se le leggi dello Stato non possono e non devono obbligare alcuno a una fede religiosa, possono e devono però difendere la religione (ogni religione), impedendone l’oltraggio. Infatti l’esperienza religiosa è ciò che di più profondo alberga nel cuore dell’essere umano, di ogni tempo e luogo. Per questo l’offesa alla religione può e deve essere proibita anche dalle leggi dello Stato.
Sia pur trasformato e aggiornato nel 2009 (estendendo giustamente questa proibizione ad ogni religione e divinità e persino ai defunti, ma arbitrariamente restringendolo, escludendo ad esempio la Madonna e i Santi), l’art. 724 del Codice Penale italiano recita infatti così: “Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 51,00 a € 307,00. La stessa sanzione si applica a chi compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti”.
Il doveroso rispetto per tutto ciò che è religioso, compreso le sue dimensioni pubbliche e sociali, dovrebbe anche essere esteso, sia pur nella libertà di coscienza e pure nella possibilità di dissenso e di critica, ad un doveroso divieto di oltraggio e diffamazione.
La religione ebraica, a salvaguardia di ciò, ha un’internazionale ed efficacissima Anti-defamation League, in grado ad esempio di far censurare e ritirare qualsiasi pubblicazione venga considerata offensiva del loro credo religioso. La religione musulmana, che assai spesso quando è maggioritaria e assume il potere politico viene di fatto ad imporre il proprio credo religioso e a impedire (come reato, sancito persino dalla pena di morte) una vera libertà religiosa, ha in alcuni Paesi assunto ed esteso in modo arbitrario il reato di “blasfemia”, con il quale quello che potrebbe essere un giusto divieto di oltraggio alla religione diventa di fatto un motivo di persecuzione e di eliminazione di altre fedi religiose (basta talora che due testimoni dicano di aver sentito una persona non essere d’accordo con Maometto perché essa venga denunciata e condannata persino alla pena di morte). Ovviamente in questi casi siamo di fronte a un abuso del dovere dello Stato di difendere la religione e di impedirne l’oltraggio.
Invece in Occidente (specie in Europa), in modo sempre più grave e preoccupante, sembra che si sia instaurata l’indisturbata consuetudine di poter impunemente attaccare, dileggiare, oltraggiare, ridicolizzare il cristianesimo (in particolare la Chiesa Cattolica), anche mediante vere e proprie pressioni culturali e mediatiche, disinformazioni o falsificazioni di dati storici o di attualità, come pure censurando le immense opere di bene che da esso sono scaturite o tuttora sono poste in atto.
Non solo il rispetto della religione – che in questo caso è almeno anagraficamente maggioritaria e che comunque ne ha plasmato la bimillenaria civiltà, diventata peraltro quella portante del mondo – ma lo stesso amore della verità richiederebbe un intervento più deciso di difesa e di salvaguardia, specie ovviamente da parte dei Cattolici, ma in fondo da parte di ogni uomo ragionevole e persino amante della propria storia, civiltà e radici culturali.
In riferimento al III Comandamento
“Ricordati di santificare le feste”
25. Perché il 3° comandamento indica anche il diritto al riposo la domenica?
Il lavoro e il riposo
Sul diritto al lavoro e alla giusta retribuzione ci soffermeremo brevemente a riguardo del 7° comandamento. Ora soffermiamo la nostra attenzione sul diritto al riposo, anche settimanale. Ovviamente nessuna legge dello Stato può obbligare a partecipare alla Santa Messa ogni domenica e festa di precetto (1/1, 6/1, 15/8, 1°/11, 8/12, 25/12), che rimane però un dovere morale; ma non può neppure impedirlo. Infatti lo Stato (l’economia, il lavoro, gli enti) deve garantire che la domenica e in tali feste si possa non lavorare (a meno che non lo richieda la necessità, come nel caso di indispensabili servizi da garantire alla società), permettendo un tempo libero, sia per il riposo, che per i doveri familiari, come per le proprie attività ricreative, sportive, culturali, caritative, e assolvere appunto anche ai propri doveri religiosi.
Come si può capire, qui si pone il diritto/dovere, che lo Stato deve garantire, non solo di più prolungati tempi di riposo dal lavoro durante l’anno (ferie), ma del riposo domenicale.
Anche in questo caso non si può prescindere dalle radici religiose e culturali della propria civiltà, nel caso dell’Occidente dal cristianesimo, poiché il giorno settimanale di festa (di riposo e da santificare) è la domenica (1° giorno della settimana, giorno della Risurrezione di Cristo, e quindi Pasqua settimanale; il nome stesso “domenica”, che significa “giorno del Signore”, nei Paesi di tradizione cristiana latina ha sostituito quello di “giorno del sole”). Nella tradizione ebraica il giorno da santificare è il sabato (il 7°, come recita appunto il 3° comandamento) e nella tradizione musulmana è il venerdì. Come si vede, pur andando incontro il più possibile alle diverse culture e religioni (specie in una società sempre più multietnica e multireligiosa), non si può prescindere dalle radici religiose della propria cultura (sarebbe infatti caotico pensare che uno si astenesse dal lavoro un giorno e uno un altro, o che si istituissero arbitrariamente dei giorni di festa).
Qua si pone la questione del lavoro domenicale: è chiaro che alcuni turni di lavoro debbano essere garantiti anche la domenica, come i servizi sanitari (ospedali, medici di guardia, farmacie) o quelli comunque da garantire alla società, o totalmente (luce, acqua, gas, …) o parzialmente (trasporti pubblici). Si pone invece seriamente la questione, su cui di nuovo si fanno sempre più forti le pressioni economiche e commerciali, dell’apertura dei negozi la domenica e nelle feste principali. Laddove è possibile, è tra l’altro meglio che la domenica si eviti anche di comprare (obbligando in questo modo altri a lavorare).
In fondo il 3° Comandamento fa meglio comprendere all’uomo, obbligando anche al riposo, che il lavoro (necessario non solo per mantenere se e la famiglia, ma anche per esprimere se stesso e le proprie capacità) non può diventare un assoluto, che l’uomo non è semplicemente un lavoratore (homo faber, come viene in fondo inteso dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale in poi, non solo dal liberalismo ma anche dal socialismo), tanto meno una merce di scambio: il lavoro (come la festa) è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro (cfr. Mc 2,27). Il diritto al riposo non è dettato solo dalla necessità di recuperare energie per meglio lavorare, ma per meglio coltivare tutte le dimensioni della vita umana, compreso quella religiosa.
Si potrebbe osservare che l’affermazione del diritto di non lavorare la domenica sia stata una delle tante conquiste sociali, oggi diremmo perfino sindacali, che il cristianesimo ha chiesto, ottenuto e garantito (per tutti) fin dai primissimi tempi.
Vediamo dunque che su questo punto, apparentemente marginale, si evidenzia invece una questione di fondo per la costruzione di una società più degna dell’uomo: che tutto, anche l’economia e il commercio (come del resto la politica, persino la scienza, e in fondo ogni cosa), debba essere a servizio dell’uomo e non viceversa. In fondo c’è la premessa perché persino lo Stato sia al servizio dell’uomo e della società e non viceversa (come invece nello “statalismo moderno”).
Il prevalere dell’economia o dello Stato sulla persona (frutto del pensiero moderno) può generare (e storicamente ha drammaticamente generato) sia un liberalismo/capitalismo dove le logiche di mercato rischiano di opprimere intere classi sociali, sia un socialismo/comunismo dove la singola persona, col pretesto del bene della collettività, rimane nient’altro che una particella dell’ingranaggio (una semplice parte del tutto) senza alcuna dignità e libertà personale. Anche in questo si capisce che un autentico personalismo, che sta alla base della <Dottrina Sociale Cristiana> (ed un conseguente sistema economico detto spesso “misto”), permette un giusto equilibrio tra il diritto/ dovere del lavoro, del riposo, come la garanzia di continui servizi sociali.
CCCC, 454. Perché è importante riconoscere civilmente la domenica come giorno festivo? Perché a tutti sia data la reale possibilità di godere di sufficiente riposo e di tempo libero che permettano loro di curare la vita religiosa, familiare, culturale e sociale; di disporre di un tempo propizio per la meditazione, la riflessione, il silenzio e lo studio; di dedicarsi alle opere di bene, in particolare a favore dei malati e degli anziani (CCC, 2186-2188; 2194-2195).
In riferimento al IV Comandamento
“Onora il padre e la madre”
26. Perché la famiglia è prioritaria ed è un valore non negoziabile?
La famiglia
E’ quanto mai significativo che il primo Comandamento che riguarda l’amore del prossimo si riferisca alla famiglia, i cui diritti/doveri sono poi persino ripresi dal 6° e 9° Comandamento.
Già questo fa capire quanto la famiglia sia importante agli occhi di Dio, e che costituisca la cellula fondamentale della società e perfino della Chiesa. Del resto anche una corretta e razionale analisi della vita umana lo fa ben comprendere.
Al di là dell’unicità/irripetibilità e della libertà di ciascuna persona – per cui anche ogni figlio è un caso a sé e la sua libertà può far sì che si comporti poi male anche se è stato bene educato o si comporti bene anche se non ha avuto buoni genitori – è evidente che l’accoglienza, la crescita, la buona educazione e la corretta maturazione dei figli, e quindi della società di domani, dipenda in massima parte dalla famiglia di provenienza. Per cui famiglie buone significa per il presente e per il futuro società buone; e famiglie distrutte o non buone siano una delle cause principali non solo della non buona vita del figlio ma anche dell’intera società. Sulla situazione (non solo economica!) delle famiglie e sulla loro capacità educativa si basa dunque gran parte della bontà o meno della vita sociale, presente e futura.
Visto però la crescente attuale “confusione” anche in rapporto a questo valore fondamentale, dobbiamo purtroppo precisare (lo può comprendere benissimo anche la sola ragione e persino il buonsenso, ma ci illumina ulteriormente la Rivelazione divina) che per famiglia si intende l’unione stabile di un uomo e di una donna.
Gesù ha istituito per la costruzione della famiglia un “sacramento” apposito, quello del Matrimonio (con una grazia specifica; per questo si diventa marito e moglie ai suoi occhi solo mediante esso), l’ha restituita alla sua dignità originaria – ed è significativo che sia l’unico caso in cui Gesù si riferisce esplicitamente alla creazione, proprio per fondare il matrimonio e la sua indissolubilità (cfr. Mt 19,4-5), così che possiamo riconoscere che esso ha una base anche naturale, che ognuno con la sua ragione può capire – chiarendo che il Matrimonio vero è una unione d’amore unica (matrimonio monogamico, tra un uomo e una donna) e indissolubile (solo la morte di uno dei due coniugi può scioglierlo e rendere liberi per un nuovo eventuale matrimonio).
La possibilità estrema della separazione, contemplata anche dalla morale cristiana, cioè la dove, specie per il bene dei figli, lo stare insieme sia più dannoso che utile, lascia sempre aperta (a differenza del divorzio) la possibilità – da cercarsi con ogni mezzo, naturale e spirituale – di riunificazione e di risanamento di quelle cause che hanno portato alla rottura (cause che devono ben essere esaminate ancor prima di sposarsi, se possibile).
Ricordiamo, visti i frequenti equivoci in merito, che la Chiesa (neppure il Papa) può “annullare” un Matrimonio, in quanto sacramento operato da Cristo stesso. Il “riconoscimento di nullità”, che in certi casi può essere anche canonicamente attestato (dopo attento Processo), è appunto il riconoscimento che “al momento della celebrazione del Matrimonio” la mancanza di qualche fattore decisivo lo rendeva di fatto invalido, cioè nullo.
Non solo la famiglia, composta stabilmente da un uomo e una donna e aperta al dono della vita (procreazione), ma la stessa indissolubilità del matrimonio, sono solennemente affermati da Gesù, con decisione e senza possibilità di eccezione. Essendo esplicitamente affermata da Gesù, vero Dio e vero uomo (in questo caso non c’è neppure bisogno della mediazione della Chiesa per poter comprendere la volontà di Dio), come cristiani non abbiamo dubbi che questa sia la verità, cioè il vero bene dell’uomo e della società. Ma appunto anche la ragione, cioè per via naturale, può capire il valore dell’unicità e indissolubilità del matrimonio (un amore vero non è mai percepito come condivisibile con terze persone o a tempo determinato), come pure l’ovvia complementarietà (biologica e psichica, in vista della procreazione) e non sostituibilità della mascolinità e femminilità (marito/padre-maschio e moglie/madre-femmina). Per questo la monogamia e l’indissolubilità, oltre all’insostituibile componente maschile e femminile, del matrimonio, fondamento della famiglia, sono anche valori decisivi, validi e proponibili per la vita di tutti, quindi propri della Dottrina sociale della Chiesa. Anzi, la promozione e la difesa dell’autentica famiglia, oggi drammaticamente definita semplicemente come “tradizionale”!, è proprio uno dei 4 valori non negoziabili, su cui cioè non si può scendere a compromessi (neppure politici!), in quanto decisivi per il bene della vita di tutti e della società.
Una vera politica deve dunque far di tutto per sostenere (anche economicamente) la vera famiglia, fondata sul matrimonio stabile di un uomo e di una donna.
Il fatto che molte attuali legislazioni (come in Italia dal 1974) permettano lo scioglimento del matrimonio e consentano divorzi e nuovi matrimoni, anzi sempre più rapidamente e facilmente, mina alla base l’autentico bene delle persone e della società. Semmai lo Stato dovrebbe sostenere tutto ciò che può aiutare a formarsi una vera famiglia, difendere l’amore e la famiglia anche da tutti gli attacchi di una cultura ad essa avversa (anche attraverso i media), prestare aiuti (concreti, economici, psicologici, anche attraverso i “Consultori familiari”), onde aiutare a rimuovere a monte tutto ciò che può rendere l’amore fragile (come anche un’errata educazione sessuale, una divulgazione esasperata della pornografia e di una sessualità sempre più staccata dal suo autentico significato) e può condurre più facilmente alla distruzione delle famiglie.
CCCC, 457. Quale posto occupa la famiglia nella società? La famiglia è la cellula originaria della società umana e precede qualsiasi riconoscimento da parte della pubblica autorità. I principi e i valori familiari costituiscono il fondamento della vita sociale. La vita di famiglia è un’iniziazione alla vita della società (CCC, 2207-2208).
CCCC, 458. Quali doveri ha la società nei confronti della famiglia? La società ha il dovere di sostenere e consolidare il matrimonio e la famiglia, nel rispetto anche del principio di sussidiarietà. I pubblici poteri devono rispettare, proteggere e favorire la vera natura del matrimonio e della famiglia, la morale pubblica, i diritti dei genitori e la prosperità domestica (CCC, 2209-2213; 2250).
26.1 – Perché lo Stato deve promuovere e difendere la vera famiglia?
