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Secondo la legge approvata dalla Camera e già iscritta con insolito tempismo all’o.d.g. del Senato – legge detta sinteticamente sulle DAT (Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento) – si può esprimere «la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza» (art. 1 comma 5)¸ cioè rientra nella propria libera determinazione – alla quale il medico ha l’obbligo di dare seguito! – decidere di non assumere o non proseguire quel che è necessario per mantenersi in vita.
Non si parla esplicitamente di “eutanasia”, per non destare troppi clamori o contestazioni, ma di fatto è già riconosciuta la libertà di “suicidarsi” per rifiuto (a priori) di trattamenti sanitari salvavita.
Però, secondo la legge italiana, cooperare (per non dire istigare) ad un suicidio è “reato”, come lo è persino qualsiasi omissione di soccorso, non parliamo poi se si tratta della possibilità di salvare una vita umana. Allo stesso modo le forze dell’ordine sono chiamate ad intervenire se una persona volesse suicidarsi (ad esempio su un ponte o un cornicione), per impedirlo. Lo Stato poi ha delle leggi, persino nel Codice della Strada, per garantire l’incolumità della singola persona, anche là dove essa stessa non volesse goderne (ad es. l’obbligo del casco in moto, della cintura di sicurezza in auto).
Dunque per la prima volta in Italia, secondo il principio ispiratore della legge in discussione (DAT), di fatto “la vita” diventa un bene “disponibile”; ma questo è appunto in contrasto col principio della “indisponibilità” inscritto nella Costituzione e nel complesso delle leggi ordinarie, come della nostra tradizione ininterrotta di civiltà giuridica.
L’ordinamento in cui le nuove disposizioni sono inserite diventa dunque persino contraddittorio, perché altri beni, assai meno rilevanti della vita, restano indisponibili.
Anche nelle modalità, la possibilità di rinunciare a salvarsi la vita può essere persino più semplice che vendere o rottamare un’auto usata. Per questi atti, infatti, occorre comunque ricorrere ad un atto pubblico, cioè spendere denaro e compiere qualche adempimento formale di fronte ad un notaio.
Se invece si decide di disporre della propria vita e di rinunciarvi, secondo l’articolo 4 comma 6 delle DAT, tali proprie disposizioni  «devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del Comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro,ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, quando ricorrano i presupposti di cui al comma 7» (ma il comma 7 recita a sua volta che «le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica […] possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al fiduciario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili»).
Cerchiamo di orientarci, per comprendere cosa si nasconde dietro questo linguaggio giuridico. Mentre per trasferire una proprietà o anche solo un veicolo da rottamare è sempre necessario il notaio, per decidere della vita o della morte di una persona basta, in alternativa all’atto pubblico, una scrittura privata autenticata o addirittura un foglietto firmato da consegnare al Comune, se questi ha un apposito registro.