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A Praglia, tra i Colli Euganei nei pressi di Padova, c’è una storica abbazia benedettina, tuttora con circa 40 monaci. Da un anno vi è abate Stefano Visentin, di 61 anni.
Era uno scienziato ad alto livello: si occupava di acceleratori di particelle nell’ambito di un progetto dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Era infatti un fisico nucleare; e per anni ha viaggiato fra l’Italia e gli USA, passando da un laboratorio all’altro (Trieste, Padova, New York, Rochester). «Studiavo spettrometria di massa ad alta energia, cioè la presenza di elementi chimici molto rari, tipo quelli dei meteoriti», confessa l’abate. Ma poi un passaggio decisivo: «Mi domandavo però: cosa guida il mondo? Perché esistiamo? Qual è la realtà ultima? Mi accorsi così che la scienza è straordinaria per conoscere la natura, ma è anche impotente di fronte ai più profondi interrogativi».
Così ha scoperto Dio; e s’è inoltrato nella Teologia, conseguendo la laurea e il dottorato di ricerca; e poi è approdato alla spiritualità monastica.
Dopo essere stato docente di Teologia e addirittura Magnifico Rettore del Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo in Roma, retto dai Benedettini e specializzato nella Liturgia, dal 2019 è Abate della millenaria Abbazia di Praglia (che tra l’altro ospita, come in genere gli storici monasteri, una grande biblioteca: questa è addirittura Monumento nazionale).
Dunque un itinerario di ricerca, intellettuale ed esistenziale: da Einstein a San Benedetto (passando anche da Pascal, il grande matematico che visse in modo fecondo il rapporto tra fede e ragione, fino al paleontologo gesuita Teilhard de Chardin), dalla scienza sperimentale alla Teologia, dall’Istituto di Fisica nucleare all’Abbazia di Paglia.

Trovandosi Praglia a pochi km da Vo’ (tra i primi focolai e zone rosse d’Italia per Coronavirus), è venuto spontaneo chiedere all’abate anche la loro esperienza in merito. «Per noi è stato un momento di grazia: siamo tornati allo spirito più austero, più intenso della regola benedettina. L’ho considerato un momento di grazia particolare che ci ha consentito di vivere l’essenza della vita monastica. Nessun turista, nessun ospite, negozio chiuso. Meno distrazioni e questo ci aiutato a riflettere, ad approfondire, come se fosse stato un lungo periodo di esercizi spirituali». E una importante riflessione generale in merito: «La pandemia mette in discussione la fiducia smisurata che questa civiltà ripone nella scienza e nella tecnica. Ci ricorda che siamo tremendamente fragili, che tutto può finire, che la materia finisce. Il virus ci sta dicendo che forse siamo stati troppo arroganti». Poi continua: «la scienza non ci potrà mai salvare da ogni nostro male e la pandemia lo sta dimostrando. Basta un virus, un essere invisibile, e viene a galla tutta la debolezza della condizione umana. Pensavamo che le epidemie, Sars, ebola, riguardassero ormai solo altri paesi, dove non c’è una sufficiente cultura scientifica. Non è così. Non avremo mai in mano la natura, nonostante il progresso e la ricerca, che ci può aiutare, sia chiaro, ma non può salvare il mondo. L’uomo non sarà mai autonomo, autosufficiente. C’è qualcosa di molto più grande che sta sopra di noi e nulla potrà mai superarlo. Il peccato originale è sempre lo stesso: l’uomo che vuole farsi Dio. Magari è questo che Dio ha voluto dirci: bisogna essere più umili, spirituali». [fonte: Corriere della sera, 8.08.2020]