Dunque anche lo Stato, attraverso le sue leggi, la politica, l’economia – pur garantendo ovviamente dei diritti fondamentali anche alle singole persone – deve far di tutto per promuovere e difendere l’autentico Matrimonio, tra un uomo e una donna, libero (nessuno può esservi costretto), il più possibile stabile (il meglio è difenderne anche l’indissolubilità) e aperto alla vita (procreazione). Convivenze e coppie di fatto indicano invece una precarietà (peraltro scelta, che pretende godere dei diritti degli sposi senza assumersene i doveri) che è cosa ben diversa dal valore del matrimonio e che rendono assai più fragile e vulnerabile non solo la vita degli eventuali figli, ma l’intera società, presente e futura. Le coppie omosessuali, che potenti gruppi culturali ed economici oggi vogliono promuovere fino a volerle dichiarare “matrimoni a tutti gli effetti” (compreso quello di adottare figli, perché almeno in questo è evidente che siamo contro-natura e che in questi casi non si possa biologicamente procreare!), oltre ad essere quasi sempre dentro questa precarietà (perché è tutto da dimostrare che ci possa essere un amore sponsale e per di più stabile tra persone dello stesso sesso, oltre ad essere moralmente illecito), sono poi dentro l’impossibilità assolutamente evidente di procreare, e quindi di permettere alla società stessa quel bene primario che sono i figli e quindi il futuro stesso della società. Inoltre, il presunto e inconsistente diritto “al figlio”, quasi fosse un oggetto, non tiene anche in questo caso assolutamente conto del diritto “del figlio” (questo sì un diritto reale), del suo autentico bene, quale quello di una armonica crescita anche psicologica e una educazione che preveda, come natura (e persino psicologia) vuole, una padre-maschio e una madre-femmina.
Il relativismo etico dominante, sempre più incapace di dare giudizi di valore (anzi vietandoli!), va però incontro alle solite contraddizioni (è in fondo impossibile fare leggi che siano valide per tutti – per cui la democrazia diventa sinonimo di anarchia – ed è invece obbligatorio essere relativisti), per cui il presunto diritto di convivere o mettere su a piacimento famiglie di ogni tipo, dovrebbe coerentemente ammettere la “poligamia” (peraltro ammessa nella tradizione e perfino nel diritto musulmano, se si tratta ovviamente solo di quella maschile, perché per quella femminile c’è la pena di morte!) e perfino le più pervertite forme di convivenza sessuale (a tre persone, quattro, … c’è chi persino già ipotizza il diritto di convivenze sessuali con gli animali domestici!!).
Lo Stato – pur promuovendo i reali (non presunti, come ad esempio il “diritto al figlio”) diritti di ciascuno, chiedendo però ovviamente pure l’obbedienza ai relativi doveri – deve promuovere con tutti i mezzi a sua disposizione l’autentica famiglia, i suoi diritti, come pure la possibilità (anche economica), all’interno della famiglia, di mettere al mondo i figli.
[v. “Carta dei diritti della famiglia”, Pontificio Consiglio per la famiglia, 24.11.1983]
Oltre al dovere di legiferare politicamente per promuovere la vera famiglia e la procreazione, si può cogliere anche quanto ciò debba tradursi in scelte concrete anche dal punto di vista economico e fiscale (sia da parte dello Stato che da parte dei datori di lavoro). Pensiamo ad esempio alla questione della retribuzione (è giusto che sia uguale tanto per un single come per chi non ha un impegno stabile di famiglia, come per chi ha invece famiglia e ha uno o più figli da mantenere, magari anche con persone disabili o anziani a carico?) e degli assegni familiari (no irrisori ma sostanzialmente diversi in base al numero dei figli), delle esigenze abitative, assicurative, sanitarie. Non è poi giusto che il lavoro della “casalinga” sia considerato un non-lavoro (disoccupata), quando invece è decisivo per il buon andamento della famiglia e l’educazione dei figli, costringendo a lavorare in due (anche con orari impossibili per la famiglia e l’educazione dei figli), a sobbarcarsi la spesa di asili (nido, asili, scuole a tempo pieno, con relativa spesa dello Stato per il pagamento degli insegnanti), o di costringere i nonni a fare di nuovo i genitori (coi nipoti) per anni anche quando la salute o le forze magari non lo permettono più (ammesso che abbiano goduto della possibilità di andare in pensione!).
Una particolare importanza, in riferimento alla famiglia, è il diritto di avere un lavoro, una casa, l’assistenza sanitaria e il sistema previdenziale che deve garantire per tutti gli anziani il diritto di una pensione equa, con tutto quel che comporta per la politica e l’economia [su questo v. pure 7° Com.].
Particolarmente decisiva, non solo come diritto fondamentale della famiglia ma anche per il futuro stesso della società, è la questione della natalità, che non solo deve essere promossa e agevolata in tutti i sensi, anche a livello economico, ma che deve avere addirittura una priorità in politica e in economia.
Va infatti sfatata la leggenda che l’aumento demografico di un Paese (o anche a livello planetario) creerebbe problemi economici (più bocche da sfamare, meno lavoro per tutti; va infatti osservato che, oltre al necessario ricambio generazionale, pena l’eccessivo invecchiamento e l’estinzione stessa della società, più figli significa anche socialmente più forza lavoro, che va certo garantito per tutti – questi erano valori evidenti nella civiltà contadina) e come tale anche maggiore possibilità di far fronte alla spesa per garantire la pensione agli anziani (meno lavoratori significa anche meno pensioni). Se ad esempio in Italia in questi ultimi decenni non ci fosse stata, a rimedio della impressionante denatalità, una forte immigrazione, lo Stato (e il sistema pensionistico) avrebbe già fallito da tempo! Le politiche a favore della famiglia e della natalità, oltre ad essere un diritto dei cittadini e un dovere dello Stato, sono anche un ottimo investimento per il futuro. Questo comporta certo l’impegno massimo a garantire ai giovani il diritto al lavoro, alla casa, alla possibilità stessa (economica) di metter su famiglia e di avere dei figli.
27. Perché quello della “libertà di educazione” è un diritto-dovere fondamentale (e un valore non negoziabile)?
La libertà di educazione
La famiglia, in ordine di importanza, viene prima dello Stato e di ogni corpo intermedio (gruppi sociali). E secondo il “principio di sussidiarietà” lo Stato (come anche i corpi intermedi) non può e non deve assumersi dei compiti e delle responsabilità che sono della famiglia stessa, ma deve solo sostenerli e promuoverli (certo per tutti, in base al “principio di solidarietà”).
La famiglia ha dunque la priorità sullo Stato, sulla politica, sull’economia, sul lavoro (persino sul tempo libero).
In proposito, un punto particolarmente importante, così da essere uno dei 4 “valori non negoziabili” della Dottrina sociale della Chiesa, è la libertà d’educazione. Qui si manifesta un banco di prova particolarmente significativo dell’attuazione o meno del principio di sussidiarietà (purtroppo non ancora adeguatamente applicato neppure in Italia!) e di quello di solidarietà .
Il primo e fondamentale agente educativo delle nuove generazioni è infatti la rispettiva famiglia.
Nella dottrina marxista (nel socialismo/comunismo, ma persiste anche nelle moderne politiche di sinistra), così come in ogni dittatura, il principale agente educativo deve invece essere lo Stato (statalismo).
L’educazione umana, morale, religiosa, sessuale, civica spetta dunque primariamente alla famiglia.
Fino alla maggiore età spetta ai genitori la scelta dei principi e dei contenuti educativi da dare ai figli. Questo significa che è un diritto fondamentale della famiglia quello di avere anche delle scuole che rispecchino tali principi. Per i giovani (ad esempio gli universitari) tale scelta di indirizzo spetta a loro stessi.
Questo significa che, se lo Stato deve garantire a tutti (secondo il principio di solidarietà) la possibilità effettiva (quindi anche economica) di studiare – secondo un “diritto allo studio”, che prevede un livello di base addirittura obbligatorio per tutti, la cosiddetta “scuola dell’obbligo”, ed un livello ulteriore in base alle capacità dello studente stesso – non può invece pretendere di imporre dei propri modelli o percorsi educativi (indirizzi culturali, religiosi, persino ideologici, per sé neppure programmi), fatto salvo ovviamente il dovere dello Stato di garantire (per il bene comune) che la preparazione professionale specifica da raggiungere sia adeguata. Ciò comporta che si debba garantire sia una pluralità di indirizzi culturali e percorsi formativi all’interno delle scuole gestite direttamente dallo Stato (scuole pubbliche statali), che una pluralità di scuole con propri percorsi formativi (scuole pubbliche non statali, erroneamente dette “private” perché in realtà anch’esse svolgono un servizio “pubblico”). Questa pluralità, secondo il principio di sussidiarietà, deve essere garantita non solo permettendo giuridicamente che esistano questi diversi tipi di scuola (cosa garantita in Italia), ma anche distribuendo le medesime risorse finanziarie (cosa non garantita in Italia) ai diversi tipi di scuola (statale o non statale), non creando alcuna discriminazione economica, così che chi sceglie una scuola non statale sia discriminato dovendo ripagare da capo le spese che comporta (il che significa o non potervi accedere o che vi possano accedere solo coloro che se lo possono economicamente permettere). Tra l’altro è dimostrato che là dove si applica questo fondamentale diritto (ad esempio in quasi tutta l’Europa), lo Stato non spende di più ma di meno.
L’obiezione che in questo modo si creerebbero dei “ghetti” culturali, ideologici o religiosi, nasce dal pregiudizio (già sottolineato) che un percorso formativo possa essere neutrale e applicabile a tutti (cosa impossibile; anzi assai spesso – come la storia dimostra – sotto il pretesto di un percorso uguale per tutti si fanno passare ben precisi indirizzi culturali, filosofie, visioni dell’uomo, della storia, della realtà; e questo persino con indiscutibili percorsi di formazione degli stessi insegnanti, come nelle impostazioni culturali dei libri di testo). L’autentica ricerca e l’appassionato studio della verità, in tutti i campi, non teme invece, pur all’interno di precisi percorsi formativi, un autentico dialogo (come la vera filosofia insegna, da Platone in giù) e un reale confronto culturale. Semmai proprio una vaga panoramica su tutto, con la pretesa neutralità (che invece neutralità non è), senza compiere un vero cammino di approfondimento, conduce ad un esito scettico (su tutto si può dire tutto e il contrario di tutto), che è proprio lo scopo dell’ideologia relativista, e che purtroppo è quasi sempre la conclusione cui giungono gli studenti oggi.
Lo Stato Italiano, nonostante il diritto garantito dalla Costituzione Italiana (art. 33), non ha mai posto in atto (contrariamente alla maggior parte dei Paesi europei) una vera e propria libertà di educazione, nel senso che la porzione di gettito fiscale (pagata quindi già da tutti i cittadini) destinata per l’istruzione, non viene ripartita equamente tra tutte le scuole presenti sul territorio (dagli asili alle università), ma di fatto finanzia solo chi sceglie la scuola statale, non garantendo quindi una vera libertà di scelta, cioè appunto la libertà di educazione sancita dalla Costituzione.
L’accusa che le scuole non-statali (erroneamente dette “private”) siano troppo costose, e la diceria che tali prezzi garantirebbero automaticamente una promozione (scuole per i “ricchi”, scuole per chi “compra” i titoli di studio), è dovuta proprio a questa ingiusta ripartizione di risorse finanziarie statali; quindi esattamente il contrario di quel che molti pensano e dicono.
Facciamo un po’ di conti sull’attuale (dati 2009) spesa dello Stato Italiano per la Pubblica Istruzione (Ministero) e come venga ripartita tra scuole statali e scuole non statali. Ciascuno studente nelle sue scuole (statali) costa € 6.351 nelle scuole d’infanzia e primarie e € 6.888 nelle scuole secondarie (di 1° e 2° grado); mentre per ciascuno studente nelle scuole non-statali (paritarie) spende € 610 nelle scuole d’infanzia e primarie e € 60 nelle scuole secondarie (di 1° e 2° grado). Quindi lo Stato risparmia per ciascuno studente che sceglie le scuole non-statali (paritarie) € 5.741 nelle scuole d’infanzia/primarie e € 6.828 nelle scuole secondarie. Il che significa che lo Stato risparmia complessivamente per tutti gli studenti nelle scuole non-statali (paritarie) circa 6 milioni di euro (€ 4.784.000 per le scuole di infanzia e primarie e € 1.550.000 per le per scuole secondarie di 1° e 2° grado). Si tratta di una palese ingiustizia. Se poi lo Stato, oltre a non dare il dovuto alle scuole non statali (ricordiamo che sono soldi dei cittadini, anche dei genitori che scelgono tali scuole! ma secondo la visione “statalista” sembra quasi che in tal caso lo Stato concederebbe privilegi), pretendesse pure di tassarle ulteriormente (2012) l’ingiustizia sarebbe ancora più forte, così da indurle addirittura a chiudere per l’impossibilità di sostenere le spese o per non dover chiedere rette vertiginose e impossibili; ma se chiudessero lo Stato non sarebbe in grado di far fronte ai costi che gli stessi studenti richiederebbero se passassero alle scuole statali!
28. Che significato ha l’autorità? Perché e fino a quando va rispettata?
L’autorità
Il 4° Comandamento, oltre alla famiglia e ai doveri dei figli verso i genitori (obbedire) e dei genitori verso i figli (allevare ed educare), può riferirsi anche alla questione dell’autorità, anche di quella civica, pubblica, statale (e pure negli ambienti di studio e di lavoro) e al dovere morale e civile di obbedirla, come del dovere dell’autorità di svolgere bene ed equamente il proprio compito.
E’ significativo che nella tradizione cristiana si preghi per l’autorità pubblica, anche quando fosse avversa al cristianesimo e al bene. C’è inoltre la consapevolezza che una vera autorità sia un dono di Dio (da chiedere nella preghiera) e prenda da Lui il suo vero significato e legittimità.
Nessuna autorità, però, nemmeno quella dello Stato (neppure della maggioranza in democrazia), può comandare il male, può cioè obbligare a fare il male. Anche in questo si capisce che l’autorità umana (neppure la democrazia) non è un assoluto, ma dipende da Dio, cioè dipende dall’ordine morale inscritto da Dio nella natura umana e che l’uomo anche con la sola sua ragione può in gran parte comprendere (questo significa l’espressione di Gesù “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, Mc 12,17).
Infatti, qualora l’autorità non solo tollerasse il male ma comandasse di farlo, va disobbedita (“dobbiamo obbedire a Dio e non agli uomini”, risponde infatti Pietro all’autorità ebraica, cfr. At 4,19 e 5,29), anche a costo del “martirio”. In tal caso anche lo Stato (o chi per esso) perde la legittimità della propria autorità. Questo principio vale persino per l’obbedienza ai genitori.
Per questo, lo Stato deve garantire in tal caso almeno l’obiezione di coscienza.
Può capitare ad esempio che lo Stato, anche per volere della maggioranza dei cittadini, non consideri più un reato come tale (come ad esempio nel caso dell’aborto, cioè dell’uccisione del bambino nel grembo materno – e si tratta dunque di un valore e diritto fondamentale, come il diritto alla vita, cioè appunto un valore “non negoziabile”), che giunga persino a considerarlo un diritto (!). Rimane l’obbligo morale di impedire in tutti i modi politici che si legiferi in tal senso, cioè che si facciano leggi che lo permettano, così come deve essere fermo e costante l’impegno di abrogare tali leggi (e se non è politicamente ancora possibile raggiungere tale risultato, di limitarne il più possibile i danni). Se invece si obbligasse (un medico, un ospedale) a compierlo, senza la possibilità di “obiezione di coscienza”, si deve fare disobbedienza civile, anche a costo della denuncia, dell’arresto e persino del martirio.
CCCC, 405. Su che cosa si fonda l’autorità nella società? Ogni comunità umana ha bisogno di un’autorità legittima, che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune. Tale autorità trova il proprio fondamento nella natura umana, perché corrisponde all’ordine stabilito da Dio (CCC, 1897-1902; 1918-1920).
CCCC, 406. Quando l’autorità è esercitata in modo legittimo? L’autorità è esercitata in modo legittimo quando agisce per il bene comune e per conseguirlo usa mezzi moralmente leciti. Perciò i regimi politici devono essere determinati dalla libera decisione dei cittadini e devono rispettare il principio dello «Stato di diritto», nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini. Le leggi ingiuste e le misure contrarie all’ordine morale non sono obbliganti per le coscienze (CCC, 1901; 1903-1904; 1921-1922).
CCCC, 463. Come va esercitata l’autorità nei vari ambiti della società civile? Va sempre esercitata come un servizio, rispettando i diritti fondamentali dell’uomo, una giusta gerarchia dei valori, le leggi, la giustizia distributiva e il principio di sussidiarietà. Ognuno, nell’esercizio dell’autorità, deve ricercare l’interesse della comunità anziché il proprio, e deve ispirare le sue decisioni alla verità su Dio, sull’uomo e sul mondo (CCC, 2234-2237; 2254).
CCCC, 464. Quali sono i doveri dei cittadini nei confronti delle autorità civili? Coloro che sono sottomessi all’autorità devono considerare i loro superiori come rappresentanti di Dio, offrendo loro leale collaborazione per il buon funzionamento della vita pubblica e sociale. Ciò comporta l’amore e il servizio della patria, il diritto e il dovere di voto, il versamento delle imposte, la difesa del paese e il diritto a una critica costruttiva (CCC, 2238-2241; 2255).
CCCC, 465. Quando il cittadino non deve obbedire alle autorità civili? Il cittadino non deve in coscienza obbedire quando le leggi delle autorità civili si oppongono alle esigenze dell’ordine morale: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) (CCC, 2242-2243; 2256).
28.1 – Una vera “democrazia” deve avere dei limiti? quali?
La democrazia
Possiamo in proposito comprendere che anche la democrazia, per sé un sistema politico auspicabile (senza dimenticare che un ottimo sovrano sarebbe comunque un dono e un bene per tutti, come la storia talora ha dimostrato, addirittura con regnanti santi!), ha i suoi limiti: non può essere infatti sinonimo di “relativismo etico” (cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, 1993, n. 101), come se non esistesse una morale naturale oggettiva a cui dobbiamo comunque rifarci e dovessimo decidere di volta in volta cosa è bene e cosa è male in base alle provvisorie maggioranze parlamentari del momento (questa visione della democrazia la rende di fatto sinonimo di anarchia; ma la riprova che non è così, che cioè non si decidono di volta in volta i principi fondanti della vita pubblica, è che essi sono stabiliti ad esempio dalla Costituzione – e a livello internazionale anche da altre Carte dei diritti – e che non viene cambiata ad ogni legislatura e in base alle diverse maggioranze parlamentari, ma solo in rarissimi casi e in modo assai ridotto).
Possiamo includere qui il dovere morale, civile e politico di fare leggi giuste (e la Dottrina sociale della Chiesa ci illumina proprio su cosa sia “giusto”), eleggendo persone che le promuovano; e che si facciano rispettare.
Il caso di leggi ingiuste – tranne il caso sopra menzionato di obbligo ad un grave male morale – richiede che si faccia ogni sforzo perché siano cambiate; ma mentre ci sono vanno rispettate, altrimenti la società diventerebbe anarchica e ciascuno potrebbe farsi legge a se stesso.
Non è nemmeno possibile che si cerchi una privata compensazione, come ad esempio chi dicesse: c’è una tassa ingiusta e io non la pago o trattengo il corrispondente in altra forma; devo semmai fare di tutto, politicamente parlando, perché tale legge ingiusta sia soppressa o modificata.
In riferimento al V Comandamento
“Non uccidere”
CCCC, 470. Che cosa proibisce il quinto Comandamento? (CCC, 2268-2283; 2321-2326).
Il quinto Comandamento proibisce come gravemente contrari alla legge morale:
– l’omicidio diretto e volontario, e la cooperazione ad esso;
– l’aborto diretto, voluto come fine o come mezzo, nonché la cooperazione ad esso, pena la scomunica, perché l’essere umano, fin dal suo concepimento, va rispettato e protetto in modo assoluto nella sua integrità;
– l’eutanasia diretta, che consiste nel mettere fine, con un atto o l’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte;
– il suicidio e la cooperazione volontaria ad esso, in quanto è un’offesa grave al giusto amore di Dio, di sé e del prossimo: quanto alla responsabilità, essa può essere aggravata in ragione dello scandalo o attenuata da particolari disturbi psichici o da gravi timori.
29. Perché il rispetto della vita umana (dal concepimento alla morte naturale, in qualsiasi condizione essa sia) è un valore fondamentale e non negoziabile?
Il rispetto della vita umana
In questo caso è evidente che ciò che vieta il 5° Comandamento come “peccato” debba essere considerato anche “reato” dalla società civile, anche da parte e per i non-credenti.
Poiché purtroppo l’uomo è capace non solo di disobbedire anche a questo comando, ma in alcuni casi persino di renderlo possibile per legge, fino addirittura a volerlo chiamare “diritto” (come nel caso dell’aborto o dell’eutanasia), allora dobbiamo fare alcune precisazioni.
Nello stesso tempo dobbiamo anche capire meglio ciò che è implicito in questo comandamento “non uccidere”; e persino ciò che invece non vi è immediatamente incluso.
Trattandosi del diritto fondamentale alla vita, dal quale dipendono poi tutti gli altri diritti (e non rispettando il quale sarebbe difficile poter fondare poi gli altri diritti: lavoro, proprietà, assistenza sanitaria, pensione, riposo, ecc.), siamo anche in questo caso e più che mai di fronte ad un valore non negoziabile (cioè non è possibile su questo scendere a compromessi, anche a livello politico).
CCCC, 466. Perché la vita umana va rispettata? Perché è sacra. Fin dal suo inizio essa comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. A nessuno è lecito distruggere direttamente un essere umano innocente, essendo ciò gravemente contrario alla dignità della persona e alla santità del Creatore. «Non far morire l’innocente e il giusto» (Es 23,7) (CCC, 2258-2262; 2318-2320).
Nessuno è proprietario della vita di un altro essere umano, che deve essere rispettato in tutto, a cominciare appunto dalla vita stessa.
Uccidere un essere umano innocente (omicidio) deve essere vietato e perseguibile anche per legge.
30. Perché dobbiamo essere sempre contrari all’aborto?
L’aborto
Se sul divieto dell’omicidio sembrerebbe facile trovare un generale consenso, purtroppo invece questa convinzione crolla in moltissime persone quando si parla della soppressione della vita umana quando è ancora nella fase prenatale (aborto), quindi quando si tratta proprio del più innocente, fragile e indifeso degli esseri umani; e poiché fa paura dover ammettere che si tratta anche in questo caso di un vero e proprio omicidio, cioè della soppressione di una vita umana, allora si mente dicendo che non è ancora una vera vita umana.
In realtà questa posizione – contraria all’evidenza scientifica (medica, biologica, ginecologica) – va incontro a enormi contraddizioni: chi deve allora decidere quando comincia una vita umana? Un parlamento (uno che dice 3 mesi, uno che dice 2, un altro che dice 4 … in base alle maggioranze parlamentari del momento)? C’è addirittura chi comincia a teorizzare al momento della nascita (parlando di aborto post-nascita!). Se poi parlassimo di dimensioni, potremmo allora dire che per 18 anni (maggiore età) un uomo non è allora ancora pienamente uomo. Se poi parlassimo di “facoltà mentali”, allora dovremmo escludere che siano esseri umani tutti coloro che anche in vita hanno deficienze di questo tipo!
Tutto questo per negare l’evidenza scientifica (se non bastasse la ragione, la coscienza e il buon senso) che da quando uno spermatozoo entra in un ovulo e lo feconda (concepimento, cioè subito)
tale prodotto del concepimento non è più semplicemente la somma di due patrimoni cromosomici, non è più un prodotto, ma un nuovo essere umano, che ha inscritto in sé allo stato germinale tutto ciò che progressivamente sarà, basta che riceva alimentazione dalla madre (biologicamente è un essere-altro dalla madre – persino come gruppo sanguigno, ha prestissimo un suo cuore che batte e persino le proprie uniche e irripetibili impronte digitali – pur essendo 9 mesi nella madre), così come ancora per molti anni dopo la nascita dipenderà da altri (genitori) per continuare a crescere e vivere. Non esiste dunque alcun motivo scientifico per negare che l’embrione (feto) sia pienamente un essere umano; e quindi sopprimerlo è un omicidio a tutti gli effetti.
Una volta allora tenuto presente di che cosa si stia effettivamente parlando quando parliamo di aborto, cioè della soppressione violenta di un essere umano (tra l’altro del più innocente e indifeso), allora si può capire come non esista alcuna ragione per farlo. Del resto si capisce che non esisterebbe infatti alcuna ragione per ucciderlo una volta che fosse invece già nato!
Occorre tenere presente questo anche di fronte ai casi più gravi (che in genere si presentano per giustificare l’aborto e per far passare leggi abortiste, che poi di fatto lo permettano per qualsiasi motivo). Quel bambino è il frutto di una violenza sessuale? Il reo è il violentatore; di fronte a questo non può essere condannato a morte proprio il bambino (figlio) innocente. Siamo sicuri (cosa scientificamente molto rara, con infatti numerosissimi casi di errore) che il bambino ha gravi malformazioni? è motivo sufficiente per ucciderlo? Lo faremmo con un bambino di un anno? Vogliamo selezionare la specie (eugenetica)? Rischia di morire il bambino? Allora lo uccidiamo noi? Rischia di morire la madre? Normalmente le madri preferiscono morire loro piuttosto che uccidere i propri figli per vivere loro (se la casa incendiasse e non ci fosse il tempo di salvarsi entrambi, una madre quasi istintivamente sceglie di salvare piuttosto la vita del figlio!) …
Tenendo poi presente che un concepimento non è una malattia che capita, ma il frutto di un’unione sessuale normalmente voluta (e tale unione deve essere vissuta responsabilmente, considerando che la vita vi è naturalmente inscritta – ma non entriamo qua nel merito della questione morale della “contraccezione”), anche se fosse un bambino non desiderato o fosse difficile accoglierlo e allevarlo (perché il padre e la madre non sono sposi o non vogliono esserlo – anche se il bambino ha pure il diritto di avere un padre e una madre stabili – oppure perché non hanno realmente le possibilità economiche per allevarlo) semmai è possibile affrontare e risolvere i problemi in altro modo (adozione, in Italia si può anche partorire e far adottare il bambino in modo anonimo, oppure esistono sistemi di aiuto economico – come il progetto Gemma del Movimento per la Vita – per un certo periodo), non certo uccidendo il bambino stesso!
Esistono gli aborti clandestini? Ma quando mai una legge dello Stato renderebbe legale un reato (ad esempio un furto, un omicidio) semplicemente per non farlo fare di nascosto? Semmai deve fare tutto il possibile perché non ci siano reati nascosti (o per cercare di risolvere a monte ciò che può portare a commettere un reato) non legalizzandoli (ad esempio: uno ruba perché ha fame? semmai lo Stato lo deve aiutare a risolvere il problema economico, non legalizzando il furto).
Quando poi la menzogna si copre di nuove altisonanti parole per negare e contraffare la realtà (il diritto all’aborto, una questione di libertà, di autodeterminazione della donna, persino della “salute riproduttiva”, una conquista irreversibile di civiltà) allora va appunto anzitutto richiamata la realtà: non può esserci alcun diritto, libertà, autodeterminazione, salute, civiltà nell’uccidere un bambino (figlio) innocente!
Insomma non si capisce la gravità del problema fino a quando non si ammette che il figlio ha cominciato ad esistere (anche per la scienza) dal momento del concepimento.
CCCC, 472. Perché la società deve proteggere ogni embrione? Il diritto inalienabile alla vita di ogni individuo umano, fin dal suo concepimento, è un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione. Quando lo Stato non mette la sua forza al servizio dei diritti di tutti e in particolare dei più deboli, tra i quali i concepiti ancora non nati, vengono minati i fondamenti stessi di uno Stato di diritto (CCC, 2273-2274).
30.1 – Perché il rispetto della vita deve prevalere sul rispetto dell’opinione altrui (pur dovendo accettarne democraticamente l’espressione)?
Nessun cattolico (sia elettore che eletto), come del resto ogni uomo che ben ragioni, può essere d’accordo con una legge che permette l’aborto, né votarla, né tanto meno proporla. Nessun compromesso è possibile (è un valore fondamentale, non “negoziabile”). Qualora non si potesse ottenere questo, perché ad esempio non si ha la maggioranza parlamentare per poterlo fare – anche se il diritto alla vita è talmente fondamentale che non dovrebbe neppure essere messo ai voti! – si deve fare tutto il possibile per limitarne al massimo i danni. Lo Stato deve comunque garantire a chiunque (singoli e istituti) almeno la possibilità della “obiezione di coscienza”.
Chi dice “io la penso così ma no posso obbligare tutti a pensarla così e impedire ad altri di fare quello che vogliono (anche aborti)” (v. questione già posta altrove in questo documento) non si accorge che è invece doveroso fare leggi che impediscano di fare il male (anche per quelli che non ne sono convinti e che se non c’è una legge che lo vieta lo fanno!), addirittura di uccidere (nessuno oserebbe infatti dire la stessa cosa a riguardo dell’uccisione di un adulto! ma il punto è proprio quello che si rischia di non accorgersi più di cosa stiamo parlando quando parliamo di aborto).
Ogni anno nel mondo ci sono 44 milioni di aborti (fonte: comunicato su Lancet dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Guttmacher Institute, dato riferito al 2008). Una tragica, immensa, silenziosa strage degli innocenti!
La legge 194, che dal 22.05.1978 “regola” in Italia il ricorso all’aborto, è stata ed è un dogma laicista intoccabile e indiscutibile (i famosi dogmatici “quella legge non si tocca!”, spesso gridati proprio da coloro che invece predicano continuamente il relativismo). Promossa negli anni ’70 dalla mentalità libertaria e radicale, indicando – come sempre in questi casi – la sua necessità per far fronte ai casi pietosi limite (donne violentate o in pericolo di vita, bambini mostri; si utilizzò persino la fuoriuscita di “diossina” da un’industria della Brianza nel 1976, per indurre le donne gravide della zona ad abortire perché quella sostanza avrebbe fatto nascere dei mostri, cosa risultata falsa!) e numeri esorbitanti sui presunti aborti clandestini (addirittura numeri che sarebbero corrisposti ad un aborto annuo per tutte le donne italiane in età fertile), fu approvata dal Parlamento in un frangente rovente, cioè a 12 giorni dall’uccisione di Aldo Moro, quindi all’apice degli “anni di piombo” del terrorismo rosso (Brigate Rosse). Un referendum per abolirla o almeno limitarne i danni, promosso nel 1981 specialmente dai Cattolici, non ottenne la maggioranza (forse nei disegni di Dio non fu casuale che tale referendum si tenne 4 giorni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II del 13.05.1981). Pur essendo una delle leggi più permissive al mondo, permette il ricorso all’aborto solo nei primi 3 mesi di gravidanza ed a particolari condizioni; ma di fatto nel corso degli anni essa ha permesso l’aborto “a piacimento”, provocando in 34 anni l’uccisione legale (e a spese dello Stato) di 5,5 milioni di bambini! Per il laicismo dominante, non è nemmeno possibile azzardare un inizio di discussione su tale legge perché come sempre in questi casi scatta appunto il fatidico “non si tocca!”. In realtà quelli che insorgono contro chiunque voglia almeno discutere sulla 194 (come è possibile su tutte le cose umane, mai così perfette da assurgere a dogmi indiscutibili), si guardano poi bene da applicare tutta la prima parte della stessa legge, che pone comunque all’aborto determinati limiti e deterrenti e promuove aiuti al fine di evitarli! Guardiamo allora cosa dice ad esempio l’art. 1 della legge n. 194 (certo con una buona dose di ipocrisia): “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”. L’art. 2 comma d, prosegue: “(I Consultori familiari assistono la donna in stato di gravidanza) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Pur di non arrivare all’aborto, la legge prevede persino che la madre possa partorire nel segreto e far adottare altrettanto anonimamente il bambino appena nato.
30.2 – Cosa fare circa le nuove pillole abortive?
Come sappiamo, esistono inoltre oggi metodi abortivi fai-da-te (ad es. la pillola Ru486), cioè pillole – è assurdo chiamarli “medicinali” perché non servono per curare ma per uccidere! – che provocano la morte del feto nei suoi primi giorni di vita (o direttamente o impedendone l’annidamento nell’utero ed espellendolo). In questi casi bisogna fare particolarmente attenzione, perché spesso vengono chiamati ipocritamente (ma anche ufficialmente, persino sulle stesse confezioni di vendita, quindi contro le legge che obbliga ad indicare perfettamente cosa comporti l’assunzione dei farmaci!) “contraccettivi” o addirittura, che è una contraddizione in termini, “contraccettivi d’emergenza”. In realtà non si tratta affatto di metodi contraccettivi (che impediscono l’incontro dello spermatozoo con l’ovulo) ma di abortivi (impediscono all’ovulo già fecondato – e quindi già a un nuovo essere umano, quello che tutti noi siamo stati nei primi istanti e giorni di esistenza! – di annidarsi nell’utero e venire così soppresso).
Così la cosiddetta “spirale” (IUD), già nota da tempo, o le più recenti “pillola del giorno dopo” (Norlevo) o “del 5° giorno” (EllaOne – falsamente indicata come “contraccettivo d’emergenza”: infatti l’azione dell’ulipristal che la caratterizza è scientificamente antinidatoria, come quella del mifepristone della pillola abortiva Ru486).
Questi prodotti sono progressivamente commercializzati e acquistabili in farmacia! Anche per i farmacisti si pone dunque la questione morale di non poter cooperare al male (tanto più che si tratta di uccisioni!) e quindi dovrebbe essere garantita pure a loro almeno la possibilità della obiezione di coscienza (altrimenti sarebbero addirittura denunciabili se non fornissero questi strumenti di morte).
31. Perché dobbiamo essere contrari all’eutanasia, ma anche all’accanimento terapeutico?
L’eutanasia
In realtà, nessuno è davvero padrone neppure della propria vita. Ce lo insegna la Bibbia (dicendoci che siamo creati da Dio e che la vita è dono Suo, di cui dovremo pure rendere conto per l’eternità), ma a pensarci bene è pure un’evidenza razionale (non abbiamo deciso di nascere e non sappiamo per quanto vivremo). Per questo è moralmente illecito il suicidio (un peccato particolarmente grave, che se riesce ha pure l’aggravante di non potersene pentire di fronte a Dio!). Poiché lo Stato deve garantire non solo il giusto rapporto tra i cittadini e il bene comune, ma anche alcuni beni essenziali della nostra stessa persona (pensiamo ad esempio, come abbiamo già ricordato, all’obbligo scolastico, a quello di portare il casco sulla moto o la cintura di sicurezza in auto), è autorizzato a garantire per legge anche quel bene essenziale e primario che è la nostra stessa vita, per cui può obbligarci per legge a ricevere delle cure necessarie per restare in vita e soprattutto deve far di tutto per impedire il suicidio (che non è affatto un diritto). Si colloca su questo piano il divieto all’eutanasia (anche qualora fosse davvero liberamente voluta dall’interessato) e di collaborare in qualsiasi modo alla morte di una persona (suicidio assistito).
Diversa è la questione dell’accanimento terapeutico, cioè quando le cure non sono più tali ma rappresentano un inutile se non nocivo proseguo di interventi medici, talora addirittura in pazienti clinicamente morti (che non è però il caso di chi è in “coma”, né tanto meno di chi è nello stato erroneamente detto “vegetativo”, che talora non ha invece neppure bisogno di terapie ma solo di nutrizione-idratazione artificiale, e che spesso contemplano casi di “risveglio” anche dopo molti anni). Il cessare un realmente inutile accanimento terapeutico può essere moralmente lecito e persino doveroso; e quindi tanto più per le leggi dello Stato, che invece deve vietare tutto ciò che provochi la morte (per intervento diretto o indiretto).
CCCC, 471. Quali procedure mediche sono consentite, quando la morte è considerata imminente? Le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. Sono legittimi invece l’uso di analgesici, non finalizzati alla morte, e la rinuncia «all’accanimento terapeutico», cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo (CCC, 2278-2279).
Si capisce poi che si può uccidere non solo direttamente, ma anche indirettamente, cioè non facendo tutto quanto è possibile fare perché uno non muoia. Moralmente si tratta di un gravissimo peccato di “omissione”; ma anche il diritto contempla numerosi casi e reati per omissione, come appunto nel caso di “omissione di soccorso”.
La morale impedisce ogni cooperazione al male; ma anche il diritto può e deve perseguire chi collabora direttamente o indirettamente alla violazione dei diritti altrui, a cominciare certo dal diritto fondamentale alla vita.
32. Cosa implica il rispetto della salute fisica, psichica e morale?
La salute
Il fondamentale diritto alla vita, che deve tradursi anche in specifiche e chiare norme civili e penali, deve poi allargarsi al più vasto campo del rispetto della salute (fisica, ma anche psicologica e perfino morale) e di conseguenza deve essere vietata anche per legge ogni violenza (fisica, ma anche psicologica e perfino morale, specie se grave).
Possiamo contemplare come grave attacco alla salute (o persino uccisione indiretta, cioè per omissione), anche tutto quanto è possibile politicamente ed economicamente fare (a livello personale, locale, nazionale, internazionale) e non viene fatto, in ordine ad esempio al fondamentale diritto all’alimentazione (pensiamo all’enorme numero di “morti per fame” che ancora ci sono nel mondo) e alla salute (come ad esempio il non rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, alle cosiddette “morti bianche”, ma anche forme gravi di inquinamento che provocano nel tempo malattie e morte).
Devono poi essere vietate e perseguite per legge tutte le violenze fisiche (percosse, ferimenti, torture, amputazioni, mutilazioni, sterilizzazioni, violenze sessuali, ancor più gravi se su minori o addirittura su bambini, come nel caso della pedofilia). Così nessun essere umano deve essere violato ed usato come oggetto o merce di scambio (riduzione in schiavitù, rapimenti; ma si può e si deve contemplare in questo campo anche la questione della prostituzione e della pornografia).
CCCC, 477. Quali pratiche sono contrarie al rispetto dell’integrità corporea della persona umana? Esse sono: i rapimenti e i sequestri di persona, il terrorismo, la tortura, le violenze, la sterilizzazione diretta. Le amputazioni e le mutilazioni di una persona sono moralmente consentite solo per indispensabili fini terapeutici della medesima (CCC, 2297-2298).
In proposito si pongono anche le questioni che si riferiscono al razzismo (da vietare), al diritto a stare nel proprio Paese (aiutando a risolverne i problemi) come a quello di emigrare (anche se i flussi immigratori vanno regolamentati in modo tale da non creare nuove forme di schiavitù o di devianza o di povertà ma da esser realmente di aiuto).
Più difficile ma ugualmente necessario garantire e difendere la salute psichica delle persone, per non parlare di quella morale (specie con l’attuale progressivo relativismo morale!) (v. poi circa l’8° comandamento). Come abbiamo già altrove ricordato, nelle società antiche, nonostante gli abusi che potevano degenerare in eccessive limitazioni della libertà d’espressione, erano infatti molto attenti alla radice del male e quindi al male che può annidarsi nelle coscienze (prima di passare poi in molti casi anche ai fatti), a motivo di inquinamenti psichici e morali. Rimane comunque la questione di impedire il più possibile attacchi anche gravi contro la salute psichica e morale delle persone (pensiamo violenze anche di questo tipo, come nel caso che abbiamo già ricordato di certe sette che riducono psicologicamente in schiavitù, la circonvenzione di incapaci, la ludopatia, persino la schiavitù da pornografia o anche semplicemente da mass-media, internet). Bisogna in qualche modo che lo Stato ponga in atto almeno sistemi di protezione e di difesa. Una particolare attenzione va in proposito ovviamente riservata ai minori. La morale prevede come grave peccato anche lo scandalo (Gesù ha per questo parole severissime, cfr. Mt 18,6.8-9), se non addirittura la seduzione e l’istigazione al male; ma anche il diritto non può permettersi di sorvolare su questo punto, che sta proprio alla radice di gravi comportamenti che poi si attuano nella società.
Come si vedrà poi (in riferimento all’8° Comandamento) qua si pone la questione anche sociale di che cosa sia lecito o illecito permettere nella stampa, televisione, internet, cinema, e su tutto ciò che incide sulla formazione/deformazione del senso morale della società, specie delle nuove generazioni.
Tra le tutele civiche della salute del corpo ci devono essere, oltre a tutti i diritti nei confronti dell’assistenza sanitaria: anche in questo difficile campo, sempre in evoluzione, si deve unire – in base al principio di sussidiarietà e di solidarietà – il diritto/dovere di garantire a tutti, al di là delle condizioni e possibilità economiche, le prestazioni necessarie, al divieto di cadere in abusi o sprechi, che si ritorcerebbero prima o poi sulla stessa possibilità economica dello Stato di garantire appunto a tutti tali servizi.
La questione del dono degli organi (pur lodevole) o dei trapianti deve comunque essere regolamentata, affinché siano garantiti la libertà e il valore dell’incolumità e integrità del corpo del donatore vivo e mai questo campo diventi oggetto o motivo di commercio, di speculazioni, addirittura causa di nuove forme di schiavitù e persino di omicidi (esistono traffici internazionali di organi e omicidi di bambini abbandonati per prelevarne e venderne gli organi!).
CCCC, 476. Sono consentiti il trapianto e la donazione di organi, prima e dopo la morte? Il trapianto di organi è moralmente accettabile col consenso del donatore e senza rischi eccessivi per lui. Per il nobile atto della donazione degli organi dopo la morte deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore (CCC, 2296).
La ricerca scientifica, anche quando fosse fatta in vista di scoperte utili per l’umanità futura (ad es. in medicina), non può essere contro la vita e la salute di un attuale uomo concreto, neppure se fosse consenziente. In questo senso è falso rivendicare una presunta neutralità della scienza, perché pur essendo la ricerca un bene, non lo è l’applicazione che ne può derivare, che ha invece una valenza etica (può essere bene o male).
CCCC, 475. Quando sono moralmente legittime le sperimentazioni scientifiche, mediche o psicologiche, sulle persone o sui gruppi umani? Sono moralmente legittime se sono a servizio del bene integrale della persona e della società, senza rischi sproporzionati per la vita e l’integrità fisica e psichica dei soggetti, opportunamente informati e consenzienti (CCC, 2292-2295).
A rispetto dell’incolumità fisica altrui, ma anche propria, lo Stato ha il diritto/dovere di porre in atto normative a riguardo della circolazione stradale (Codice della strada) – le cui violazioni sono spesso causa non solo di danni materiali, ma alla salute (talora in modo persino irreversibile) e di un numero impressionanti di morti (superiori a quelli delle guerre) – come pure del diritto/dovere per tutti di tutelarsi e tutelare mediante polizze assicurative.
Lo Stato, al di là della regolazione del traffico e soprattutto della difesa dell’incolumità altrui, può e deve obbligare il soggetto a tutelare anche la propria stessa vita fisica, come s’è già detto (ad esempio obbligando all’uso del casco per la circolazione coi motocicli o della cintura di sicurezza per quella in auto). Il che dimostra appunto che le leggi dello Stato non devono regolamentare solamente i rapporti tra i cittadini o il bene comune ma anche il bene dei singoli.
A maggior ragione ci devono essere norme ben precise da far rispettare riguardo alle condizioni del lavoro. Lo Stato, con la collaborazione delle sue diverse componenti, non può permettere condizioni di lavoro che non siano rispettose della salute (immediata e futura) e della sicurezza del lavoratore.
Persino lo sport deve essere regolamentato, non solo nel senso delle sue regole interne, ma anche da parte delle leggi dello Stato: oltre alle questioni oggi legate anche all’economia (le gravi disonestà, ma potremmo dire anche gli esagerati costi o pagamenti), ci sono proprio quelle legate alla salute (pensiamo ad esempio alla questione del “dopping”; si potrebbe anche legiferare impedendo sport troppo pericolosi o comunque obbligando ad usare strumenti di difesa della propria e altrui salute e incolumità).
32.1 – Cosa deve fare lo Stato a riguardo delle droghe?
La droga
Lo Stato ha anche il diritto/dovere di limitare l’uso del fumo, di alcolici, come quello di vietare la produzione, la vendita e anche l’uso di droghe.
Come sappiamo, l’umanità intera (specie nel mondo occidentale) è flagellata da un esorbitante e sempre crescente uso di droghe (in particolare da parte dei giovani), che provoca un numero impressionante di morti (una media di più di 5oo all’anno solo in Italia, senza contare quelli per incidenti stradali dovuto all’uso di droga), enormi danni fisici e psichici, vere forme di schiavitù, degradi morali e derive esistenziali. La droga muove giganteschi interessi economici e commerciali, a livello mondiale, provoca e alimenta sistemi malavitosi nazionali e internazionali, provoca persino guerre e terrorismo, e condiziona le economie di interi Paesi.
La distinzione di droghe pesanti o leggere è un inganno, non solo perché si passa assai spesso dalle seconde alle prime (sottese peraltro alla stessa mentalità e visione della vita), ma perché è scientificamente provato il danno fisico e psichico anche delle droghe leggere, per non parlare dei cambiamenti esistenziali e comportamentali che si possono normalmente notare nei ragazzi che iniziano a farne uso.
Ecco alcuni dati scientifici al riguardo:
Il 14.05.2011 lo Stato della California (USA) ha respinto la proposta di legalizzazione della marijuana, rifacendosi anche a recenti studi scientifici riguardanti anche le droghe cosiddette leggere (che ormai dilagano anche tra i nostri ragazzini, con gravi loro danni esistenziali): “la marijuana altera riflessi e memoria” (Journal of Psychopharmacology, febbraio 2010), persino a distanza di giorni dall’assunzione; “aumenta l’insorgenza di psicosi come la schizofrenia” (Lancet, luglio 2007; Nature, novembre 2010); “aumenta la possibilità di allucinazioni in ragazzi che ne hanno fatto uso anche solo due volte nel mese precedente” (Schizophrenia Research, febbraio 2009). La cocaina, poi, “col tempo agisce negativamente anche sulle capacità sessuali” (European Urology, agosto 2007].
L’American Academy of Pediatrics, paladina della salute dei minori, dopo aver esaminato gli effetti negativi laddove la liberalizzazione delle droghe leggere è stata autorizzata, si schiera assolutamente contro la loro liberalizzazione (Pediatrics, giugno 2004).
Un importante studio della National Academy of Sciences (USA), pubblicato in rete il 27.08.2012 (e riportato su Le Monde l’8.09.2012, rileva statisticamente, su un vastissimo campionario e per moltissimi anni, i danni mentali causati dalla “cannabis” (pare fumata ormai già da un quarto degli adolescenti). Se erano già stati scientificamente provati i danni cognitivi e psicologici provocati dal fumo di cannabis (disturbi della memoria, dell’attenzione, della concentrazione, mancanza di motivazione), ora emergono veri e propri danni cerebrali, con l’aggravante della loro irreversibilità! Risulta infatti da questo studio scientifico che chi inizia a fumare cannabis già nell’adolescenza e giunge poi a farlo anche 4 volte a settimana, il quoziente intellettivo diminuisce persino di 8 punti! Questa dato diventa ancora più allarmante in quanto tale studio dimostra che questa perdita di quoziente intellettivo negli adolescenti non viene più recuperato anche se il soggetto riduce o perfino smette di fumare cannabis. Cioè produce danni cerebrali irreversibili! Inoltre il fumo della cannabis “aumenta di 5 volte il rischio di sviluppare una depressione; addirittura raddoppia quello di manifestare una sindrome ansiosa; e aumentano persino i rischi di gravi patologie psichiche, come la schizofrenia”.
Ugualmente ingannevole e malefico è il tentativo di renderle legali, secondo il classico errore che ci si nasconde il problema legalizzandolo, quando l’esperienza di quei Paesi che hanno tentato di percorrere queste strade hanno già fallito, vedendo aumentare il tasso di drogati, oltre che il degrado sociale, senza diminuire la malavita e la criminalità organizzata che su di essa guadagna. La parola “antiproibizionismo” sta infatti ad indicare una precisa ideologia (per sé “radicale” ed epilogo del liberalismo ottocentesco, ma ora assunto anche dalle politiche di sinistra, che già negli anni ’60 hanno condizionato un’intera generazione di giovani all’insegna del “vietato vietare”).
Certo, come abbiamo sottolineato proprio a riguardo della priorità della morale sul diritto, il vero sforzo deve essere quello “educativo”, nel senso più alto di insegnare e permettere di vivere un senso della vita così profondo e bello (come Cristo ci insegna e ci dona) da essere contenti di vivere, svuotando quindi a monte le cause che portano un ragazzo o un giovane a drogarsi per sfuggire al vuoto e alla noia della vita. In questo senso, come s’è detto, la novità della vita non nasce dalla politica o dall’economia. Ma la politica può influire positivamente o negativamente sui comportamenti sociali. Non possiamo infatti negare come il fatto che un comportamento sia non solo immorale ma anche illegale, aumenta in molti la percezione del suo male e pone un freno assai più forte al compierlo.
33. Cosa si deve fare per la difesa dell’ambiente?
Il Creato
Potremmo rallegrarci di come negli ultimi tempi sia cresciuta notevolmente la sensibilità circa il doveroso rispetto della natura e degli animali (ecologia), che fa parte della morale cristiana e che la Chiesa ha sempre richiamato, anche quando (ad esempio nella rivoluzione industriale del sec. XIX) veniva incompresa e accusata di essere contro il progresso e lo sviluppo dell’industria e del commercio (poiché, si diceva, “gli affari sono affari”, anche a costo dell’oppressione dell’uomo e dell’inquinamento della natura). In realtà, come in genere avviene quando si abbandona Dio e si confonde di conseguenza anche l’ordine dei valori, siamo di fronte ad un crescente “ecologismo” e “animalismo” di sapore pagano, che non riconosce più la superiorità dell’uomo su tutto il creato e su tutti gli animali (essendo l’uomo il fine del creato, anche se non ne è il padrone ma solo l’amministratore). Si torna dopo duemila anni a parlare della Natura come di una divinità (Gaia, Madre Natura), per la difesa della quale dovremmo sacrificare anche l’uomo (considerato “cancro del pianeta”, come dice il WWF); per non parlare di come gli animali, specie quelli domestici, vengono equiparati sempre più agli esseri umani, anzi, pare che i loro diritti debbano essere più rispettati di quelli degli uomini (la vita, la salute, gli alimenti), con le folli contraddizioni ad esempio tra il doveroso rispetto della vita e della salute degli animali e l’abbandono dei poveri o il diritto all’uccisione dei propri figli (aborto). Peraltro, perché allora difendere alcuni animali (ad es. il gatto) e ucciderne altri (ad es. il maiale)?
Lo Stato deve dunque proteggere la natura (terra, aria, acqua) e impedire che sia inquinata (e questo è un dovere in vista proprio della salute dell’uomo, presente e futuro), così come può salvaguardare la vita di alcuni animali (perché non siano ingiustamente maltrattati o uccisi), ma sempre ricordando che tutto deve essere fatto in vista del bene dell’uomo (devo ad esempio rispettare il più possibile il paesaggio, ma non posso impedire in assoluto che si faccia una casa, una strada, una ferrovia – tra l’altro anche coloro che protestano, poi sono ben lieti di avere una casa, una strada e una ferrovia). In tal senso non si deve neppure pensare semplicemente al proprio bene particolare (si facciano, ma non da me), poiché ciò dovrebbe allora valere per tutti, ma anche al bene comune (se è un’opera di grande interesse sociale, che reca un beneficio alla collettività, allora c’è anche il dovere di rinunciare al proprio particolare).
CCCC, 507. Quale comportamento l’uomo deve avere verso gli animali? L’uomo deve trattare gli animali, creature di Dio, con benevolenza, evitando sia l’eccessivo amore nei loro confronti, sia il loro uso indiscriminato, soprattutto per sperimentazioni scientifiche effettuate al di fuori di limiti ragionevoli e con inutili sofferenze per gli animali stessi (CCC, 2416-2418; 2457 – è peraltro significativo che il CCC metta la questione non a riguardo del 5° ma del 7° Comandamento).
34. E’ lecita la legittima difesa?
Accenniamo infine ad alcune questioni particolari, di enorme spessore morale ma anche politico, che sembrerebbero eccezioni al rispetto assoluto della vita, e su cui oggi, nella giustamente accresciuta sensibilità, si fa però in genere molta confusione.
Possiamo anzitutto notare come il 5° Comandamento (“Non uccidere”), così come viene rivelato da Dio nell’Antico Testamento si riferisca al divieto di uccidere l’innocente. Nell’A.T. è infatti ampiamente prevista la possibilità della guerra, così come della pena di morte. Gesù, portando a pienezza la Rivelazione e donando la grazia di vivere perfettamente il comandamento dell’amore (cfr. Mt 5,21-22,38-48), ci insegna anzitutto a purificare il cuore da ogni istinto di vendetta, di odio, di ira, giungendo persino ad amare i propri nemici, ricordandoci che abbiamo tutti bisogno della misericordia di Dio (cfr. Gv 8,3-7, la risposta alla questione se si doveva lapidare la donna adultera, come prescriveva appunto la Legge di Dio). Questo non indica affatto che nella società (e perfino nella Chiesa; cfr. Mt 18,15-17 ma possiamo leggere in questo senso anche Mt 5,29-30) non si debba prendere posizione contro il male, difendendola da esso: infatti se, dopo aver fatto tutto quanto si doveva e poteva fare per educare al bene e impedire il male, non facessimo nulla per impedirlo [e non ci fosse anche una pena corrispondente per chi lo compie (certo anche con scopo rieducativo, ma anche come deterrente per chi sarebbe portato a compierlo e con valore educativo verso la società)], in fondo si mancherebbe di carità e di giustizia, anzi in certi casi ce ne si renderebbe persino corresponsabili! è peraltro contraddittorio che oggi molte diffuse mentalità si mostrino “pacifiste” a tal punto dal ritenere illecita ogni difesa armata, oppure siano (giustamente) assai sensibili contro la condanna a morte del “reo” (colpevole anche di efferati crimini) ma si mostrino invece assai favorevoli alla condanna a morte dell’innocente (come appunto nel caso dell’aborto, cioè del bambino nel grembo della madre, che è il più innocente, fragile e indifeso degli esseri umani!).
CCCC, 480. Che cosa chiede il Signore ad ogni persona a riguardo della pace? Il Signore, che proclama «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9), chiede la pace del cuore e denuncia l’immoralità dell’ira, che è desiderio di vendetta per il male ricevuto, e dell’odio, che porta a desiderare il male per il prossimo. Questi atteggiamenti, se volontari e consentiti in cose di grande importanza, sono peccati gravi contro la carità (CCC 2302-2303).
La legittima difesa
Moralmente parlando, non è affatto vero che il fondamentale comandamento dell’amore (totale per Dio, cui segue quello dell’amore del prossimo come se stessi, cfr. Mc 12,29-31) non richieda appunto anche l’amore per se stessi, anzi esso resta un principio fondamentale della morale (cfr. CCC 2264).
La legittima difesa (personale) è moralmente lecita; tanto più deve essere garantita dal diritto. Nella società civile (locale, nazionale, internazionale) ci devono dunque essere leggi e forze di sicurezza (anche armate) che la tutelino, così come pene adeguate per coloro che la violino. La difesa degli altri, specie da parte di chi ha particolari responsabilità sociali, oltre che un diritto fondamentale è anche un grave obbligo morale, oltre che un dovere civile (e persino militare).
CCCC, 467. Perché la legittima difesa delle persone e delle società non va contro tale norma? Perché con la legittima difesa si attua la scelta di difendersi e si valorizza il diritto alla vita, propria o altrui, e non la scelta di uccidere. La legittima difesa, per chi ha responsabilità della vita altrui, può essere anche un grave dovere. Tuttavia, essa non deve comportare un uso della violenza maggiore del necessario (CCC, 2263-2265).
34.1 – Cosa pensare della pena di morte?
La pena di morte
La pena di morte, che ha in sé qualcosa di raccapricciante (anche perché, oltre ad essere cruenta, toglie la possibilità stessa di una rieducazione del colpevole), era contemplata – e lo è ancora nel diritto di società assai sviluppate e che si portano come modelli di democrazia (v. molti degli USA) – proprio nell’ottica della difesa della società da gravissimi crimini (e pericolosissimi criminali), così come deterrente nel compierli e pena corrispondente alla gravità del delitto commesso. In questo senso, in linea di principio, non contraddice neppure alla morale cristiana (cfr. CCC 2266); anche se oggi si ritiene che esistano mezzi e metodi assai più consoni alla dignità dell’uomo per difendere la società anche dai più gravi criminali e per la loro pena.
CCCC, 468. A che serve una pena? Una pena, inflitta da una legittima autorità pubblica, ha lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa, di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, di contribuire alla correzione del colpevole (CCC, 2266).
CCCC, 469. Quale pena si può infliggere? La pena inflitta deve essere proporzionata alla gravità del delitto. Oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (Evangelium vitae). Quando i mezzi incruenti sono sufficienti, l’autorità si limiterà a questi mezzi, perché questi corrispondono meglio alle condizioni concrete del bene comune, sono più conformi alla dignità della persona e non tolgono definitivamente al colpevole la possibilità di redimersi (CCC, 2267).
35. E’ lecito il possesso e l’uso delle armi? Se e quando è possibile ricorrere anche alla guerra?
Le armi, la guerra
E’ chiaro che le armi, che sono uno strumento di violenza e di morte, in sé non dovrebbero esserci. Per questo dobbiamo educare, specie le nuove generazioni, al bene morale, compreso quello del rispetto della vita e dei beni altrui, della pace, della non violenza (dovremmo persino impedire che sin dalla più tenera età siano psicologicamente bombardati da spettacoli, già i cartoni animati, che continuamente mostrano o addirittura lodano il violento e l’uso delle armi). Inoltre, gli esorbitanti costi (che assorbono fette enormi delle economie nazionali e internazionali) e gli immani poteri distruttivi (in grado persino di distruggere l’intero pianeta) degli attuali armamenti rendono ancora più grave e ingiusta la loro produzione e il loro commercio, prima ancora che il loro uso.
Detto questo, e quindi in una prospettiva che ne auspica la loro riduzione (stornando quelle spese per risolvere molti gravi problemi dell’umanità, compreso quelli che provocano appunto le guerre), non si può però cadere in uno sterile e astratto pacifismo, che portato alle estreme conseguenze potrebbe addirittura divenire persino corresponsabile del male che comunque c’è nel mondo e dal quale non potremmo allora neppure difenderci.
Anche il “pacifismo” è un derivato del relativismo e come esso è contraddittorio: come infatti il relativismo dice di non credere alla verità e rende tutto opinione (ma poi afferma se stesso come verità, addirittura obbligatoria, dittatura del relativismo!), così paradossalmente anche il pacifismo, volendo la pace “ad ogni costo”, provoca la guerra, non solo perché potrebbe non essere più in grado di garantire certi diritti violati, ma perché non dovrebbe neppure respingere chi fa la guerra, quindi favorendola.
Proprio il realismo che non si nasconde il male che può albergare nel cuore dell’uomo e che può coinvolgere intere società e nazioni (come la storia purtroppo sempre insegna), si deve porre – anche per il diritto – la questione di come impedire che vengano calpestati fondamentali diritti, persino di intere nazioni, e come ristabilirli quando essi siano violati. Questo non è solo un diritto ma anche un dovere dei popoli e una precisa responsabilità dei governi.
Il diritto della legittima difesa (abbiamo visto essere un diritto anche del singolo) della società lo esige, con il dovere corrispondente; e in casi estremi può richiedere l’uso della forza, anche armata (e legittima per questo il possesso delle armi).
Non c’è dunque assolutamente un’equivalenza morale, cioè non possiamo giudicare allo stesso modo, una guerra di conquista e una guerra di difesa.
Ovviamente – questo insegna la Dottrina sociale della Chiesa – qualsiasi mezzo pacifico, incruento, politico, diplomatico possa essere posto in atto per ottenere tale scopo (cioè garantire o ristabilire fondamentali diritti dei popoli e delle nazioni) va usato; qualora però non fosse davvero possibile ottenerlo per queste vie, è lecito anche far ricorso alla guerra.
Le condizioni di ammissibilità della guerra (in questo caso detta “guerra giusta”) sono dunque queste e devono esserci tutte: “1) che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; 2) che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; 3) che ci siano fondate condizioni di successo; 4) che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare (considerando oggi anche la potenza dei moderni mezzi di distruzione)” (CCC, 2309). Così riprende nel CCCC: “L’uso della forza militare è moralmente giustificato dalla contemporanea presenza delle seguenti condizioni: certezza di un durevole e grave danno subito; inefficacia di ogni alternativa pacifica; fondate possibilità di successo; assenza di mali peggiori, considerata l’odierna potenza dei mezzi di distruzione” (n. 483). “(la valutazione rigorosa di tali condizioni) spetta al giudizio prudente dei governanti, cui compete anche il diritto di imporre ai cittadini l’obbligo della difesa nazionale, fatto salvo il diritto personale all’obiezione di coscienza …” (n. 484). “La legge morale rimane sempre valida, anche in caso di guerra. Essa chiede che si trattino con umanità i non combattenti, i soldati feriti e i prigionieri … Le distruzioni di massa, come pure lo sterminio di un popolo o di una minoranza etnica, sono peccati gravissimi e si è moralmente in obbligo di fare resistenza agli ordini di chi li comanda” (n. 485).
Le azioni terroristiche (oggi purtroppo in impressionante espansione, con livelli di violenza e di distruzione prima inimmaginabili – pensiamo a come è cominciato questo secolo! – e contro le quali è assai difficile difendersi!) non sono invece ovviamente mai ammissibili. In esse non c’è neppure un’ufficiale dichiarazione di guerra, uno scontro militare, una vera possibilità di difesa (non potendosi controllare sempre tutto e tutti) e soprattutto, oltre ad immani distruzioni, vengono coinvolti o uccisi civili innocenti e inermi.
Il servizio militare
In quest’ottica, cioè come difesa della collettività, si inquadra anche il diritto-dovere di uno Stato non solo di possedere corpi armati, sia per la sicurezza interna che per quella nazionale e internazionale, ma anche di chiedere un servizio militare ai suoi cittadini (maschi) [come è in molti Paesi e come è stato anche in Italia per oltre un secolo], salva la possibilità, specie in tempo di pace, di porre obiezione di coscienza o servizi civili alternativi.
Nonostante la presa di posizione contraria da parte di alcuni Padri della Chiesa (Tertulliano, Origene, Ippolito) e la scelta del martirio da parte di alcuni pur di non assumere le armi, già la Chiesa primitiva non vietava il servizio militare a coloro che diventavano cristiani. Dopo l’editto costantiniano del 313 si precisa (Concilio di Arles del 314) addirittura non solo la liceità ma persino l’obbligo morale (esclusi i chierici) di portare armi per legittima difesa, persino in tempo di pace, anche se uccidere rimane comunque un peccato grave da espiare con gravi penitenze. Dalla fine del IV secolo la difesa (anche armata) dell’impero viene sempre più a coincidere con difesa della cristianità stessa. S. Agostino (354-430) giudica moralmente lecita la guerra non solo di difesa ma anche riparatrice (recupero di terre e diritti usurpati), ma è affidata ai poteri laici (anche da parte dei Papi).
CCCC, 481. Che cos’è la pace nel mondo? La pace nel mondo, la quale è richiesta per il rispetto e lo sviluppo della vita umana, non è semplice assenza della guerra o equilibrio di forze contrastanti, ma è «la tranquillità dell’ordine» (sant’Agostino), «frutto della giustizia» (Is 32,17) ed effetto della carità. La pace terrena è immagine e frutto della pace di Cristo (CCC, 2304-2305).
CCCC, 482. Che cosa richiede la pace nel mondo? Essa richiede l’equa distribuzione e la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della giustizia e della fratellanza (CCC, 2304; 2307-2308).
CCCC, 483. Quando è moralmente consentito l’uso della forza militare? L’uso della forza militare è moralmente giustificato dalla presenza contemporanea delle seguenti condizioni: certezza di un durevole e grave danno subito; inefficacia di ogni alternativa pacifica; fondate possibilità di successo; assenza di mali peggiori, considerata l’odierna potenza dei mezzi di distruzione (CCC, 2307-2310).
CCCC, 484. In caso di minaccia di guerra, a chi spetta la valutazione rigorosa di tali condizioni? Essa spetta al giudizio prudente dei governanti, cui compete anche il diritto di imporre ai cittadini l’obbligo della difesa nazionale, fatto salvo il diritto personale all’obiezione di coscienza, da attuarsi con altra forma di servizio alla comunità umana (CCC, 2309).
CCCC, 485. In caso di guerra, che cosa chiede la legge morale? La legge morale rimane sempre valida, anche in caso di guerra. Essa chiede che si trattino con umanità i non combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni deliberatamente contrarie al diritto delle genti e le disposizioni che le impongono sono dei crimini che l’obbedienza cieca non serve a scusare. Si devono condannare le distruzioni di massa come pure lo sterminio di un popolo o di una minoranza etnica, che sono peccati gravissimi: si è moralmente in obbligo di fare resistenza agli ordini di chi li comanda (CCC, 2312-2314; 2328).
CCCC, 486. Che cosa bisogna fare per evitare la guerra? Si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare in ogni modo la guerra, dati i mali e le ingiustizie che essa provoca. In particolare, bisogna evitare l’accumulo e il commercio delle armi non debitamente regolamentati dai poteri legittimi; le ingiustizie soprattutto economiche e sociali; le discriminazioni etniche e religiose; l’invidia, la diffidenza, l’orgoglio e lo spirito di vendetta. Quanto si fa per eliminare questi ed altri disordini aiuta a costruire la pace e ad evitare la guerra (CCC, 2315-2317; 2327-2330).
Il porto d’armi
Il diritto alla legittima difesa può anche includere la possibilità per i singoli cittadini di possedere e portare con sé certe armi. Esso comporta però seri pericoli, come quello che vadano in mano a irresponsabili (se lo sono improvvisamente, perché se lo fossero stabilmente non debbono evidentemente possederle); in tempo di pace è però preferibile che la difesa (anche armata) dei cittadini sia delegata a corpi statali di sicurezza (così come in tempo di guerra lo è ovviamente da parte delle forze armate).
36. Perché e quando il martirio?
Una nota sul caso del “martirio”
Come abbia già detto in riferimento al 1° comandamento, nessuno deve essere obbligato e neppure impedito a credere in una particolare religione (libertà religiosa) e in ciò che essa comporta anche nella vita pubblica e sociale. La libertà religiosa non può però permettere che diventi giuridicamente lecito ciò che va contro i fondamentali diritti propri o altrui (rispetto delle persone, della propria o altrui salute fisica e psichica, dei beni propri o altrui). è dunque inammissibile una religione che prevedesse di imporsi con la violenza o volesse diventare obbligatoria per legge dello Stato.
Abbiamo però già osservato che, qualora lo Stato o il potere costituito obbligasse a compiere il male morale (contro i Comandamenti) perderebbe ogni legittimità; in tal caso deve moralmente essere disobbedito, anche a costo della vita. è il caso del martirio (cioè preferire Dio e la Sua legge alla stessa vita). Questo non è contro il valore della vita, perché il significato della vita (l’obbedienza a Dio e alla Sua legge, che dona la vita eterna) è infatti un valore assoluto, superiore al bene stesso della vita fisica. Il martirio non va però scelto (come nel caso del suicidio per motivi di fede o per protesta), anche se è moralmente bene “dare la vita” per gli altri (ad esempio sacrificandomi per salvare altri), ma solo “accettato”, cioè devo rinunciare alla vita stessa pur di non disobbedire a Dio!
La parola “martire” – che significa testimone – è spesso usata anche nella vita civile (martiri della guerra, della libertà, della lotta politica, della società), per chi si fa uccidere pur di non tradire il proprio ideale civile o politico; improprio invece usarla per chi rimane involontariamente ucciso nel compimento del proprio dovere, se non addirittura per chi rimane semplicemente ucciso in attentati o persino in eventi naturali. Un vero abuso della parola martire, contrario alla morale e assolutamente da respingere, è invece quello assunto o dato a chi si uccide e uccide (!) immolandosi in atti di terrorismo (come nel caso di kamikaze musulmani).
In riferimento al VI e IX Comandamento
“Non commettere atti impuri”
“Non desiderare la donna d’altri”
37. Quando il diritto può intervenire a riguardo della vita sessuale?
La dignità della persona umana
Per uno studio sul significato della sessualità e quindi sulla morale sessuale cristiana (che altro in fondo non è che il pieno esplicitarsi del suo significato), vedi nel sito Morale sessuale.
Evidentemente il diritto non deve e non può entrare più di tanto nelle questioni della sessualità – essendo questioni intime, anche se hanno un’enorme incidenza (nel bene e nel male) non solo sulla vita dei singoli e delle famiglie, ma sull’intera società – ma, come abbiamo già ricordato in riferimento al 5° comandamento e al rispetto non solo della salute ma della stessa dignità umana, ci sono punti al riguardo su cui anche il diritto e quindi la politica devono intervenire, appunto per garantire alcuni diritti/doveri e per impedire danni troppo gravi alla vita propria, dei singoli, delle famiglie e dell’intera società.
Se la ragione umana può cogliere già molto del significato della sessualità umana e di ciò che le si contraddice (v. appunto nel sito la sezione Fede e morale < Morale sessuale), è ancor più evidente che certi gravissimi peccati in tal senso sono anche “reati”: così lo stupro, la pedofilia e ogni altra forma di violenza sessuale (comprese le mutilazioni sessuali o le sterilizzazioni forzate). Anche l’incesto (rapporto sessuale tra consanguinei o affini) è in genere vietato anche per legge. Si può e si deve certo vietare per legge anche la prostituzione, tanto più che rappresenta assai spesso non solo una depravazione morale ma una vera e propria forma di schiavitù (oltre ad essere sempre una riduzione ad oggetto, la persona che si prostituisce è in genere resa schiava di padroni che la sfruttano, spesso con violenza, per enormi interessi economici).
[in riferimento al 9° Comandamento]
L’educazione sessuale e lo scandalo
Se l’educazione (anche sessuale) dei figli è compito prioritario della famiglia – che lo Stato deve garantire, come s’è già detto, senza alcuna pretesa di neutralità né imponendo tanto meno una sorta di “morale di Stato” (così che anche nelle scuole non possa essere impartita un’educazione sessuale senza criteri morali o che i genitori debbano subire per i propri figli senza possibilità di scelta) – è altrettanto vero che le leggi dello Stato non possono permettere neppure in questo campo una libertà assoluta di comportamento nella vita pubblica (si pensi ad esempio a ciò che va “contro il pudore” o agli “atti osceni in luogo pubblico”) come nel vasto campo dei media (stampa, televisione, cinema, spettacoli, internet). Deve esistere quindi anche la possibilità di regolamentazione, limitazione o censura (ad esempio a riguardo della pornografia), contro lo scandalo e a difesa specialmente delle nuove generazioni.
E’ un dato di esperienza ma anche sociologicamente dimostrato che la diffusione della pornografia, oltre a creare talora vere e proprie dipendenze e schiavitù psicologiche, deforma le mentalità e trasforma i costumi (per emulazione) e in molti casi induce a comportamenti aberranti che talora degenerano in veri e propri crimini. Per questo motivo uno Stato che ha a cuore il bene delle persone e delle società deve anche difenderle da tutto ciò che può creare “a monte” corruzione morale.
Circa la questione degli anticoncezionali (al di là di quelli di fatto abortivi, che devono essere vietati – v. quanto detto circa l’aborto), pur non potendo oggi impedirli per legge, si potrebbe però prevedere la possibilità di limitazioni nel venderli [ad es. la possibilità di obiezione di coscienza per i farmacisti? oppure limitarne l’esposizione e i luoghi di rivendite automatiche (ad es. i distributori automatici di preservativi nelle scuole, oggetto di particolari e faziose battaglie laiciste, quando nelle scuole non ci sono neppure distributori di penne, cioè gli strumenti di lavoro!); deve essere però impedita una falsa informazione in merito (come quando un abortivo viene fatto passare come “contraccettivo d’emergenza” o quando si presenta il preservativo come assolutamente sicuro e come panacea contro ogni pericolo e a favore di qualsiasi comportamento sessuale, cosa scientificamente falsa oltre che immorale in sé).
In questo senso si deve anche pensare quanto incida negativamente, specie sulle nuove generazioni (indifese e di fatto indifendibili persino dai genitori), l’attuale confusione sui principi morali, pensati solo come soggettivi e relativi, e la presunta equivalenza, continuamente predicata sui media, di qualsiasi comportamento sessuale. Tale relativismo crea di fatto le basi per ritenere lecito qualsiasi comportamento e risulta un potente moltiplicatore del male, in grado di portare un’intera società verso la progressiva degradazione e perfino autodistruzione morale. Può lo Stato (pur non dovendo dichiarare giuridicamente illecito qualsiasi peccato) non occuparsi del degrado morale e ritenere lecito ed equivalente qualsiasi comportamento, confondendo questo relativismo col doveroso rispetto per chiunque (ad esempio equiparando matrimoni eterosessuali a matrimoni omosessuali)?
Riguardo al valore della famiglia (formata esclusivamente da uomo e donna), alla procreazione (v, anche questione della procreazione assistita) ed educazione dei figli: v. in rif. al 4° Comandamento; per la questione dell’aborto, v. invece rif. al 5° Comandamento).
CCCC, 494. Qual è il compito delle autorità civili nei confronti della castità? Esse, in quanto tenute a promuovere il rispetto della dignità della persona, devono contribuire a creare un ambiente favorevole alla castità, anche impedendo, con leggi adeguate, la diffusione di talune delle suddette gravi offese alla castità [pornografia, prostituzione, stupro], per proteggere soprattutto i minori e i più deboli (CCC, 2354).
37.1 – Cosa pensare della “procreazione assistita”?
La procreazione artificiale
S’è già accennato come non esista alcuno “diritto al figlio” ma semmai i “diritti del figlio” che deve nascere. In questo senso, visto anche il delirio d’onnipotenza che talora colpisce la scienza fino a voler manipolare l’umano, precisiamo fin d’ora che, se si deve fare ogni ricorso alla medicina per curare ogni infertilità, non è invece lecita (moralmente ma dovrebbe essere illecita pure civilmente) una procreazione assistita (cioè artificiale), tanto più quando questa è “eterologa” (cioè dallo sperma di un “donatore” sconosciuto, se non addirittura da un ovulo che non sia quello effettivo della madre, o con “uteri” in affitto per la gestazione di figli che biologicamente non sono i propri; tra l’altro in questo modo, oltre a non essere chiaro chi siano i genitori effettivi, ed è un diritto del figlio saperlo, i patrimoni genetici sono sconosciuti e quindi tutto ciò che si può trasmettere per via ereditaria, compreso il serio pericolo di tare ereditarie sconosciute) o richiede la selezione e soppressione di embrioni, cioè esseri umani!
Essendo contraria alla logica della stessa natura umana, lo Stato non deve quindi legiferare a favore della procreazione assistita – semmai deve agevolare il più possibile l’adozione e l’affidamento (visto il grande numero di bambini orfani o abbandonati e di coppie che desiderano accoglierli) o promuovere la ricerca per combattere l’infertilità maschile e femminile – tanto meno permettendo appunto l’eterologa (donatori al di fuori della coppia) e la produzione/congelamento/ eliminazione di embrioni.
CCCC, 499. Perché l’inseminazione e la fecondazione artificiali sono immorali? Sono immorali perché dissociano la procreazione dall’atto con cui gli sposi si donano mutuamente, instaurando così un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana. Inoltre l’inseminazione e la fecondazione eterologa, con il ricorso a tecniche che coinvolgono una persona estranea alla coppia coniugale, ledono il diritto del figlio a nascere da un padre e da una madre conosciuti da lui, legati tra loro dal matrimonio e aventi il diritto esclusivo a diventare genitori soltanto l’uno attraverso l’altro (CCC, 2373-2377).
In riferimento al VII e X Comandamento
“Non rubare”
“Non desiderare la roba d’altri”
CCCC, 506. Che cosa prescrive il settimo Comandamento? Il settimo Comandamento prescrive il rispetto dei beni altrui, attraverso la pratica della giustizia e della carità, della temperanza e della solidarietà. In particolare, esige il rispetto delle promesse fatte e dei contratti stipulati; la riparazione dell’ingiustizia commessa e la restituzione del maltolto; il rispetto dell’integrità della creazione mediante l’uso prudente e moderato delle risorse minerali, vegetali e animali che sono nell’universo, con speciale attenzione verso le specie minacciate di estinzione (CCC, 2407; 2450-2451).
CCCC, 508. Che cosa proibisce il settimo Comandamento? Il settimo Comandamento proibisce anzitutto il furto, che è l’usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario. Ciò si verifica anche nel pagare salari ingiusti; nello speculare sul valore dei beni per trarre vantaggio a danno di altri; nel contraffare assegni o fatture. Proibisce inoltre di commettere frodi fiscali o commerciali, di arrecare volontariamente un danno alle proprietà private o pubbliche, Proibisce anche l’usura, la corruzione, l’abuso privato di beni sociali, i lavori colpevolmente male eseguiti, lo sperpero (CCC, 2408-2413; 2453-2455).
38. Come lo Stato deve garantire e promuovere sia i beni privati che il bene comune?
La proprietà privata e il bene comune
Circa il 7° comandamento (“Non rubare”) è più facile trovare consenso a riguardo dello stretto rapporto tra morale e diritto, cioè tra peccato e reato. C’è infatti sempre molta indignazione nei confronti di chi ruba, non solo i beni strettamente privati, ma anche nei confronti di chi ruba o sciupa le cose e il denaro pubblico.
Ovviamente l’essere umano, se non educa la propria coscienza, rischia di essere tanto severo nei confronti degli altri (chi ruba è un “ladro”) quanto indulgente nei confronti di se stesso (se lo faccio io sono “furbo”).
Così pure è facile che il mondo economico, finanziario, delle proprietà, si senta indipendente dalle questioni etiche (in realtà, come possiamo costatare, un’economia staccata dall’etica non solo è disonesta e immorale, ma si ritorce persino contro se stessa e crolla): fino al banale e immorale “gli affari sono affari” (cosa non vera, perché ci sono affari leciti e affari illeciti), sia moralmente che penalmente.
Abbiamo già più volte toccato alcune questioni di fondo del rapporto tra economia ed etica, quindi anche in riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa. Vediamo qui ancora qualche punto.
I fondamentali principi di “sussidiarietà” e di “solidarietà” fanno sì che l’economia e la politica rispettino il legittimo diritto alla proprietà privata (cosa invece negata dall’ideologia socialista/ comunista), come pure alle iniziative economiche dei singoli e dei corpi intermedi, e nello stesso tempo si garantisca per tutti questo diritto (cosa invece negata dall’ideologia liberale/capitalista estrema), in base ad una solidarietà che eviti soprusi da parte dei proprietari ma anche negligenze da parte di chi può invece procurarsi i beni con le proprie capacità di lavoro. Occorre quindi evitare (e lo Stato deve vigilare) affinché siano rispettati i diritti e i doveri di tutti; ed evitare (non solo all’interno di uno Stato ma a livello mondiale) che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Come abbiamo già ricordato, la Dottrina Sociale della Chiesa, in base appunto ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, promuove di fatto un sistema economico cosiddetto “misto”, cioè né unilateralmente liberale (dove in fondo lo Stato dovrebbe essere solo spettatore) né unilateralmente socialista (dove in fondo lo Stato vorrebbe avere e fare tutto).
CCCC, 504. A quali condizioni esiste il diritto alla proprietà privata? Il diritto alla proprietà privata esiste purché sia acquisita o ricevuta in modo giusto e purché resti primaria la destinazione universale dei beni alla soddisfazione delle necessità fondamentali di tutti gli uomini (CCC, 2403).
CCCC, 505. Qual è il fine della proprietà privata? Il fine della proprietà privata è garantire la libertà e la dignità delle singole persone, aiutandole a soddisfare i bisogni fondamentali propri di coloro di cui si ha la responsabilità e anche di altri che vivono nella necessità (CCC, 2404-2406).
Il fisco
In fondo le tasse devono essere un modo con cui si attua il dovere di garantire il bene comune (ad esempio le cose pubbliche e i servizi sociali) e anche di aiutare coloro che non sono in grado di procurarsi i beni fondamentali con le proprie risorse.
Lo stesso prelievo fiscale può essere distribuito (in base ad aliquote eque) in modo tale da obbligare chi può dare di più a dare di più (per il bene comune). Questo ovviamente senza raggiungere livelli di oppressione fiscale da scoraggiare le imprese e le possibilità stesse di creare lavoro o rendendo i prodotti non più competitivi sul mercato (e spingendo persino verso l’evasione fiscale), oppure ancora che l’eccessiva pressione fiscale abbassi ulteriormente il potere d’acquisto dei salari, bloccando in questo modo il commercio (e sua volta persino gli introiti dello Stato, che appunto incassa anche attraverso la tassazione dei prodotti venduti).
Ricordiamo che ruba anche chi non paga le tasse (evasore); ma ruba anche l’amministrazione locale o statale se esercita una sproporzionata pressione fiscale o sperpera il denaro pubblico, per non parlare di chi lo usa per scopi personali o di partito.
Ricordiamo però che moralmente parlando non è lecito rispondere agli abusi delle amministrazioni pubbliche con altrettanti abusi privati (come per una sorta di auto compenso). Se ci sono leggi inique vanno cambiate (anche eleggendo persone che politicamente vogliano, sappiano e possano farlo), così come il potere giudiziario deve fare tutto ciò che è di sua competenza per far rispettare le leggi e punire i colpevoli, senza interessi di parte.
Anche le richieste sindacali dei lavoratori devono attenersi allo stesso principio, senza richieste esagerate o corporativistiche, ma tenendo conto del bene comune (non solo delle categorie di lavoratori, ma a livello nazionale e internazionale). In proposito, anche il diritto allo sciopero deve essere regolamentato in modo tale che sia previsto come atto estremo (e non come prassi per raggiungere accordi contrattuali) ed evitando eccessivi e sproporzionati disagi sociali.
Lo Stato deve quindi fare tutto il possibile per garantire a tutti, specie a coloro che ne hanno più bisogno o che non potrebbero provvedere privatamente, l’assistenza sanitaria, la pensione (equa e alla giusta età) e i servizi sociali indispensabili (assistenza sociale, ecc.).
39. Qual è il significato del lavoro? quali diritti e doveri comporta?
Il lavoro
Abbiamo già parlato del diritto al lavoro e al riposo (v. in rif. al 3° comandamento)
Il lavoro è un diritto fondamentale dell’uomo, e anche un suo dovere, in base alle proprie capacità.
Il significato del lavoro non è però solo quello economico. Il suo scopo è il bene dell’uomo stesso (che nel lavoro esprime le proprie capacità), come pure della sua famiglia e della stessa società.
Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Il lavoro non può essere semplicemente sottoposto alle leggi di mercato, pur non potendone prescindere.
Nel suo significato cristiano, il lavoro è cooperazione con il Creatore; e persino la sua fatica (conseguenza questa del peccato originale) può avere un valore redentivo (come partecipazione alla Croce di Cristo, che è causa della nostra salvezza).
Ciascuno ha il dovere morale e civile di compiere bene il proprio lavoro, come di essere equamente retribuito. Nella retribuzione, come nel diritto al riposo, si deve tener conto anche della famiglia del lavoratore.
[Si veda in proposito tutta l’Enciclica di Giovanni Paolo II, Laborem exercens (14.09.1981)]
CCCC, 513. Che significato ha il lavoro per l’uomo? Il lavoro per l’uomo è un dovere e un diritto, mediante il quale egli collabora con Dio creatore. Infatti, lavorando con impegno e competenza, la persona attualizza capacità iscritte nella sua natura, esalta i doni del Creatore e i talenti ricevuti, sostenta se stesso e i suoi familiari, serve la comunità umana. Inoltre, con la grazia di Dio, il lavoro può essere mezzo di santificazione e di collaborazione con Cristo per la salvezza degli altri (CCC, 2426-2428; 2460-2461).
CCCC, 514. A quale tipo di lavoro ha diritto ogni persona? L’accesso a un sicuro e onesto lavoro deve essere aperto a tutti, senza ingiusta discriminazione, nel rispetto della libera iniziativa economica e di un’equa retribuzione (CCC, 2429; 2433-2434).
CCCC, 515. Qual è la responsabilità dello Stato circa il lavoro? Allo Stato spetta di procurare la sicurezza circa le garanzie delle libertà individuali e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti; di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico. In rapporto alle circostanze, la società deve aiutare i cittadini a trovare lavoro (CCC, 2431).
CCCC, 516. Quale compito hanno i dirigenti di imprese? I dirigenti di imprese hanno la responsabilità economica ed ecologica delle loro operazioni. Devono considerare il bene delle persone e non soltanto l’aumento dei profitti, anche se questi sono necessari per assicurare gli investimenti, l’avvenire delle imprese, l’occupazione e il buon andamento della vita economica (CCC, 2432).
CCCC, 517. Quali doveri hanno i lavoratori? Essi devono compiere il loro lavoro con coscienza, competenza e dedizione, cercando di risolvere le eventuali controversie con il dialogo. Il ricorso allo sciopero non violento è moralmente legittimo quando appare come lo strumento necessario, in vista di un vantaggio proporzionato e tenendo conto del bene comune (CCC, 2435).
40. Quali peccati contro il 7° comandamento devono essere vietati anche dal diritto?
Tra i peccati contro il 7° Comandamento, che sono in genere vietati dal diritto e spesso contemplati persino come reati, segnaliamo: il furto [la gravità è ovviamente proporzionata al valore economico sottratto o sciupato; ma è moralmente importante essere onesti anche nelle piccole cose (cfr. Lc 16,10); lo Stato deve poi fare tutto il possibile per creare nei cittadini, specie nei giovani, una mentalità onesta e una amministrazione pubblica che premi effettivamente l’onestà e penalizzi i disonesti], l’evasione fiscale, i danni (anche alle cose pubbliche; devono essere puniti anche tutti coloro che danneggiano luoghi e servizi pubblici, come ad esempio i mezzi di trasporto pubblici), l’abuso di interessi privati (a danno del bene comune o della spesa pubblica), la corruzione (dare o ricevere tangenti o regali per ottenere appalti o raccomandazioni), le false raccomandazioni (non per segnalare i meritevoli ma semplicemente per ottenere o dare favori, magari politici o economici), il gonfiare finanziamenti, il falso in bilancio, non mantenere gli impegni contrattuali, denunciare il falso per ottenere finanziamenti (per malattie, invalidità, incidenti, assicurazioni), la contraffazione di assegni o fatture, non saldare i debiti o non restituire i prestiti (anche rate, mutui), le illecite speculazioni finanziarie (su questo anche lo Stato deve vigilare e poter intervenire, anche a livello di organismi internazionali), l’usura, l’appropriazione e l’uso privato dei beni sociali di una impresa, lo sperpero del denaro pubblico, l’eseguire volutamente male o senza il giusto impegno il lavoro pattuito, l’assenteismo, il disinteresse per la cosa pubblica (ad esempio non votando), l’abuso di sciopero e di altre forme di protesta (ad es. occupazioni), il corporativismo (a danno del bene comune), le mancate o inique retribuzioni ai dipendenti *; è inoltre immorale e può essere reato anche l’omertà (non denunciare o nascondere il male altrui; specie quando diventa un diffuso sistema sociale, su cui conta anche la grande criminalità organizzata).
* = è significativo come la Chiesa abbia sempre sottolineato la particolarità di questo peccato (detto “frode nella retribuzione agli operai”), elencandolo tra i 4 peccati “che gridano vendetta al cospetto di Dio” (come si diceva). Si tenga anche presente che, al fine di determinare la giusta retribuzione, si debba considerare anche il carico familiare (numero di figli o di persone a carico); lo stesso dicasi anche per verificare la liceità o meno del ricorso a mezzi estremi per far fronte alle crisi del mondo del lavoro (cassa integrazione, licenziamenti), prevedendo anche equi ammortizzatori sociali, senza ovviamente abusarne e senza gravare eccessivamente sulle imprese o aggravando la posizione di coloro che sono in cerca di lavoro (disoccupati e giovani in attesa di un primo impiego).
Alcuni peccati e persino reati (comunque contrari alla vera giustizia e alla Dottrina Sociale della Chiesa) sono talora talmente penetrati nel costume sociale oppure sono talmente connessi con strutture nazionali e internazionali, da dare l’impressione di non potervisi sottrarre o comunque di essere impotenti a qualsiasi cambiamento. Si pensi ad esempio alle strutturali ingiustizie sociali nazionali e mondiali, al potere delle multinazionali, alla speculazione finanziaria mondiale (senza identificabili padroni ma in grado di capovolgere intere economie addirittura in tempo reale), alla massoneria, ma anche alla mafia, al mondo della droga e della malavita, etc. Si parla in questo senso di “strutture di peccato”, che possono superare non solo le responsabilità dei singoli ma persino del singolo Stato. Rimane comunque vero che anche in questo caso la coscienza dei singoli (da cui si forma anche la coscienza collettiva) può e deve assumersi le proprie responsabilità, immediatamente o nel tempo (anche promuovendo nuove mentalità sociali, a cominciare dall’educazione delle nuove generazioni), senza rassegnarsi e cadere in un deleterio fatalismo.
CCCC, 518. Come si attua la giustizia e la solidarietà tra le nazioni? A livello internazionale, tutte le nazioni e le istituzioni devono operare nella solidarietà e sussidiarietà, al fine di eliminare o almeno ridurre la miseria, la disuguaglianza delle risorse e dei mezzi economici, le ingiustizie economiche e sociali, lo sfruttamento delle persone, l’accumulo dei debiti dei paesi poveri, i meccanismi perversi che ostacolano lo sviluppo dei paesi meno progrediti (CCC, 2437-2441).
[in riferimento al 10° Comandamento]
Oltre a tutto quanto abbiamo già sottolineato riguardo alla fondamentale responsabilità educativa (a cominciare soprattutto dalla famiglia, ma che da parte della società e dello Stato) al fine della costruzione di una società degna dell’uomo, o al contrario pena la propria stessa autodistruzione, segnaliamo che pure lo Stato, con le sue leggi, deve impedire o limitare tutto ciò che – a cominciare dai responsabili della cosa pubblica ma anche nei messaggi quotidianamente divulgati dai media – esalta i facili o eccessivi guadagni (anche nel mondo dello spettacolo – persino nei giochi televisivi – o dello sport), i lussi sfrenati, ostentando lo sperpero di denaro pubblico o spingendo addirittura verso vere e proprie dipendenze psicologiche (dalle mode, dal mondo delle scommesse, dei giochi d’azzardo – v. le nuove ludopatie).
Sottolineando di nuovo come lo Stato, secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, non debba prevaricare sulla società ma porsi al suo servizio, si veda anche il dovere da parte dello Stato di sostenere in ogni modo tutte quelle forme di carità in favore dei poveri e dei bisognosi di ogni tipo e di ogni popolo (un “amore preferenziale” da parte della Chiesa), presenti così capillarmente nella società e di cui la bimillenaria storia della Chiesa ci offre una testimonianza immensa e unica nella storia dell’umanità (addirittura attraverso innumerevoli e specifici carismi, istituzioni e persino ordini religiosi). In tal senso si consideri come lo Stato, verso il quale queste opere benemerite compiono persino un “compito si supplenza” (lo Stato non riuscirebbe a far fronte a tutte le situazioni di bisogno), non concede privilegi se ad esempio offre contributi finanziari o esoneri fiscali, ma riconosce doverosamente l’immenso servizio sociale che essi svolgono.
CCCC, 520. A che cosa si ispira l’amore per i poveri? L’amore per i poveri si ispira al Vangelo delle beatitudini e all’esempio di Gesù nella sua costante attenzione per i poveri. Gesù ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). L’amore per i poveri si attua attraverso l’impegno contro la povertà materiale e anche contro le numerose forme di povertà culturale, morale e religiosa. Le opere di misericordia, spirituali e corporali, e le numerose istituzioni benefiche sorte lungo i secoli, sono una concreta testimonianza dell’amore preferenziale per i poveri che caratterizza i discepoli di Gesù (CCC, 2443-2449; 2462-2463).
La Dottrina Sociale,
la presenza viva della Chiesa nella società,
la testimonianza dei Santi
Come abbiamo già ricordato, la Dottrina sociale della Chiesa non è solo una Dottrina insegnata dal Magistero della Chiesa, ma ha promosso (e promuove) nel mondo e nella storia non solo immense opere di carità, ma anche benefiche trasformazioni sociali.
Abbiamo già ricordato come ad esempio proprio la presenza dei cattolici polacchi, sulla linea della Dottrina Sociale della Chiesa, ha reso possibile quel movimento di popolo che nel 1989 ha condotto, senza alcuna violenza, al crollo del regime comunista non solo in Polonia ma nell’intero ex blocco sovietico, riportando alla libertà e alla democrazia interi Paesi europei.
Nella storia la Chiesa ha promosso innumerevoli opere sociali, che stanno alla base dell’intera civiltà occidentale e del mondo intero.
Ricordiamo ancora lo studio di Woods Jr., How the catholic Church built western civilization, Washington D.C., 2001 (tr. it., Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli 2007).
L’ospedale è ad esempio un’invenzione di fatto cristiana, perché solo a partire dalla fede in Cristo l’ammalato è stato considerato non qualcuno da emarginare (come era nel paganesimo) ma un segno della presenza stessa di Gesù, da amare. Molti santi hanno per questo generato anche nuovi ordini religiosi particolarmente dediti agli ammalati e hanno fondato innumerevoli ospedali (non a caso quelli storici portano il nome di un santo; addirittura in francese l’Ospedale viene chiamato anche Hotel-Dieu) [cfr. ad es. Francesco Agnoli, Case di Dio e Ospedali degli uomini, Fede e Cultura (2011)].
Ma assai spesso tali opere sono scaturite dallo Spirito Santo attraverso i carismi e le opere dei Santi.
Potremmo parlare dell’immensa opera sociale addirittura di due donne: una del XIV secolo in Italia, Santa Caterina da Siena, che con la sua opera portò non solo tanto bene alla Chiesa e alle anime, ma anche la pace tra molte città italiane (non a caso è stata proclamata patrona d’Italia), e una del XV secolo in Francia, Santa Giovanna d’Arco, che addirittura la liberò dal dominio inglese [v. sul sito: Sulle orme di < Sulle orme dei santi]. Si pensi poi ai nuovi carismi nati nel XV-XVI secolo, soprattutto nel mondo dell’educazione, specie dei fanciulli poveri [S. Angela Merici (fondatrice delle Orsoline), S. Antonio Maria Zaccaria (fondatore dei Barnabiti), S. Girolamo Emiliani (fondatore dei Somaschi), S. Ignazio di Loyola (fondatore dei Gesuiti), S. Filippo Neri (iniziatore degli Oratori), S. Giuseppe Calasanzio (1557-1648, fondatore degli Scolopi)] o dell’aiuto dei poveri e degli malati [S. Giovanni di Dio (fondatore dei Fatebenefratelli), S. Camillo de Lellis (fondatore dei Camilliani), S. Gaetano da Thiene (fondatore dei Teatini), S. Vincenzo de’ Paoli (1581-1660, fondatore dei Lazzaristi)]
Quando poi col XVIII secolo le grandi problematiche sociali (industrializzazione, lavoro, capitale, diritti dei lavoratori) sono esplose con particolare virulenza, non solo il Magistero della Chiesa è intervenuto offrendo più specifici e autorevoli indicazioni con i Documenti propri della Dottrina Sociale (specie dalla Rerum Novarum di Leone XIII), ma lo Spirito Santo ha suscitato veri e propri Santi sociali e nuovi carismi.
Pensiamo, solo per rimanere nell’Italia (e perfino nel Piemonte) del XIX secolo: S. Giuseppe Cottolengo (1786-1842), S. Giuseppe Cafasso (1811-1860, v. sul sito: Sulle orme di dei santi), S. Giovanni Bosco (1815-1888, fondatore dei Salesiani), il Beato Faà di Bruno (1825-1888), S. Luigi Orione (1872-1940, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza).
In riferimento all’ VIII Comandamento
“Non dire falsa testimonianza”
CCCC, 523. Che cosa proibisce l’ottavo Comandamento? (CCC, 2475-2487; 2507-2509)
L’ottavo Comandamento proibisce: – la falsa testimonianza, lo spergiuro, la menzogna, la cui gravità si commisura alla verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore e ai danni subiti dalle vittime; – il giudizio temerario, la maldicenza, la diffamazione, la calunnia che diminuiscono o distruggono la buona reputazione e l’onore, a cui ha diritto ogni persona; – la lusinga, l’adulazione o compiacenza, soprattutto se finalizzate a peccati gravi o al conseguimento di vantaggi illeciti.
Una colpa commessa contro la verità comporta la riparazione, se ha procurato un danno ad altri.
CCCC, 524. Che cosa chiede l’ottavo Comandamento? L’ottavo Comandamento chiede il rispetto della verità, accompagnato dalla discrezione della carità: nella comunicazione e nell’informazione, che devono valutare il bene personale e comune, la difesa della vita privata, il pericolo di scandalo; nel riserbo dei segreti professionali, che vanno sempre mantenuti tranne in casi eccezionali per gravi e proporzionati motivi. Cosi pure è richiesto il rispetto delle confidenze fatte sotto il sigillo del segreto (CCC, 2488-2492; 2510-2511).
CCCC, 525. Come deve essere l’uso dei mezzi di comunicazione sociale? L’informazione mediatica deve essere al servizio del bene comune e nel suo contenuto dev’essere sempre vera e, salve la giustizia e la carità, anche integra. Deve inoltre esprimersi in modo onesto e conveniente, rispettando scrupolosamente le leggi morali, i legittimi diritti e la dignità della persona (CCC, 2493-2499; 2512).
41. Quando si può e si deve dire o non dire?
Certo, il dire il falso può essere pure un reato perseguibile, come nel caso di una falsa testimonianza in un processo, un inganno in un contratto, in un rapporto economico, una pubblicità ingannevole, una grave calunnia; ma anche, al contrario, la rivelazione di un segreto professionale o addirittura militare; allo stesso tempo anche l’omertà può diventare un reato (se copre un male che deve invece essere denunciato o non fornendo informazioni utili per un’indagine).
I mass-media
Questo punto non secondario della Dottrina Sociale della Chiesa comprende pure tutto il mondo della comunicazione e dei mass-media (già toccato altrove), che deve essere al servizio della verità e non del male. E’ oggi più che mai evidente come al diritto/dovere dell’informazione debba però associarsi il dovere di non infamare alcuno, di rispettare il buon nome e l’onore di chiunque, di non considerare colpevole un indiziato fino al giudizio definitivo (“presunzione di innocenza”).
Rientra in questo campo anche tutto ciò che concerna il diritto alla riservatezza (“privacy”), con quel che concerne la possibilità o meno o perfino l’abuso investigazioni, pedinamenti, come pure delle intercettazioni telefoniche da parte dell’autorità giudiziaria (tanto meno devono diventare oggetto di scoop mediatici).
S’è poi già accennato all’importanza degli strumenti di comunicazione di massa (e perfino di cultura e di spettacolo) in ordine alla formazione o inquinamento delle coscienze, cioè il loro essere al servizio della verità oppure della menzogna, all’inutile divulgazione del male (che tra l’altro crea emulazione), se non addirittura dello scandalo o persino dell’induzione psicologica al male. Non è contro la libertà e il diritto all’informazione che si possano e debbano porre dei limiti (censura) in questo senso.
Allo stesso modo deve essere impedito per legge, per il bene dei singoli e della società, tutto ciò che possa creare forma di schiavitù psicologica, di perversione intellettuale e morale, di circonvenzione di incapaci, di plagio (come nel caso di alcune sette o gruppi esoterici).
Può infine rientrare in questo campo anche l’esistenza e la partecipazione (illecita) a poteri occulti (economici, politici), o società segrete, che cercano di incidere potentemente ma in modo subdolo (disonesto e talora persino criminale) sulla società, sugli indirizzi economici, culturali, politici, sulla scelta dei leader sociali, con legami di potere che sfuggono al controllo sociale e alle decisioni democratiche.
Documentazione del Magistero
Le Encicliche sociali [e alcuni degli altri documenti sociali pontifici]:
Pio IX, Quanta cura (e Sillabo) (8.12.1864) sui principali errori dell’epoca [cfr. n. 20 sul Risorgimento]
Leone XIII, Immortale Dei (1.11.1885) sulla costituzione degli Stati – Libertas (20.06.1888) sulla libertà umana
Leone XIII, Rerum novarum (15.05.1891) sulla condizione dei lavoratori
Graves de communi (18.01.1901) sull’azione sociale cristiana
Pio X, Singulari quadam (24.09.1912) (ai vescovi della Germania) sui sindacati cristiani
Benedetto XV, Ad Beatissimi Apostolorum Principis (1.11.1914) sui principi della carità e della giustizia cristiana
Pacem de munus pulcherrimum (23.05.1920) sulla ricerca di una vera pace tra i popoli
Pio XI, Ubi arcano (23.12.1922) sulla vera pace e il vero bene dei popoli
Quadragesimo anno (15.05.1931) sulla restaurazione dell’ordine sociale secondo il Vangelo (40° della Rerum Novarum)
Divini Redemptoris (19.03.1937) sul comunismo ateo e sulla Dottrina Sociale cristiana
Pio XII, Summi Pontificatus (20.10.1939) sulla situazione dell’umanità sconvolta dalla tragedia della guerra
Allocuzione natalizia (24.12.1939) su una giusta pace internazionale – Radiomessaggio (1.16.1941) nel 50° della Rerum Novarum – Radiomessaggio natalizio (24.12.1941) sui presupposti per un nuovo ordine internazionale – Radiomessaggio natalizio (25.12.1942) sull’ordine interno delle nazioni – Discorso agli operai (13.06.1943) sulla pace nel mondo e sulla collaborazione delle classi – Radiomessaggio (1.09.1944) sulla funzione della civiltà cristiana – Radiomessaggio natalizio (24.12.1944) sul problema della democrazia – Discorso alle ACLI (11.03.1945) su sindacalismo cristiano – Discorso alle donne (21.10.1945) sulla dignità e missione della donna – Allocuzione natalizia (24.12.1945) in prep. del primo Concistoro sull’ordinamento della pace mondiale – Discorso ai Cardinali (20.02.1946) sulla funzione della Chiesa per la ricostruzione della società umana – Discorso alle ACLI (29.06.1948) sull’azione apostolica dei lavoratori e sull’azione sindacale – Radiomessaggio natalizio (24.12.1952) sulla spersonalizzazione dell’uomo – Discorso ai giuristi cattolici (6.12.1953) sulla comunità di Stati e di popoli – Discorso ai lavoratori (1°.05.1955) sulla funzione dei lavoratori cristiani – Radiomessaggio natalizio (24.12.1955) sulla vera pace e sicurezza dei popoli fondate in Cristo
Giovanni XXIII, Mater et Magistra (15.05.1961) sui recenti sviluppi della questione sociale nella nuova condizione dei tempi
Pacem in terris (11.04.1963) sulla pace tra i popoli nel rispetto dell’ordine stabilito da Dio
Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes (7.12.1965) e Dignitatis humanae (7.12.1965)
Paolo VI, Populorum progressio (26.03.1967) sullo sviluppo dei popoli
Discorso all’ONU (New York, 4.10.1965)
Lettera ap. Octagesima adveniens (14.05.1971) per l’80° anniversario della Rerum Novarum
Sinodo dei Vescovi, Documento su “La giustizia nel mondo” (30.11.1971)
Giovanni Paolo II, Laborem exercens (14.09.1981) sul lavoro umano
Sollicitudo rei socialis (30.12.1987) nel 20° della Populorum progressio
Centesimus annus (1°.05.1991) nel centenario della Rerum Novarum
Veritatis splendor (6.08.1993) su alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa
Evangelium vitae (25.03.1995) sul valore e l’inviolabilità della vita umana
Discorso a Puebla (28.01.1979) su Confessare Cristo davanti alla storia – Discorso all’ONU (2.10.1979) su La dignità della persona umana fondamento di giustizia e di pace – Messaggio all’ONU (25.08.1980) sui problemi dello sviluppo – Discorso (del 15.05.1981, non tenuto per l’attentato) in occasione del 90° della Rerum Novarum
Benedetto XVI, Caritas in veritate (29.06.2009) sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità
CCC (Catechismo della Chiesa Cattolica), 1992, n.n. 1877-1948; 2014-2019; 2187-2188; 2207-2213; 2234-2246; 2263-2279; 2286-2287; 2292-2317; 2354; 2384-2391; 2401-2442; 2477; 2488; 2491-2499; 2523; 2525-2526; 2537.
CCCC (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica), 2005, n.n. 401-414; 444; 454; 463-465; 466-486; 494; 499; 502; 503-520; 524-525.
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (a cura del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace), Libreria Ed. Vaticana, 2004, pp. 520.
Alcuni documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede:
Dichiarazione Persona humana (29.12.1975)
Istruzione Libertatis conscientia (22.03.1986)
Nota Dottrinale (24.11.2002) circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica
Lettera La cura pastorale delle persone omosessuali (1°.10.1986)
Istruzione Donum vitae (22.02.1987)
Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali (23.07.1992)
Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (3.06.2003)
Lettera ai Vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo (31.05.2004)
Altro:
Carta dei diritti della famiglia, Pontificio Consiglio per la famiglia (22.10.1983)